Dentro all'alter-ego digitale di Björk

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Musica

Dentro all'alter-ego digitale di Björk

L’artista islandese ci racconta il suo rapporto con la realtà virtuale e dell'intimità tra musicista e ascoltatore che questa tecnologia comporta.

Quest'anno è uscito un film intitolato El Abrazo de la Serpiente​, che fornisce un quadro in prosa e immagini della devastazione dovuta al colonialismo novecentesco in Amazzonia. È la storia, in parte vera e in parte fittizia, di un giovane sciamano proveniente da una tribù lontana di nome Karamakate che si relaziona con gli esploratori europei in cerca di viaggi spirituali sotto Ayahuasca. A un certo punto nel film uno degli esploratori mostra a Karamakate una sua fotografia: lo sciamano non si era mai visto in foto prima di allora. La cosa lo disturba, entra in stato di shock. Chiama il personaggio in quell'immagine il suo chullachaqui: un termine che significa "spirito vuoto". "Tutti abbiamo un chullachaqui," dice, "che all'apparenza è identico a noi, ma è vuoto, è un falso, una copia che gira per il mondo come un fantasma.

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Mi è venuta in mente quella scena mentre guardavo Björk parlare alla conferenza stampa con cui stava promuovendo l'arrivo di Björk Digital—una mostra di lavori digitali e video che celebra le collaborazioni presenti nel suo ultimo album, Vulnicura—alla Somerset House di Londra. In realtà, a quella conferenza stampa non era fisicamente presente Björk, a parlare era un suo doppio: un avatar creato con una speciale tecnologia motion capture che dominava lo schermo, adornata con una maschera cibernetica fatta di insetti, ciliegie e violette creata in base a un progetto dell'artista James Merry. Sì, erano il cervello di Björk e la sua voce a rispondere alle domande, ma i problemi di connessione creavano una certa distanza, una freddezza tra lei e i suoi interlocutori. C'erano lunghi momenti di silenzio, alcune interruzioni, movimenti inconsulti per cui l'avatar reagiva in modo strano, voltando le spalle al pubblico di tanto in tanto. C'era un assurdo senso di lontananza nell'aria. Per farla breve, è stato come guardare qualcuno che chiama un amico su Skype, ma ha uno screensaver davvero fico.  Certo, questo rapporto con le macchine è abbastanza consueto nell'approccio dell'artista islandese. Björk e la tecnologia stanno come il pane con la marmellata. Per anni ha esplorato le intersezioni tra natura e tecnica, in modo da creare, con la sua arte, passaggi immaginari verso un futuro armonioso, riuscendo a convincerci, a tratti. La sua app datata 2011, Biophilia, si è trasformata in un progetto educativo, che ha lo scopo di insegnare ai ragazzini ad esplorare la propria creatività mentre imparano cose su musica, scienza e tecnologia. In Scandinavia la stanno testando già da tre anni nelle scuole: è entrata realmente a far parte dei piani di studio. "Di tutti i miei progetti, è quello che sta dando maggiori frutti," racconta Björk.

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Il posto che Björk​ Digital (che ha già girato l'Australia e il Giappone) occupa all'interno della narrativa di questa artista sembra scontato: si tratta di una riflessione sull'importanza crescente della realtà virtuale—una tecnologia oramai abbracciata da chiunque, dall'industria cinematografica a quella del gaming, dagli sport alla moda alla psicologia e, sì be', anche dal porno—e sul modo in cui questa tecnologia può essere utilizzata per implementare la fruizione della musica e di progetti artistici in generale. L'intento di Björk​ Digital è abbastanza semplice: utilizzare l'apparato della Realtà Virtuale (gli occhiali e le cuffie) in modo da creare esperimenti audiovisivi che trascendano il semplice concetto di video musicale e diventino piuttosto esperienze immersive. In sostanza: se avete visto gli ultimi video di Björk su YouTube, siete solo alla punta dell'iceberg. Questa mossa è coraggiosa, non soltanto per via del lato evidentemente futuristico del suo approccio, ma anche perché attualmente la realtà virtuale non dà molta sicurezza. Certo, questa tecnologia è in violentissima espansione (Mark Zuckerberg ha già acquistato la compagnia di punta, Oculus Rift, per due miliardi di dollari, e se c'è qualcuno che ne capisce di affari in questo mondo è sicuramente lui), tuttavia è ancora in fase totalmente sperimentale, il che significa che uno può rimanere deluso, ora come ora, ma rischia pure di impazzirci completamente. Il cervello è un organo ingenuo, credulone (ne è prova il fatto che alcuni provano le vertigini o la nausea anche da fermi, se immersi in una realtà virtuale che gliele provoca), e molti pensatori sono preoccupati delle implicazioni etiche di una realtà in cui se guarderemo un porno ci sembrerà di scopare per davvero e se facciamo fuori qualcuno in un videogame ci sembrerà di ammazzare per davvero.

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"I visori di realtà virtuale come l'Oculus Rift e l'HTC Vive saranno messi sul mercato quest'anno e improvvisamente verranno utilizzati da milioni di persone," spiega Thomas Metzinger​, un filosofo dell'Università Johannes Gutenberg di Mainz, Germania. "La realtà virtuale può introdurre un'illusione molto concreta di incarnazione, in cui senti che possiedi e sei in grado di controllare un corpo non tuo. Non siamo ancora in grado di stimare le conseguenze psicologiche di tale condizione." Sull'altro piatto della bilancia, però, ci sono le innumerevoli esperienze di realtà virtuale che finora hanno generato delusioni su più fronti. Esperienze che portano con sé una serie di problematiche come glitch, stress visivo, noia, interfacce grafiche limitate e difficoltà a tenere addosso quell'apparecchiatura per più di una decina o al massimo una ventina di minuti. Nonostante il punto di vista di professori come Metzinger, Zuckerberg prevede che entro una decina di anni​ questa tecnologia prenderà piede seriamente nel mercato. Quindi che ruolo gioca l'esperimento Björk​ Digital all'interno di questo panorama?

Be', innanzitutto, assistere a questa mostra non è esattamente un'esperienza sconvolgente a livello estetico. Se la realtà virtuale rappresenta il futuro per le arti, l'arte non ha bisogno di spazi espositivi immensi come le gallerie a cui siamo abituati—basterebbe qualche sgabello e una stanzetta buia. La mostra si divide in due palchi principali, lo spettatore ci passa accanto seguendo un percorso simile a quello che fai quando vai all'Ikea. Per prima cosa arrivi in una sala-cinema a 360 gradi in cui è proiettato "Black Lake", poi attraversi un vortice di esperienze di realtà virtuale, infine arrivi in un'altra sala-cinema in cui sono proiettati in loop alcuni storici video di Björk, passati i quali non ti resta che provare l'app Biophilia. Io ho optato per restarmene lì, sdraiato, nella sala proiezioni, con il mio zaino come cuscino, senza riuscire a fare niente di particolare se non starmene a guardare video di cui quasi mi ero dimenticato (tipo "Triumph of a Heart"​, in cui Björk​ è coinvolta in una relazione complicata con un gatto). Nonostante possa risultare quasi opprimente, a tratti, Björk​ Digital ha i suoi momenti forti. Alcune delle cose più interessanti vengono fuori dal tentativo di coniugare due delle propulsioni più frequenti della cultura occidentale: da una parte le tendenze accelerazioniste dell'era digitale, dall'altra il desiderio comune di un ritorno alla natura e alla semplicità, che possiamo riscontrare vedendo il crescente successo di iniziative tese al benessere, alla consapevolezza, all'alimentazione di un certo tipo, o anche solo nell'amico che decide di lasciare la città per dedicarsi all'agricoltura nel suo paesino di campagna (questa è l'epoca del cavolo, o quantomeno così l'ha nominata Ariel Levy sul New Yorker​). Sì, hai la testa infilata in un dispositivo digitale pieno di cavi, sì, l'ambiente in cui si tiene questa mostra è molto freddo, ma le immagini che Björk sceglie di trasmetterti sono tutte naturali, terrene. La caverna oscura e stretta di "Black Lake," con le sue pareti di pietra vulcanica, è adornata da sonorizzazioni a 360 gradi e immagini in miniatura a cui sei completamente allacciato. Per "Stonemilker" sei su uno scoglio, il mare gelido arriva a toccarti i piedi, dietro di te, lontano, si staglia un faro, e poi arriva Björk​ che si mette a urlarti letteralmente in faccia.

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Una delle esperienze più complete di questo giro di realtà virtuale arriva durante "Notget", che ti spara totalmente fuori dalla realtà per gettarti in una specie di nero abisso virtuale. Davanti a te c'è Björk, trasformata in una gigante falena digitale, che marcia sul posto. Il suo corpo brilla come fosse un plancton fluorescente, intanto cresce di dimensioni fino a diventare gigantesca, che potrebbe calciarti via da un momento all'altro. Mentre si allarga, mentre cambia, la sua forma si avvicina alle immagini allucinatorie che si formano, a quanto pare, durante trip di sostanze come DMT e ayahuasca. Ma lei continua a crescere, cresce fino a diventare una torre davanti ai tuoi occhi. Mi avvicino, per quanto me lo permettano i cavi a cui sono attaccato, e metto la mia testa nella sua pancia—con parti del corpo della falena-Björk che mi fluttuano attorno come se fossi appena caduto in una bottiglia di Goldschlager. Guardo in alto, posso vedere i tiranti che tengono insieme la gigantesca costruzione del suo corpo virtuale, le caverne e le colonne che reggono il suo collo e la sua testa. Questo è stato veramente figo.

Ho parlato al telefono con Björk​ dopo aver visitato la sua mostra. Per descrivere quell'esperienza virtuale ha usato la parola "intima", e credo che mettere la testa all'interno del busto di una delle tue artiste preferite e guardare com'è fatta dentro possa essere considerato anche più di intimo. Ma per la maggior parte del tempo ho trovato che le esperienze virtuali proposte portassero più a un isolamento che a una comunione, mi sono sentito intrappolato sensorialmente in un mondo in cui l'unico punto di vista umano è il tuo. Per molti fan, questa mostra è arrivata in sostituzione di un tour vero e proprio, quando in realtà non si avvicina nemmeno un po' alla ricchezza di un'esperienza live. Le ho chiesto cosa intenda esattamente quando parla di intimità.   "Dipende da cosa stai guardando," mi risponde. "La realtà virtuale può essere molto solitaria e spaventosa, ma può anche raggiungere la polarità opposta: quella in cui c'è intimità, vicinanza. Certo, per fartela sentire è necessario che qualcuno la crei. Anche i libri possono risultare un'esperienza analogamente solitaria, non trovi? Nella mia famiglia ci sono tanti lettori accaniti—persone che, se succede qualcosa di negativo, si chiudono in stanza a leggere—ecco, loro non sono propriamente maestri della comunicazione. Con la realtà virtuale succede un po' lo stesso che coi libri: ci sono libri orribili e poi ci sono quei capolavori che ti colpiscono in mille modi diversi. E riporta questo discorso alla musica: pensa ad avere qualcuno lì, vicino, che sta suonando soltanto per te. Questo può essere molto toccante, quasi più coinvolgente che andare a un concerto, in un certo senso." Ok, in un certo senso ha ragione. C'era qualcosa di veramente intimo nello stare a tre metri da lei su una spiaggia islandese, più intimo sicuramente rispetto al suo set al Bestival del 2011, quando urlavo "Suona 'Declare Independence'!!!" a centinaia di metri dal palco. Il punto, comunque, rimane che se ti metti quegli occhiali e decidi di entrare nel suo mondo virtuale, devi prepararti a sentirti solo in un modo strano, e devi capire che niente di quello che vedi, o senti, è spontaneo—stai guardando un mondo registrato. Mentre parlavo con lei, sentivo che stavamo andando verso un punto della discussione a cui lei tiene molto, ovvero il fatto che la realtà virtuale permette ai musicisti e agli artisti in generale di ottenere qualcosa di nuovo in quello che, sempre di più, si sta delineando come un campo minato.  "Oggi fare musica non è per niente facile," mi dice. "Io sono stata fortunata, faccio parte di una generazione che ancora riusciva a mantenersi con la musica. Ma vedo ragazzi di vent'anni che hanno terreno bruciato intorno, oggi. Ho questa teoria: all'inizio, la maggior parte dei sistemi vuol essere buona. Sia il comunismo che il capitalismo sono nati per sistemare le cose, per rendere il mondo un posto migliore, poi sono degenerati quando hanno permesso alla loro routine di coagularsi e alla burocrazia di cristallizzarsi, quando le persone sbagliate sono andate al potere e hanno iniziato a manipolare il sistema per ottenerne più denaro. È sempre la stessa storia che si ripete in continuazione. Ed è successo anche all'industria musicale. Però, ecco, io vedo che la tecnologia può portarci una soluzione, vedo le possibilità che cose come le telecamere a 360° e la realtà virtuale ci possono spalancare. Un musicista emergente può mettersi lì, in camera sua, e registrare un concerto, mi capisci? E il suo pubblico può essere anche dall'altra parte del mondo! In questo modo si possono allargare le maglie, liberare la tua arte, renderla più disponibile, più intima. Più o meno come ha fatto Skype: la realtà virtuale è come uno Skype a trecentosessanta gradi." Quando approfondiamo questo argomento, mi è subito chiaro che il punto, per Björk, non è nemmeno soltanto la realtà virtuale, quanto piuttosto il suono. "Tutti parlano sempre della parte visiva, ci ho fatto il callo oramai. Però io penso che la parte più interessante, per un musicista, sia la possibilità di sonorizzare a 360 gradi. Ridurre le cose a canali stereo può essere un limite in tanti sensi, ma se pensi a comporre qualcosa che circonda l'ascoltatore, ecco, in questo modo stai già rompendo i cliché delle tecnologie passate. La nuova tecnologia è arrivata per liberarci, per aiutarci a far arrivare al fruitore le nostre cose così come le avevamo pensate in origine."

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Eppure, non potevo non pensare che nonostante fosse un'ambasciatrice di ciò che verrà, Björk stesse anche usando il futurismo della propria mostra per ripararsi da qualcosa d'altro. "These abstract complex feelings / I just don't know how to handle them" cantava in "Lionsong" e durante un'intervista del 2015 con Pitchfork, alla domanda su come avrebbe fatto a suonare dal vivo le altre canzoni di Vulnicura, ammetteva: "Non ne ho idea… ma non c'è una via d'uscita comoda. Mi piacerebbe. Se potessi, la prenderei. [lunga pausa] Sarà emotivamente dura. Mi toccherà piangere e ridurmi uno straccio e farlo comunque". Nel corso dell'estate 2015, finirà per annullare varie date a causa dell'intensità della performance.

"[Vulnicura] è diverso dai miei altri album", mi dice. "L'ho scritto più velocemente di ogni altro, e lo volevo vedere finito il prima possibile. Ho suonato dal vivo meno di quanto abbia mai fatto per qualunque altro disco, perché non mi piaceva tutto quel lamentarmi. Così ho fatto dodici concerti, forse quindici". Il suo tono cambia: "Ho pensato: forse c'è un modo. Se mi filmassi mentre canto quelle canzoni in Realtà Virtuale, potrei farlo una volta sola. Potrei mandare quello in tour, invece di me stessa. Nel frattempo potrei concentrarmi su energie più positive e scrivere nuove canzoni. Invece di crogiolarti nella negatività, dovresti fare cose nuove, ti fa molto meglio. Così ho cominciato a fare così e non ho più smesso. Impiego la maggior parte del mio tempo nella scrittura di un nuovo album, con cui sono già abbastanza a buon punto".

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Vulnicura non è soltanto un'altra aggiunta agli annali della musica da cuori spezzati, spesso pubblicati quando l'artista ha già superato il dolore. È uno dei dischi più crudi e immediati mai scritti—anzi, usare il termine cuore spezzato sembra una volgarizzazione. È fottuto; è tragico; è viscerale; è un'amputazione. Ascoltarlo è come arrivare per primi sulla scena di un tremendo incidente d'auto. La sua brutale onestà si può forse paragonare soltanto all'opera di messa a nudo di Nick Cave con One More Time With Feeling. Come ha scritto​ Daisy Jones su Noisey qualche mese fa: "Non c'è una traccia [in Vulnicura] che raggiunga un crescendo; al suo posto c'è una propulsione costante, come se Björk fosse intrappolata in un ciclo ossessivo, agonizzando ripetutamente sugli stessi pensieri".

La sensazione è che Björk Digital sia stato un modo di promuovere uno dei suoi dischi più popolari di sempre senza dover rivivere il dolore e l'angoscia che hanno alimentato il suo concepimento. E ciò non toglie nulla alla validità della mostra, anzi: ecco un'opera d'arte che è quasi fin troppo potente anche per l'artista stessa. Apre una strada sconosciuta e interessante nelle relazioni tra arte e tecnologia, una strada che porta a macchine che potrebbero essere in grado di liberare gli artisti dal peso opprimente di progetti estremamente personali, dando forse loro la possibilità di scrivere in maniera più onesta che mai.

Björk ha mandato il proprio chullachaqui in tour, cosicché la vera Björk potesse andare avanti con la propria vita—e chi siamo noi per fermarla?—presentandosi una volta ogni tanto per un vero concerto dal vivo. Quando pronuncio queste parole lei si lascia sfuggire una discreta risata e risponde: "Non sei lontano dalla verità".

​Tutte le foto sono di Madeleine Hemsley tranne dove indicato.

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