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Musica

Abbiamo parlato con Davide Toffolo del suo libro sulla Cumbia

Il frontman dei Tre Allegri Ragazzi Morti ha scritto un libro sulla cumbia e abbiamo provato a capire se era davvero necessario.
Sonia Garcia
Milan, IT

Quando fai parte di una comunità diasporica, cioè separata dal tuo territorio di origine, tendi a idealizzare la tua appartenenza alla tua terra d'origine, innescando un bizzarro fenomeno di auto-esotizzazione. "Siamo privilegiati, Sonia, siamo nati in Occidente," mi ha detto qualche settimana fa un amico, anche lui latino ma cresciuto negli USA. "Non possiamo andare in giro a parlare delle nostre terre di origine come se ci avessimo vissuto, perché non è così." Vero. E quel che è peggio è che così facendo spesso finisci a enfatizzare gli stereotipi e le visioni che le culture e società dominanti hanno di quelle minoritarie, come la tua.

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Odio essere la persona che specifica la sua provenienza prima di un discorso, proprio per questo motivo. In casi come quello che mi ha portata qua, a scrivere del nuovo libro di Davide Toffolo Il cammino della cumbia. Le circostanze di partenza erano però talmente sbagliate che non ho avuto molte alternative. “Sono cresciuta con questa musica,” non riesco a evitare di sbottare appena Toffolo, al telefono, fa per spiegarmi la storia della cumbia peruviana. “Da che ho memoria che in casa dei miei si ascolta solo huayno e cumbia. So com’è nata, so cosa si porta dietro.” “Anche la chicha?” chiede Toffolo. “Sì, anche la chicha. Siamo peruviani.”

Un po’ di contesto: Davide Toffolo, 53 anni, frontman dei Tre Allegri Ragazzi Morti e fumettista nel maggio 2017 assembla la compilation Istituto Italiano di Cumbia vol.1, nella quale propone una nuova onda di "italo-cumbia" ad opera di 9 gruppi provenienti da tutta Italia. Alcuni di questi hanno membri di origini latine ed è grazie alla loro presenza che Toffolo è autorizzato a tirare in ballo la dimensione diasporica del progetto, che in poco tempo diventa un collettivo. Peccato che la direzione artistica non sia in mano alla diaspora latino-italiana, ma a un gruppo di artisti italiani che vedono nella cumbia "il futuro della musica".

"La missione dell’Istituto è portare la Cumbia in Italia e renderla un genere popolare e contemporaneo, come in Colombia, Argentina e nel resto dell’America Latina", si legge in un articolo. Ma la cumbia non ha bisogno di essere resa popolare in Italia, dato che non è italiana ed è già popolare dove di dovere. O che la comunità latina in Italia fa volentieri a meno della versione italiana della cumbia, perché esiste già quella originale. O ancora, che con quell’“Istituto” nel nome, la sensazione è quella di una cumbia istituzionalizzata, borghese, in totale contrasto con la storia ancestrale di violenza, mestizaje e resistenza che si porta dietro. Come può un’espressione artistica che nasce da presupposti storici, sociali e culturali non immaginabili né applicabili al primo mondo, essere brandizzata e rivenduta da questo come moda del momento?

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Toffolo non sembra avere particolari problemi a riguardo. Anzi, cita Joe Strummer quando gli chiedo come sia nato il suo amore per la cumbia. “Se il cantante dei Clash dice che la musica di Andres Landero è la musica definitiva, io, che vengo da un ambiente pienamente punk, non posso non dargli ascolto. Anche a me eccitava da morire la dimensione de l’acordeon, specie nella cumbia colombiana degli anni ‘70.” Il punto è che i prodotti artistici provenienti dal terzo mondo non hanno mai avuto bisogno della validazione del primo.

A inizio 2018 Toffolo, Nahuel Martinez, di origini argentine e membro dell’IIC, e Paulonia Zumo, hanno percorso gran parte del continente latino-americano "indagando sul cammino della cumbia". Sono partiti dall’Argentina, dove Toffolo aveva conosciuto la cumbia nel 2002 nella sua variante villera, passando per Bolivia, Perù, Ecuador e infine Colombia, dove la cumbia è nata. L’indagine è stata poi trasposta nell’omonimo libro a fumetti, uscito lo scorso venerdì per Oblomov Edizioni.

In 200 pagine Toffolo rende il suo bizzarro omaggio alla cumbia, o meglio all’idea stereotipata e feticizzata che ha della cumbia, con una reinterpretazione "psichedelica" della loro esperienza per il continente latino-americano. In questa narrazione di "scoperta" della cumbia, ci tiene a precisare, "protagoniste sono le voci delle persone che abbiamo avuto la fortuna di incontrare strada facendo". Sono così raccontati i viaggi dall’Argentina al Perù, con la promessa che quelli di Ecuador e Colombia costituiranno un libro a parte, una secondo capitolo ancora in lavorazione.

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Le domande che mi sono sorte ancora prima di iniziare l’intervista erano molte: abbiamo davvero bisogno di “ricercatori” europei che istituzionalizzano/brandizzano la cumbia, avvalendosi dello smisurato "amore" provato per essa? Quanto ancora dovrà passare prima che si smetta del tutto di utilizzare il termine "scoperta", per generi musicali, tradizioni, culture non-occidentali?

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Noisey: "Cumbia" oggi è un termine generico. Da molti decenni ormai che non esiste più una cumbia, ma tante. In che modo ci si può sentire a proprio agio prendendo un termine così sfaccettato, nato da manifestazione di enorme violenza come colonialismo e schiavismo, e associandolo a un territorio europeo come l’Italia?
Davide Toffolo: Tu sei un esempio evidente. In Bolivia la chiamano "ultima diaspora sudamericana", e ci sono alcuni artisti che sono prodotto di questa diaspora. Penso a Nicola Cruz, nato in Francia da genitori ecuadoregni, poi tornato in Ecuador per capire meglio la sua forma. In questo processo si è portato dietro una modalità di composizione che è prettamente europea, francese nel suo caso. Un altro esempio sono i Cacao Mental, in Italia, che incontrano un cantante nato a Tingo Maria, Perù, e che ha tutto un suo suono che è evidentemente peruviano. Incontrandosi con dei musicisti milanesi, riscopre l’idea di poter andare in una direzione particolare, considerando che i suoi coetanei ascoltavano tutti black metal.

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Cosa intendi per "evidentemente peruviano"? Qual è la tua idea di peruviano?
È difficile generalizzare, lo so, ma se senti il disco ti accorgi della particolarità della sua voce. È un cantante che evidentemente viene da là, lo si capisce anche dalle tematiche dei testi. Scrive lui i brani, e ha questa visione un po’ magica della foresta amazzonica e delle sue origini. Non è facilissimo immaginare tutto questo cantato da un italiano.

Ovvio, sì. Il punto è che mi pare sia lo stesso un’idea stereotipata di "peruvianità". Il Perù è un paese immenso e le tradizioni musicali della selva sono diverse da quelle delle Ande, come da quelle della costa. Poi è ingenuo pensare che in questi territori si ascoltino solo i corrispettivi generi tradizionali.
Chiaro. Mi considero un ricercatore e penso di aver appreso le differenze territoriali nei paesi latino-americani. Anche il nome del mio progetto è una specie di bandiera, ma lo so anch’io che la cumbia è complessa, che ha dei ritmi precisi, e che se non ce li ha diventa un’altra roba. È interessante che venga chiamata allo stesso modo in tutti quei paesi sui quali ho costruito il viaggio per realizzare il libro. A me piace l’idea che quel nome racchiuda il senso di musica migrante, arrivata anche in Messico, perciò non posso fare a meno di immaginare che si chiami così. Quando abbiamo chiamato la compilation Istituto Italiano di Cumbia, l’abbiamo fatto con un piglio anche un po’ situazionista. Il primo disco a cui ho partecipato si chiama Great Complotto, ed è stato realizzato a Pordenone, una provincia italiana estrema, patria di uno dei primi collettivi punk del paese. Scopo del situazionismo, era far capire che la geografia che ognuno di noi costruisce è un percorso psico-geografico, che in qualche modo reinventa la realtà. Immaginare di fare della cumbia in Italia, nonostante ci siano elementi reietti a un incontro di culture, vedi la destra italiana, è un modo per rappresentare lo stesso quella realtà. Da una parte l’attuale situazione europea e italiana, sta producendo degli incontri tra musiche migranti, come la cumbia. Dall’altra c’è questa mia innata passione per la musica locale, cioè specifica di un territorio. Il punk non è un genere nato in Italia, ma il punk italiano ha prodotto delle figate, vedi i CCCP, e in generale tutto il rock concepito su questo territorio. Ho sempre trovato interessante questo fenomeno, e ora come ora ritengo stia accadendo anche per la cumbia. Ti faccio queste precisazioni perché me le chiedi, ma di mio farei anche a meno di dartele sinceramente.

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Perché? Stiamo parlando di dinamiche complesse, a partire dai diversi rapporti di potere che intercorrono tra il nostro contesto e quello sudamericano.
Se tu parli con i Cacao Mental capirai che loro stessi sono stati i primi a non aspettarsi questi esiti. La loro storia è emblematica perché dimostra come dall’incontro di due culture possa nascere un progetto figo.

Mi riferisco più al processo alla base. Farsi portavoce di progetti che attingono da culture minoritarie.
Se ti innamori della musica di King Coya, o dei Los Mirlos, non ci puoi far tanto: sei uno che si è innamorato di quella musica. Ho immaginato questo percorso che ho fatto per capire cosa ci fosse di così eccitante per me, in questa forma musicale che ho conosciuto inizialmente 20 anni fa in Argentina. Sono stato là in un'epoca di forte crisi economica. In Argentina vivono molte persone di origini italiane ed esiste anche un piano per far riavvicinare le famiglie sparse tra i due paesi, così da avere accesso a maggiori benefici economici. Io vengo dal Friuli, una regione che a partire da fine Ottocento ha prodotto una quantità altissima di migranti. Molti sono andati proprio lì e sono sempre rimasti legati all’Italia.

Nel 2001 ho conosciuto un ragazzo argentino che aveva i nonni italiani e che era venuto in Italia a raccontare questo dramma economico, cercando di riavvicinare i ragazzi di origine argentina ai nonni o ai bisnonni friulani. Così ha organizzato un incontro tra artisti italiani e giovani argentini. È lì che mi hanno chiamato, per via di un libro che avevo fatto su un pugile migrante, Primo Carnera. All’epoca non sapevo un cazzo di Sud America ma mi è sembrata un’occasione fighissima, e sono rimasto un mese e mezzo in un quartiere ad alta povertà. Lì ho incontrato questi ragazzi che arrivavano dalla Patagonia, di origine italiana, e grazie a loro ho iniziato a capire un po’ di più sulle mie origini e sull’America, dove gran parte della popolazione è alla costante ricerca delle proprie.

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Hai anche tu famiglia in Argentina?
No. Penso che siamo l’unica famiglia friulana che non ha avuto dei veri emigranti. Mi hanno chiamato come artista. Partecipando a questo progetto, mi sono trovato in Argentina in un momento in cui tutti ascoltavano solo cumbia villera, e in qualche modo quello è stato il mio primo incontro con quella musica.

Argentina e Uruguay hanno molto in comune, a partire proprio dalle politiche di immigrazione dall'Europa, e dalla composizione demografica. Vengono chiamate colonie di poblamiento, ripopolamento, perché la scelta di far affluire migrazioni europee fu stabilita a livello governativo, non fu casuale.
La cumbia è interessante per questo, perché incarna tre componenti: quella nativa, quella nera, e quella dei conquistadores. La chiave del mio racconto è proprio questa. Anche se tutti i paesi hanno una visione regionale della musica c’è una nuova generazione di musicisti che hanno una visione più globale del suo mutamento. Su questo costruiscono un’ipotesi continentale d’identità, non soltanto regionale o nazionale. Non hai idea di quanto stupore abbiamo trovato negli occhi dei peruviani, o degli argentini, quando dicevamo che eravamo lì per fare un’indagine sulla cumbia. Se tu sei là e dici “Istituto Italiano di Cumbia”, è come dire una bestemmia, o comunque un ossimoro: metti insieme due cose opposte. L’Italia, che per gli argentini è la cosa culturalmente più alta che c’è, e la cumbia, che invece è la più bassa.

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Essere italiani e pensare di occupare un posto "culturalmente alto" nell’immaginario argentino è abbastanza peso. Ad ogni modo, i motivi per cui esiste questo scarto percettivo sono storici: razzismo e colonialismo.
In Argentina c’è uno dei movimenti più situazionisti che io abbia mai visto. Tutta l’onda di ZZK, l’etichetta che menziono nel libro, arriva dopo l’ondata di cumbia villera, che è estremamente situazionista. Quando incontro in Perù Elliot Tupac, il disegnatore, a un certo punto dice, "A me non interessa la cumbia elettronica nuova, perché non ha niente degli elementi della musica popolare che erano propri della chicha o della cumbia amazzonica peruviana. Come si può immaginare una musica popolare consumata da un’elite?" L’ho trovato molto reale. In Argentina la cumbia contemporanea è anche detta cumbia digital, perché da dieci anni la stanno cercando di fare in forma digitale, ed è diversa dai derivati commerciali che non mi interessano minimamente. Questa cumbia digital non ha l’impatto che ha avuto la cumbia villera, ma dà la possibilità di incontro che va oltre il paese. Arriva in Italia perché viaggia su un’altra dimensione, che è quella della rete.

Se vai a Buenos Aires vedrai che hanno cominciato a mescolare l’elettronica non solo con la cumbia ma anche con altri generi tradizionali. La figata di questo tipo di esperienza è proprio la dimensione transnazionale: è vero che in Argentina l’elettronica rimane una musica di "elite", però spesso capita che artisti di diverse provenienze lavorano con le stesse troupe/etichette e questo abbatte le barriere territoriali. Molti argentini di una certa età sono bruciati di cumbia villera. Nel senso che piace così tanto, che difficilmente si rendono conto che c’è altra roba in giro.

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Non so, mi sembrano discorsi troppo generici e in parte pretenziosi. Il Centro America, i Caraibi e il Sudamerica sono territori che pulsano di un’infinità di suoni, tradizioni musicali vecchie e nuove. Solo in Europa e nel primo mondo si tende a feticizzarne gli immaginari. Oltretutto mi pare sia di gran lunga più transnazionale il reggaeton, ad esempio.
Certo, quando ho intervistato tutti i ragazzini mi rispondevano sempre che era la trap il futuro della musica. Se nominavi la cumbia storcevano un po’ il naso. Non vivono una dimensione locale, mi è parso di vedere, ma più una mondializzata. La cumbia di per sé è sempre stata marginale rispetto al mercato. Per me la cosa interessante, come ho già detto, è che è una musica migrante, con una storia di trecento, quattrocento anni.

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È una storia comune alla gran parte dei generi latino-americani. La cumbia incarna le tre anime di cui sopra—nativa, nera ed europea—come riflesso della storia dei popoli che l’hanno resa tale. La storia coloniale e di schiavitù propria del continente latino-americano è il substrato su cui si sono sviluppate le culture, le tradizioni, le società dei paesi che lo costituiscono.
Capisco, ma la mia ricerca era sulla cumbia, non su altro. Mi sono focalizzato sulla sua dimensione transnazionale sul continente americano. Se si considera che è una musica che è arrivata fino in Messico la cosa si fa eccitante, almeno per me. Fra un po' renderemo pubblico il canale YouTube dell’Istituto Italiano di Cumbia, che avrà dentro tutte le interviste che abbiamo fatto ai musicisti che abbiamo incontrato e che sono anche sul libro. Nelle risposte si capisce bene come cambia anche solo la ragione del nostro nome. Una delle prime domande era "Quando hai sentito per la prima volta la parola cumbia?” Chiaramente quasi tutti hanno risposto che non è che l’avessero sentita, ci sono nati dentro. C’era chi l’aveva sentita ai matrimoni, altri che non se ne sono mai interessati se non prima dell’avvento dei Pibes Chorros… ognuno ha avuto la sua esperienza. Si capisce che in Colombia è musica tradizionale, in Argentina è musica che è diventata molto popolare ma che arriva da un’altra parte. Da qui musica dei migranti, dei poveri. Perciò si è sviluppato questo interesse, perché mi sembrava che fosse una metafora efficace di come la cultura, in questo momento storico, si sposti nel vuoto. Mi sembra di essere in difesa nelle risposte che ti do. Adesso vedo di non starci più.

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Faccio sempre fatica a escludere da questo tipo di conversazioni le intersezioni tra piani storici, politici, sociali, ecc. anche per via della mia esperienza personale. È semplice: non prendere atto della propria posizione nel mondo, geopoliticamente parlando, è espressione di un privilegio.
Certo, ma guarda che anche io non sono mica un coglione. La mia visione delle cose cerca di essere quantomeno oggettiva, realistica, non campata per aria. In Argentina siamo stati in quartieri composti interamente da discendenti italiani e non si vedeva l’ombra di indios, perché si trovavano tutti fuori città. Non sono completamente rincoglionito da pensare che non ci siano. So benissimo che l’Argentina è un paese razzista, classista e dalle problematiche sociali infinite… Mario Galeano, il più grande musicista di cumbia contemporanea colombiano, sosteneva che la natura della cumbia fosse tripartita. La figata che ci vedo è che parla a noi tutti, europei, latini e neri, allo stesso modo, proprio grazie a questa triplice natura. Io in questo mio viaggio ho fatto il ricercatore, non l’appropriatore. L’altra cosa interessante è che si tratta comunque di musicisti. Tanti esponenti illustri del genere non appartengono necessariamente a quel territorio. Prendi i jazzisti italiani: sono grandi musicisti, ma non hanno inventato loro il jazz.

Lo so. Il jazz è musica nera, afroamericana.
Esatto. Chet Baker non era nero, ma è comunque un grandissimo artista. La stessa musica peruviana, la rinascita della chicha e della cumbia amazzonica, l’ha incentivata un compilatore nordamericano, di New York, con una compilation curata da lui che si chiama Chicha Libre.

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La narrazione occidentale è dominante per definizione. Un nordamericano si può muovere come vuole ovunque nel mondo, quindi anche in America Latina. A un immigrato, specie negli USA, non è concessa la stessa libertà di movimento. So bene che non ci si può fare granché, ma perlomeno mi interessa far partire una conversazione.
Capisco quello che dici. Però ad esempio, quando siamo stati in Perù non avevamo molti contatti. Conoscevamo King Coya, a Buenos Aires, e basta. Da questa condizione di quasi solitudine abbiamo cercato e trovato altri contatti, chiedendo in giro ai musicisti, per capire fino a che punto si poteva arrivare. Questa linea di musicisti che abbiamo tracciato a inizio viaggio e che poi abbiamo seguito, è tutta concatenata. Ci abbiamo messo cinque minuti per andare da Buenos Aires a Cartagena, 8500 km di distanza, e incontrare persone che avevano un interesse a condividere con noi la storia della loro musica. Non è poco, eh.

È abbastanza normale avere la strada spianata, quando si è europei e bianchi, e si va nel terzo mondo a svolgere una qualsiasi “ricerca”, contando sull’aiuto dei locali. Mi pare coerente che sia stato facile muoversi e tessere contatti.
Capisco il discorso che fai, e da una parte può essere interessante. Dall’altra invece dico che mi interessa poco, perché il piano di incontro con gli artisti coinvolti ha a che fare con una mia scelta, ovvero quella di essere un artista a mia volta. Sono una persona che sceglie di spostarsi per conoscere le cose. Non è il primo viaggio che faccio per fare un libro, questo. Il libro su Pasolini l’ho fatto allo stesso modo, e il libro sul Re Bianco pure. La mia chiave, quando viaggio, è la ricerca delle cose senza protezioni, senza aspettative, e in modo più naturale possibile.

In che senso “naturale”? Anche la mia famiglia hanno viaggiato, nello specifico sono emigrati via dal loro paese, aspirando a una vita migliore altrove. Io sono qua a parlare con te grazie a quel viaggio. Anche qui, poter viaggiare è un privilegio, non una virtù.
Il mio non è viaggio di emigrazione, ma un viaggio di ricerca. È un’altra cosa. Cerco di mettermi in comunicazione con delle persone, ma la mia realtà è diversa. C’è un po’ di presunzione in quello che dici, perché dai per scontato di conoscere la mia realtà. Quale pensi che sia la mia realtà?

Non lo so…
Già, non lo sai. Non sai da dove vengo. Io non faccio un viaggio per raccontare di me, ma per mettermi in ascolto e raccontare una storia altrui, attraverso le parole di persone la cui azione artistica ha per me un valore.

Quello che voglio dire è che il processo appena descritto, avviene in una direzione agevolata dalla posizione più vantaggiosa dell’Italia rispetto all’America Latina, sul piano geografico/economico/politico.
Questa cosa che mi dici è interessante, lo accetto anche. Però secondo me è un modo di porsi non utile. Non è dialettico.

Nei tuoi confronti, probabilmente. Diciamo che l’ideale sarebbe amplificare le voci di chi magari vuole raccontare storie analoghe, e ha legami più diretti con i territori di riferimento. Senza reinventarsi portavoci di robe che non vi appartengono, traendone beneficio artistico.
Quello che ho fatto io è stato prendere un aereo, innamorato di un certo tipo di musica, e cercare un rapporto con dei musicisti per capire cosa ci fosse dietro quella musica. Da qui a immaginare uno “sfruttamento” della musica sudamericana siamo lontani. Non è la stessa cosa. È strano però, mi sento in difesa di una cosa che mi ha portato una gioia incredibile: mi ha fatto conoscere una quantità di cose, parziali, ovvio, ma significative. Non pretendo di conoscere tutto, ma qualcosa ho imparato. Non è la prima volta che vado in Sudamerica. Ogni volta che vado è sempre un’esperienza grandiosa, come per ogni viaggiatore, non per le persone che ci abitano. Penso però che anche il punto di vista del viaggiatore abbia una sua luce, un suo valore. Ho poco da convincerti… il mio libro dà voce a musicisti importanti della scena della cumbia, ai cui racconti io non ho messo veti. Ho solo chiesto loro di raccontare la loro esperienza, e ho messo insieme una storia, che è una storia di fantasia. Questo libro è un documentario e ci ho messo dentro le cose più belle che ho trovato. Non le mie parole, ma quelle degli artisti che ho incontrato. Ci sono più livelli di lettura: uno narrativo, uno di ricerca giornalistica, e un amore mio profondo per questa musica. È un lavoro complesso, non è solo un viaggio in Sudamerica perché mi piace la cumbia. Ho cercato di dare voce a chi di dovere. Se poi questa cosa la ritieni poco interessante, o appropriativa, puoi dirlo: è appropriativa. Io ti rispondo con: pensa quello che ti pare, l’intervista è la tua. A me farebbe più piacere parlare del libro, ti dirò. Ti ricordo che la mia voce emerge pochissime volte, in comparazione a quella degli artisti intervistati.

sul cammino della cumbia davide toffolo

L'artwork di Il cammino della cumbia di Davide Toffolo.

Sarebbe strano il contrario. Sul piano grafico il libro è efficace, e anche l’inventiva presa nella narrazione corale. Trovo però che questo aspetto sia secondario ai temi alla radice del progetto in sé, che vi ha portati a realizzare il libro.
Sento che sei molto diffidente in partenza, infatti. Questo qua è anche un libro divulgativo, se ci pensi: vuole divulgare cultura, in questo caso sulla cumbia. La divulgazione sulla cultura della cumbia, in gran parte è avvenuta anche attraverso del sito americano per il quale lavori tu. Ci sono infiniti articoli su Noisey che parlano di cumbia, sono bellissimi e sono fatti da nordamericani.

È questo il mio problema. Sei familiare con il termine “whitewashing?”
No, non conosco.

È un fenomeno in cui una realtà dalla qualsiasi natura—artistica, culturale, sociale, politica—di appartenenza non-bianca e non-occidentale, viene ripensata/resa appetibile da e per un pubblico bianco e occidentale. A me sembra che la vostra operazione sia un po’ questa, da lì la mia posizione critica.
Non saprei. Sai, forse questa è la cosa più importante e bella che ho mai fatto nella vita artistica, quindi per me è un po’ difficile essere oggettivo. Perché comunque prevede il rapporto con una storia enorme e con un territorio gigantesco, che non è una cosa da poco, né che ho fatto con leggerezza. Detto questo nel nostro progetto Istituto Italiano di Cumbia, ci sono tante voci di persone appartenenti alla diaspora sudamericana. In primis Nahuel Martinez, producer e DJ del gruppo, con cui ho viaggiato. Poi Kit Ramos, il cantante dei Cacao Mental, che è di Tingo Maria, Perù. Quando parlo di musica con lui, o ascolto la sua musica per me è una cosa grossa. Ci sono tante altre persone come me che sono affascinate da questa cosa. L’anno scorso c’era King Coya, che, ripeto, secondo me è un artista gigantesco, ma quando viene in Italia parla a 70 persone a concerto, non a trentamila. Una volta, prima del viaggio, eravamo tutti in studio, noi Istituto e la sua band, e stavamo provando insieme. A un certo punto ho proposto: “Facciamo una canzone metà fatta da noi, metà da voi.” Ho proposto di prendere un pezzo de Los Pibes Chorros e riarrangiarlo, ma loro mi hanno detto di no. “La cumbia villera, resta villera.” E l’ho rispettato, perché è una cumbia nata nelle villas, le baraccopoli bonaerensi, e nessuno di noi veniva da là. Abbiamo optato per un altro compromesso, una combinazione di cumbia e rock nacional, ed è uscito fuori un pezzo che per metà parla di Buenos Aires e per metà di Milano. Io lo trovo un ponte culturale potentissimo. Ci si può chiudere,o avere dei ragionamenti acuti come quelli che hai tu rispetto alla realtà delle cose, che sono giusti. Mi ha fatto piacere parlare di questi argomenti con te, d’altra parte però stiamo parlando di un amore per una cultura, per una musica. Non ci vedo nulla di appropriativo. Ad ogni modo la musica è così: scappa. Secondo me c’è poco da fare. Oltretutto a me interessa la cumbia nella sua variante italiana, perché continuo a essere convinto che stia prendendo sempre più piede. Alle presentazioni del libro che porto in giro per l’Italia, mi concentro proprio su quella, soprattutto nei dj e live set. La mia parte, in particolare, è solo di italo-cumbia. È una bomba, perché non l’ha ancora mai fatto nessuno. Segui Sonia su Instagram. Segui Noisey su Instagram e su Facebook.