Non abbiamo bisogno del grime italiano, ma di una versione italiana del grime

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Musica

Non abbiamo bisogno del grime italiano, ma di una versione italiana del grime

Abbiamo passato troppi anni a imitare la musica di strada di altri Paesi, ma saremo in grado di inventarne una nostra?

Quasi un anno fa, circa un mese dopo avere letto Sonic Warfare di Steve Goodman (e avere scritto questo articol​o in merito) mi è capitata sotto gli occhi l'intervista​ di Simone Bertuzzi a Francesco Cucchi, anche noto come Malumz Kolé o Nan Kolé, per il suo blog Palm Wine​. In quel blogpost io, come tanti altri, ho sentito per la prima volta parlare di Gqom​, il nuovo suono nato dalla township di Durban, Sudafrica. Che bomba! Si trattava, con mio fortissimo piacere, di un suono assolutamente marginale, realizzato con mezzi di fortuna nelle periferie di una grande città, in un Paese lontano dalle capitali d'occidente. Praticamente la riproposizione di un modello—spesso davvero troppo romanzato—di "nuovo groove che emerge dai confini dell'impero". Era, quindi, l'ennesima riconferma di quanto certe condizioni di alterità (economica/sociale/etnica) siano spesso terreno fertile per la nascita di comunità artistiche affiatate.

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In che modo le due cose sono collegate? Be' il libro di Goodman, nonostante la riduzione di cui io stesso sono colpevole, non parla solo di basse micidiali ed elettronica bellica, ma passa un sacco di tempo anche a costruire il concetto di "transglobal ghettotech", una mappa che unisce gli slum, le favelas, le inner city e le township di tutto il mondo a partire dai beat elettronici che risuonano per le loro strade. Praticamente l'idea urbanistica di sprawl​ applicata alla musica dance. "È circa a partire dal blues che la musica più urgente e moderna del pianeta sgorga dai margini feriti e sanguinanti della depressione urbana." dice Goodman, ma al centro di tutto sta un rapporto simbiotico con lo scarto tecnologico e soprattutto c'è il basso, o meglio, le basse: l'arma definitiva, le frequenze che attaccano il corpo innescandone i flussi di desiderio e generano azione. In effetti, quando ho scoperto l'esistenza della Gqom, mi sono un po' stupito che non fosse stato proprio Goodman il primo a portarne il suono in Europa, spingendolo su Hyperdub. In quel periodo pareva anche avere un po' le orecchie tese verso il Sudafrica, e invece è stato superato un ragazzo di Roma che vive a Londra, il quale pare davvero starsi facendo un culo così perché la comunità che produce quei beat tragga beneficio dall'interesse che c'è.

​Ora, ho citato la Gqom come esempio di musica dal "planet of slums / planet of drums" (per citare ancora Goodman e Mike Davis), ma sono ascrivibili a questa categoria anche generi molto meno appetibili e più bistrattati dagli intellettualoidi bianchicci come me: reggaeton, baile funk, electro-cumbia. Non a caso, stanno emergendo sempre più producer a cui interessa incrociare queste forme di elettronica troppo spesso bollate come "dozzinali" con elementi di dancefloor radicale, arrivando a sperimentazioni molto audaci e, che ve lo dico a fa', tanti dischi bomba. Da queste parti se ne parla molto, soprattutto grazie a Sonia Garcia​. In qualche modo, il concetto stesso di Transglobal Gettotech serve a mostrare in che modo queste culture o sottoculture musicali siano lontanamente imparentate, vuoi per l'influenza coloniale delle stesse culture egemoni, vuoi per via della diaspora africana, vuoi a causa di radici molto più antiche. Tra tutte, la tradizione TGT per antonomasia è senza dubbio quella giamaicana, che negli anni ha preso vie anche molto diverse tra loro, con un dinamismo legato a tutti i cambiamenti sociali e influenze culturali che hanno attraversato la sua (sparsissima) comunità, producendo feedback linguistici che sono andati rimbalzando da una parte all'altra del globo: dall'alba dei soundsystem​, al dub, fino al bashment.

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E poi c'è il rap. Rispetto alla TGT come spiegata da Goodman la differenza netta sta nel fatto che non nasce dalle province ma nel cuore dell'impero stesso, per quanto, ovviamente, in periferia. Stiamo parlando quindi di una lingua minore​ che ha molte più possibilità di confrontarsi con quella centrale rispetto alle altre elencate, ma il fatto che Goodman faccia partire tutto dal blues vuol dire che gli esempi sono stati tracciati proprio in USA. Non serve che spieghi come, spero. Oggi però la posizione del rap è decisamente strana: da una parte è diventato completamente mainstream, ficcandosi in ogni orifizio della cultura e nella musica pop, dall'altra il clima statunitense è ancora portatore insano di tensioni razziali, di ingiustizie, di violenza.
Non è per niente una novità: in effetti la stessa scalata del rap verso l'affermazione si è basata tutta su un tira e molla tra appropriazioni culturali e autodifesa, tra rapine coloniali e rivendicazioni identitarie.  Oggi è abbastanza facile dimenticarsi di citare la cultura hip-hop tra le varie musiche dello sprawl. Ad esempio: quando Francesco Nan Kolé parla di quali somiglianze occidentali sente nel Gqom,​ nomina il grime ma mai l'hip-hop americano. Forse perché troppo ovvio, o forse perché è da troppo tempo che il rap ha perso le sue radici di musica dance da raduno di quartiere. Eppure le evoluzioni più recenti non sono meno figlie della strada: trap e drill hanno riportato parecchia realness nel genere, e in molti casi hanno anche riallacciato i contatti con lo spirito danzereccio ancestrale. Stessa cosa per devianze che hanno fatto una gran fatica a emergere, come la scena footwork​ o quella vogue/ballroom​.

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​Il grime, che è tornato pesantemente di moda, viene percepito come molto più true: è comunque figlio del rap, e questo nessuno se lo scorda, mentre quasi tutti si scordano che tanti dei protagonisti della scena hanno avuto dei periodi di becerissimosputtanamentocommerciale​, e oggi fanno finta di niente con notevole faccia da culo. Va detto che quasi nessuno di questi exploit è durato molto, e la fortuna si è esaurita presto. Se non fosse per la famosa comparsata di Boy Better Know​ ai brit awards, le masse di giovani hipster folgorati da Skepta starebbero ascoltando altro. C'è anche un'altra questione da considerare: il grime, almeno finora, si è mantenuto abbastanza puro da tentativi esogeni di emulazione, con l'eccezione di un "nobile" esempio di cui parlerò più avanti. Sono pochissimi a provare a fare grime fuori dal Regno Unito. Difficile dire se si tratta di una delle cause o delle conseguenze di questa mancata esplosione.

​A qualcuno dispiace, a me non troppo. Sinceramente sono abbastanza contento che non ci siano in giro troppi esempi di grime italiano. In generale, non l'ho mai nascosto, non sono per niente un fan del rap italiano: so bene che si tratta di una cultura oramai radicatissima, ma per buona parte continua a sembrarmi un po' grottesco. Questo perché, in generale, credo che in più di venticinque anni di presenze rap sulla penisola, siano ancora troppo pochi i casi in cui ci si è riusciti a emancipare musicalmente dall'influenza americana. Anzi, in molti casi si è provato a diversificare quello che si diceva e non come lo si diceva, allontanandosi troppo da quell'urgenza sanguigna e tribale di cui parla Goodman. Il problema sta forse nel fatto che troppo spesso si è provato a forzare il rap su contesti e linguaggi del tutto organici alla cultura centrale. I casi in cui invece questo ha avuto successo sono invece quelli più legati all'espressività dialettale, alle parlate strette, alle comunità in qualche modo culturalmente più connotate e quindi figlie di un'italianità più ibrida. Penso infatti che l'incrocio con la musicalità napoletana​ sia, a tutt'oggi, quello che ha dato frutti più interessanti. In generale, quasi tutti gli episodi più felici sono venuti dal centro-sud. Sarà un rigurgito di orgoglio terrone, ma ancora oggi faccio fatica a prendere sul serio la maggior parte dei rapper del nord Italia. Perché la loro, inutile fingere, non è quasi mai lingua minore​.​

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​E quindi: perché niente grime italiano? Da un punto di vista strettamente musicale, non abbiamo fatto in tempo a ereditarlo quando è nato perché l'interesse italiano in fatto di hardcore contiuum è stato intermittente e incasinato (persino con la UK garage: nel periodo d'oro,da queste parti la conoscevano in quattro). Da uno più culturale… be'… Il grime nasce come versione tutta UK del rap, affrancandosi subito dal genere "madre" sia dal punto di vista lirico che da quello ritmico, attraverso un legame più stretto con il ballo e il raving e in risposta a delle specifiche componenti sociali locali… Che senso avrebbe che provassimo a rifarlo uguale? Immagino che non sarebbero pochi tra gli inglesi ad alzare un sopracciglio alla vista di un mucchio di bianchi italiani che gli fanno il verso, del resto il ritorno di fiamma per il grime ha già generato appelli contro l'appropriazione culturale da parte della middle class bianca​.

Finora gli esponenti della scena sono stati comunque accoglienti nei confronti dell'unica vera scena grime extra-britannica, quella giapponese, che però ha subito dimostrato di volere avere una vita musicale propria oltre che una certa street cred di classe. Anzi, è davvero notevole il fatto che il Giappone, un tempo conosciuto e anche un po' sfottuto come rielaboratore di tutte le estetiche che arrivavano da occidente, negli ultimi anni si sia contraddistinto più che altro per le sue particolarissime versioni di grime e footwork​​.

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​Gli esempi visti finora in Italia, invece, non sono molto incoraggianti, visto che nella maggior parte dei casi si tratta di gente che prova a rappare su beat inglesi​, o comunque li scimmiotta peso. L'unica crew di italiani​ capaci di produrre strumentali grime fighi si è trapiantata tutta a Londra, quindi non fa testo. In generale, in tutti questi anni l'Italia non è stata granché capace di produrre dei beat elettronici di strada che fossero più suoi che altrui, e di radunarvi attorno una comunità. Sinceramente, l'unico fenomeno di questo tipo che so di avere vissuto in prima persona è stata la stagione dei rave illegali, fortissima dalle nostre parti più che in tanti Paesi europei. Anche lì, però, non si è andati molto oltre: di tekno italiana ce n'era tantissima, ma non è che stilisticamente fosse più riconoscibile o più avanti di quella francese o ceca. Altrove e in altre epoche, si è solo sfiorata la possibilità di costruire una via italiana ai beat di strada. Quindi non mi stupirei, e anzi, ringrazierei che non ci siano tanti italiani che scimmiottano Wiley quanti che scimmiottano Chief Keef.

Ma in fondo, dirà qualcuno, chi se ne frega? Cos'è sto afflato mezzo nazionalista? Che mi importa se l'Italia produce o meno musica di strada riconoscibile. Be', anzitutto, più che orgoglio nazionale qua a parlare è la frustrazione di vivere in un Paese in cui i fenomeni musicali forti si costruiscono o per emulazione o, quando sono originali, esclusivamente a partire da un'attitudine più arty, non stradaiola. Perché, capiamoci, di musica originalissima e incredibile da queste parti ce n'è a pacchi, ma non è questo il punto. Mi chiedo solo come mai le strade d'Italia sembrino non parlare, cosa ci sia che soffoca o impedisce la nascita di una cultura marginale. Qualcuno dice che il nostro gangsta rap è il neomelodico napoletano, ed è sia una verità che una grossissima cazzata.

​Diciamo le cose come stanno: il nocciolo della questione è che, se mai questa transglobal ghettotech italiana dovesse mai sorgere, non sarebbero certo i bianchi a produrla, ma le comunità di migranti. L'europa è piena di esempi del genere: dalla post-kuduro di Principe Discos, nata a Lisbona da ragazzi di origine angolana ("this is our grime​", parole loro) alla bubbling olandese​ (una musica fatta per anni da migranti caraibici, di senza cui non esisterebbe roba che stravende come la moombathon). Ma siamo sicuri che il tessuto sociale italiano permetterebbe a fenomeni del genere di fiorire? Mi viene spesso da pensare che la xenofobia diffusa in questo Paese lo soffocherebbe, ma che soprattutto la depressione culturale di cui è preda abbia già colpito anche le minoranze.

Che ci siano seconde generazioni come Ghali​, che in qualche modo prova a infilare un po' della sua lingua e del suo vissuto nella trap, fa intravedere un minimo di luce, anche se il suo stile resta largamente dipendente dal genere-madre, dagli esempi americani e da quello che va di moda. Io mi auguro che il difetto stia nelle mie orecchie poco attente, e che qualcosa di nuovo in ambito TGT stia ribollendo, perché se le nostre strade non troveranno la loro vera voce e il loro groove, resteranno ancora paralizzate.

Segui Francesco su Twitter — @FBirsaNON