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La misteriosa carriera da poeta di Giorgio Napolitano

La vicenda di Tommaso Pignatelli comincia nel 1995, quando esce la raccolta di poesie dialettali napoletane "Pe' cupià o' chiarfo". Per molti versi l'identificazione con l'ex Presidente della Repubblica è immediata, ma verrà sempre smentita.

Una copia del libro più famoso di Tommaso Pignatelli. Grab

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Nel maggio 2006, pochi giorni dopo la sua elezione alla presidenza della Repubblica, Giorgio Napolitano ha diramato una nota—una delle sue prime in quella carica—in cui affermava di non aver mai scritto poesie "né in napoletano, né in italiano, né in alcuna lingua." "La ripresa sui media e l'ulteriore amplificazione di una vecchia leggenda giornalistica," si leggeva nella nota, "impone di precisare che Giorgio Napolitano ha già smentito nel 1997, e tassativamente smentisce oggi, di essere l'autore di un libro di poesie in dialetto partenopeo firmato con lo pseudonimo di Tommaso Pignatelli."

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La nota si riferisce a una leggenda che gira più o meno da metà anni Novanta. Io mi ci sono imbattuto per puro caso e, in modo quasi simbolico, mentre leggevo un'altra opera su Napoli di un'altra scrittrice evanescente e dall'identità incerta: il ciclo dell'Amica geniale di Elena Ferrante.

Le origini della strana vicenda di Tommaso Pignatelli risalgono al 1995, quando la casa editrice l'Oleandro ha pubblicato, in tiratura molto limitata, una raccolta di poesie intitolata Pe' cupià o' chiarfo [Per imitare il temporale]. L'autore della raccolta era appunto un certo Tommaso Pignatelli, un perfetto sconosciuto. Stranamente, però, il libro compariva accompagnato da una nota del critico Natalino Sapegno e da un'introduzione di Tullio De Mauro.

Nella nota in apertura, Sapegno affermava che Pignatelli era lo pseudonimo "di una delle figure più eminenti del Parlamento italiano. Per ora si nasconde perché è convinto che nella nostra cultura il poeta rimane ancora un po' matto e un po' svanito, poco adatto quindi, nella considerazione comune, a occuparsi di politica, nonostante parecchi precedenti che vanno da Senghor a Mao Tse-tung e perfino a Hitler."

Nella prefazione, inoltre, De Mauro raccontava di aver corrisposto "con l'anonimo autore di questi testi poetici napoletani" attraverso "una casella postale della mia città." Ma a parte questo, dell'autore non si sapeva nient'altro. Dopo la pubblicazione, il libro era passato quasi inosservato. Il "caso" Pignatelli era scoppiato solo tre anni dopo, nel 1997, quando era stato recensito sul numero 102 della rivista Poesia, che lo aveva attribuito proprio a Napolitano. Anche se il diretto interessato—allora Ministro dell'Interno—aveva subito negato la paternità dell'opera, la leggenda era nata.

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Grab dagli archivi de

l'Unità, via

In effetti si trattava di un'identificazione affascinante, che lo diventava ancor di più in virtù dell'alone di mistero intorno all'identità del poeta—il cui pseudonimo rimandava al nome di un frate domenicano allievo di Tommaso Campanella che nel 1634 aveva organizzato una congiura contro il dominio spagnolo a Napoli conclusasi con una condanna a morte. E oltretutto, almeno a detta dei critici che avevano letto le sue poesie, Pignatelli sembrava avere davvero talento.

Nell'introduzione all'edizione del 1995 di Pe' cupià o' chiarfo, l'autore della raccolta era definito un poeta "ricco, sanguigno e leggero" capace di donare "nuova vitalità al dialetto napoletano." Nello stesso anno, Tullio De Mauro l'avrebbe inserito tra "i grandi poeti dialettali italiani del Ventesimo secolo" e anche i critici Luigi Bonaffini e Franco Loi si sarebbero espressi in modo simile. Secondo i suoi recensori, la poesia di Pignatelli era colta e cesellata, capace di esprimersi sia con neologismi che con arcaismi, in grado di prendere ispirazione da fonti antiche ma anche dagli "umori della napoletanità."

I temi principali della poetica di Pignatelli erano Napoli e la sua quotidianità, trattati con toni nostalgici, intimisti e contemplativi. Tra le sue poesie, una di quelle che preferisco e che trovo più rappresentative del suo stile è "Nu pil' 'e pastiggio" ["Un po' d'amarezza"]. Questa la traduzione:

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Napoli ha un sapore dolciastro
che entra nelle narici e violenta
la tenerezza delle sere invernali
che cadono sulla riva del mare
in curve di dolcezza
e si posano sul Maschio Angioino
come fossero avvisi
di estremo saluto.
Mi rintano, in quelle occasioni,
nell'estraneo che esiste in me
e spia i passi miei
i pensieri il pianto afflitto
per tutto quello che dovrò lasciare com'è.

Ma al di là del giudizio dei critici e delle indiscrezioni dell'epoca, il vero elemento a sostegno dell'assimilazione tra Giorgio Napolitano e Tommaso Pignatelli è rappresentato dalle forti analogie tra la vita del primo e la produzione del secondo—analogie che vanno ben oltre l'ambientazione delle poesie e l'uso del dialetto.

Enrico Berlinguer (a sinistra) con (forse) un giovane Tommaso Pignatelli negli anni Settanta. Immagine via Wikimedia Commons

Se si osservano i temi portanti di Amarosud, un'altra opera di Pignatelli pubblicata nel 1993, l'ipotesi acquista ancora più forza. Nella prefazione al testo, ad esempio, l'editore parla di come questo sia nato dalla nostalgia dell'autore, costretto a trasferirsi in Belgio per lavoro, per il suo paese. "Se non avesse avuto i figli così attaccati alla vita che si faceva in Belgio," si legge, "gli sarebbe piaciuto venire a passare 'nel paese' gli ultimi suoi giorni." È interessante notare come proprio in quegli anni—dal 1989 al 1992—Napolitano abbia vissuto in Belgio come deputato al Parlamento Europeo.

Secondo il prof. Paolo Diodati dell'Università di Perugia, autore di un lungo articolo sulla questione, il motivo per cui l'ex Presidente della Repubblica non avrebbe mai ammesso di scrivere poesie sta nel fatto che, per la sinistra a cui apparteneva, l'espressione artistica non poteva esistere senza avere al suo interno un elemento di impegno politico, il che penalizzerebbe in partenza gli autori dotati di una sensibilità più intimista. A dire di Diodati, dunque, il ruolo pubblico di Napolitano l'avrebbe sempre obbligato a tenere nascosto il suo lato artistico; e da questa circostanza sarebbe nato Pignatelli.

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Per sostenere questa tesi, Diodati cita diversi indizi. In primis una nota di Massimo Caprara, segretario di Palmiro Togliatti, il quale riferisce di una serata in cui un giovane Napolitano all'epoca membro del PCI era stato zittito con un "versaccio sconcio" da un compagno di partito mentre recitava alcuni versi malinconici del poeta Salvatore Di Giacomo. In secondo luogo, un giudizio del poeta Antonello Trombadori, che interrogato sulla questione avrebbe affermato che "le poesie di Napolitano sono le più anticomuniste che abbia mai letto."

Se davvero l'autore di quelle poesie è Napolitano, è possibile che il suo alter ego Tommaso Pignatelli sia stato generato da circostanze di questo tipo. Fatto sta che probabilmente non lo sapremo mai, visto che la teoria non si basa su vere prove ma solo su supposizioni e che le stesse persone coinvolte direttamente nella vicenda, con l'eccezione del diretto interessato, non hanno certezze al riguardo.

Tullio De Mauro ha detto di aver ricevuto le poesie di Pignatelli da un amico di Napoli che gli aveva fatto capire che erano state scritte da Napolitano, anche se "stolidamente non gli ho mai chiesto se fosse lui." Mentre nel 2006, il critico Colasanti—autore dell'articolo in cui era stata proposta per la prima volta l'identificazione Pignatelli-Napolitano—ha detto di essere ancora convinto "al 98 percento" di non essersi sbagliato nel sostenere quella tesi, pur non potendo presentare prove al riguardo.

Ma forse non c'è davvero bisogno di trovare una soluzione a questo mistero. Anche perché lo stesso Pignatelli in un'intervista pubblicata dalla Stampa nel 1997 avrebbe detto: "Col mio vero nome avrebbero dedicato al libro recensioni, servizi e dato premi, mentre senza sta vivendo la sua vera vita, fatta di sensi, di entusiasmi, di interesse vero."

Thumbnail via Flickr.

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