Trans-Global Express: cinema e world music per una cultura più fluida

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Musica

Trans-Global Express: cinema e world music per una cultura più fluida

Al centro dei documentari del Seeyousound Festival c'è l'ibridazione in musica.
Sonia Garcia
Milan, IT

La terza edizione di Seeyousound Festival è cominciata venerdi 27 gennaio e andrà avanti fino a sabato 4 febbraio, al Cinema Massimo di Torino. Fiore all'occhiello del festival di cinema musicale, quest'anno è la rassegna Trans-Global Express, costituita da sei lungometraggi ad opera di registi indipendenti, ciascuno con una diversa storia da raccontare, relativa a una diversa parte del mondo. Protagonista di queste narrazioni è l'ibridazione tra vecchio, in musica, tra vecchio e nuovo, folklorico ed elettronico, indigeno e urbano, in un contesto in cui i confini e le definizioni tendono a perdere di significato. Alcune storie sono vere e proprie mappature sonore di paesi o interi continenti, altre vedono la musica come veicolo politico di lotta, tramite il quale trasmettere messaggi ben precisi, altre sono poesie molto intime fatte film. La rassegna è insomma una celebrazione della world music—proveniente letteralmente da più parti del mondo—come elemento chiave di un'epoca storica in cui la vera salvezza risiede nella diversità.

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Qualche tempo fa mi è arrivato l'invito di Juanita Apraez Murillo, curatrice e co-fondatrice del festival, a presentare il panel ufficiale della rassegna, con ospiti i registi di quattro dei sei film coinvolti. Sono rimasta abbastanza stupita perché prima di allora non avevo mai avuto un'occasione simile, e dato che il tema mi sta molto a cuore, ho accettato di buon grado.

I film-documentari, come dicevo, in totale sono sei, e al panel sono stati invitati i registi di 4 di questi: Yallah! Underground di Farid Aslam, in cui si esplora un ricco sottobosco di artisti underground fiorito durante gli anni della primavera araba; Fonko di Lars Loven, sulla rivoluzione pop nell'Africa nera, narrato attraverso vecchie interviste di Fela Kuti; Sonido Mestizo di Pablo Mensi, sulla fusione tra tradizione folklorica e innovazione elettronica in Ecuador; Shu-De! di Micheal R. Faulkner, ovvero l'avventura di Shodekeh, beatboxer di Baltimora in trasferta nella Tuva russa/siberiana, a contatto con gli storici maestri di canto gutturale.

Sonido Mestizo

Diretto dall'argentino Pablo Mensi e prodotto da Grant C. Dull, co-fondatore di ZZK Records e Zizek Club con sede a Buenos Aires, Sonido Mestizo è stato girato interamente in Ecuador, tra costa, selva e Ande, a contatto con la musica popolare tradizionale e l'elettronica di oggi. In ogni parte del mondo, a geografie diverse corrispondono sempre fioriture di culture e tradizioni diverse. Il film vuole ripercorre le tre nature dell'Ecuador, usando come filo conduttore la musica e la sua differenziazione a seconda del territorio di appartenenza. La serie a cui appartiene si chiama "The New LatAm Sound", progetto audiovisivo di Mensi e Dull, che documenta le scene musicali regionali di determinati paesi sudamericani, quali Argentina, Ecuador, Colombia, Perù. Tutti questi paesi godono di una geografia simile a quella dell'Ecuador, e la visione del film non fa che portare alla mente le infinite esperienze comuni di un popolo diviso da confini solo sulla carta, ma che in realtà ha molto da raccontarsi.

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È uno dei film con più interesse per la sperimentazione e ricerca musicale; questa eredità qui è vista come chiave per la riappropriazione di un'identità, tutt'ora compromessa da anni di reflussi postcoloniali, e conseguente razzismo interno allo stesso paese. La musica è il testimone che il passato dell'Ecuador consegna alle nuove generazioni del presente, con le dovute tutele dai rischi del mercato globalizzato e della cosiddetta "appropriazione culturale."

A mappare gli stili musicali ecuadoriani sono gli stessi artisti, in una dicotomia vecchio/nuovo che si riflette anche nella narrazione: prima si approfondisce ciò che è tradizionale, con interviste agli storici musicisti del posto, poi l'arrangiamento in chiave moderna, quindi i giovani producer. È interessante anche l'analisi del termine "mestizo", qui relativo alla fusione tra passato e presente della musica ecuadoriana, ma anche alla condizione del popolo latino americano: non solo indigeno, ma anche nero, caucasico e meticcio. C'è una corrispondenza tra i musicisti "nativi", quindi relativi alla tradizione folklorica, dai tratti somatici più marcatamente indigeni, e i loro eredi del presente—Quixosis, Nicola Cruz, EVHA—dalle fattezze più mestizas, meticce per l'appunto. A un'ibridazione di suoni corrisponde un rimescolamento di etnie, in grado di creare nuova "materia prima" in cui in futuro re-identificarsi. "È vero", mi spiega infatti Pablo, "questa corrispondenza esiste, ma è anche più versatile di quello che si crede. Ricordo che quando abbiamo girato la parte con Enrique Males, musicista folklorico dalle fattezze da vero indio, il mio socio, decisamente chiaro di pelle, parlando con lui ha scoperto di avere parenti con lo stesso cognome di quelli di Males… e da fuori non si sarebbe mai detto!"

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Yallah! Underground

Yallah! è stato girato da Farid Eslam, tedesco di origini afghane, nell'arco di cinque anni, tra il 2009 e il 2013, in piena primavera araba—parallelamente al sempre vivo conflitto israelo-palestinese—nei paesi che ne sono stati protagonisti, quindi Egitto, Libano, Palestina, Giordania. Gli artisti coinvolti, sono tutti parte della scena indie underground di questi paesi; alcuni ci vivono ancora, altri si sono spostati più a nord, nel fantomatico "Occidente". A differenza degli altri film, Yallah! dà maggior peso alla dimensione politica del fare musica, quindi ai messaggi di paura, speranza, liberazione di cui sono intrisi i lavori di ogni singolo musicista intervistato.

È forse il film più complesso e politicizzato, appunto, di tutti, vista la psicosi sempre più dilagante nei confronti del mondo arabo e delle relative culture. La ricerca musicale passa in secondo piano, e i generi approfonditi—indie pop, rap, rock, dancehall/reggae—sono affiancati da testi e messaggi potenti, aiutando gli artisti a esprimere con creatività pensieri e idee che altrimenti sarebbe stato difficile diffondere. Ho adorato la scelta registica di puntare proprio sulla parola e sulla lingua araba, soprattutto considerando il momento politico in cui ci troviamo. La lotta alla sempre più normalizzata discriminazione verso l'Islam e, stando anche alle recenti scelte di Trump, verso l'intera popolazione araba deve avvenire quotidianamente mediante qualsiasi mezzo, e Yallah! è un bel ceffone in faccia all'islamofobia. "In realtà la religione qui gioca un ruolo secondario", spiega Farid, "gli artisti come quelli che ho coinvolto nel film, che si muovono quindi nel territorio dell'underground, si esprimono attraverso la musica nonostante parte della comunità non approvi. Questo accade in tutto il mondo, credo".

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La frase di Karim Adel Eissa, artista hip-hop egiziano, sulla caduta del governo Mubarak nel 2011, è emblematica e trasmette un sentore di irrequietezza: "Credi che non ti accadrà niente fino a quando non vieni colpito per la prima volta". Con le loro storie, gli artisti parlano di com'è fare musica politicamente nel cosiddetto Medio Oriente, restituendogli una dimensione umana che fa molta fatica a trasparire dai media occidentali.

Fonko

I registi di Fonko sono tre e sono svedesi: Lars Lovén (presente al festival, con cui ho avuto il piacere di parlare), Lamin Daniel Jadama e Göran Hugo Olsson. Il film si riavvicina allo stile di Sonido Mestizo e percorre alcuni paesi dell'Africa centrale, documentando il processo di riscoperta della propria eredità musicale da parte di quei giovani musicisti che oggi scuotono il continente di nuova vitalità creativa. Come in Yallah!, però, anche qui la musica ha una forte componente di rivalsa sociale, mossa dalla volontà di decolonizzazione del territorio, autodeterminazione e sradicamento dell'ipocrisia "democratica", che in realtà favorisce solo una minima parte dei suoi abitanti. In un continente come l'Africa—ma anche nei paesi della sua diaspora—è essenziale che l'arte rivesta questo ruolo, specie alla luce delle derive nazionaliste sempre più razziste e xenofobe di molti paesi europei e, vabbè, degli ormai irrecuperabili Stati Uniti.

Dal punto di vista musicale ho trovato in questo film una serie di suggestioni dovute all'incontro tra ritmi tipici e dimensione del clubbing, quali l'azonto Ghanese, la house sudafricana—la gqom non viene approfondita, ma insomma, è come se ci fosse—il kuduro Angolano. Gli stessi hip-hop e pop vengono riassemblati e liberati dai costrutti che il mercato occidentale ha sempre imposto dall'alto, con risultati incredibili e unici nel loro genere (vedi il rapper ghanese-romeno Wanlov The Kubolor).

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"Un genere di cui non abbiamo parlato in Fonko per questioni di tempo", racconta Lars, "ma che merita una nota è l'hiplife. Si tratta della fusione tra l'highlife ghanese e l'hip-hop. L'highlife è stato un genere musicale in voga negli anni '20/'30 in Ghana, che si rifaceva al jazz e agli arpeggi melodici di chitarre ritmati da percussioni molto groovy, che oltreoceano, a Cuba, ha portato alla nascita del guajeo e della salsa. L'hiplife ricorda molto la dancehall e il reggae, pur essendo molto più melodico, e nasce a inizio anni '90. È molto diffuso ancora oggi, è stato un peccato non poterne parlare".

In Fonko l'elemento del ballo, nella sua accezione più pop/popolare, riveste un ruolo molto importante: è a tutti gli effetti un linguaggio tramite cui affermarsi, unirsi e resistere. E l'Africa unita è un tema ricorrente all'interno della narrazione del film. La voce narrante di Fela Kuti fa da filo conduttore per le scene musicali approfondite paese per paese, e si dirama in aneddoti e pensieri di natura politica—tra cui il Panafricanesimo—tratti da interviste d'archivio inedite, dalla forte suggestività.

Mi ha colpito molto la digressione sulla religione, in cui si afferma che nell'Africa centrale, Islam e cristianesimo sono Credo-alibi, forzature imposte da altri popoli come ennesima sostituzione culturale di ciò che vi esisteva da prima del loro arrivo. "È paradossale perché gran parte degli artisti che abbiamo intervistato in Fonko sono cristiani, anche se sanno benissimo che non era quella la loro vera religione, inizialmente. Vivono questo paradosso in pace però, e comunque ce ne sono pochissimi che rimangono sensibili agli spiriti ancestrali".

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Shu-De!

"Shu-De" significa "andiamo" in lingua tuvana, ed è anche il nome del primo documentario dello statunitense Micheal R. Faulkner sull'avventura nella regione siberiana della Tuva dell'amico beatboxer di Baltimora Shodekeh. Quest'ultimo deve il suo nome, datogli dalla madre, a un antico guerriero nigeriano—di dov'è originaria la sua famiglia—ed è peculiare l'assonanza tra il titolo del film e il nome del suo protagonista.

La sua avventura comincia nel 2011, quando viene a contatto per la prima volta con gli Alash Ensemble, storici maestri di canto armonico tuvano—anche detto xöömij, a prevalenza maschile—capitati a Baltimora durante il loro tour dell'epoca negli Stati Uniti. In quell'occasione Shodekeh e i membri della band hanno avuto modo di conoscersi e unire le loro arti vocali, con risultati strabilianti per entrambe le parti. Di lì a poco Shodekeh riceve l'invito ufficiale per la partecipazione all'International Xöömij Festival, a Kyzyl, nella Tuva. Invito che estende anche all'amico Faulkner, che intuisce la grande portata artistica di un'esperienza del genere.

Il film è uno dei dipinto più cristallini del connubio tra tradizione e innovazione, tra Oriente e Occidente (ultima volta che ricorro a questi termini, giuro). L'esperienza di Shodekeh fa da struttura portante per la scoperta della geografia e della tradizione tuvana, e la stessa musica, nella sua accezione più corporale e fisica, mette in evidenza la poesia di questa simbiosi. I beat che Shodekeh incorpora nei canti gutturali, sono veloci, serrati, quasi drum 'n' bass, o a volte più genuinamente hip-hop; l'intento è apportare una voluta scarica di adrenalina alle vocalità tuvane, di natura molto più ipnotica e magnetica.

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Shu-De! viene definito un "artefatto culturale", più che un film, e il regista concorda con questa interpretazione. "Sono molto felice di come sono proseguite le cose, dopo l'ultimazione del film", specifica Faulkner. "Shodekeh e Alash Ensemble stanno lavorando a un album insieme, e sono in lavorazione altri progetti sempre di scambio di artisti tra Stati Uniti e Tuva. Se ne stanno occupando le municipalità del posto, perché hanno visto che i risultati sono ineccepibili. Non sono sicuro se può essere definito un vero e proprio genere musicale, ma sono convinto sia questa 'l'oasi di unità attraverso la collaborazione musicale' di cui parla Shodekeh nel film. E negli ultimi anni molte donne tuvane stanno iniziando a praticare il Xöömij, proprio come gli uomini, perciò si prospetta che non ci saranno più disparità, in questo senso".

Gli strumenti dell'arte e della cultura che agiscono concretamente per il miglioramento di una data società sono più efficaci quando sfaccettati, meticci. La rassegna Trans-Global Express dell'edizione di quest'anno di Seeyousound è un po' quella "oasi di unità" molteplice nominata da Shodekeh, e perseguita un po' da chiunque veda la diversità come una forza motrice, e non come un ostacolo. In questo tetro 2017, ne avremo sempre più bisogno.

Il festival Seeyousound prosegue fino al 4 febbraio. Acquista i biglietti qui.

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