Come non farsi fregare dall'EDM, spiegato dai Bloody Beetroots

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Come non farsi fregare dall'EDM, spiegato dai Bloody Beetroots

Secondo Sir Bob Rifo il carrozzone dell'EDM è pieno di imbroglioni, così ha scritto un album per denunciare la cosa. Ce lo siamo fatti raccontare.

Qualcuno, una decina d'anni fa, giustamente si chiedeva cosa racconteremo ai figli che non avremo di questi cazzo di anni zero. Non è che abbiamo mai trovato una risposta esaustiva, ma certamente potremo dire che in Italia c'erano dei beat fighi. Nessuno, ma proprio nessuno, cui piacesse anche solo un minimo la musica elettronica era rimasto indifferente ai Crookers e ai Bloody Beetroots. La doppia coppia di zarri padani, i primi da Milano e i secondi dal vicentino, tra il 2005 e il 2010 ha scosso tutti i dancefloor del globo con una serie di singoli che ancora oggi a risentirli ti viene da andare a fare le vasche in corso in canottiera e occhiali da sole. Stiamo parlando di gente che faceva uscire EP su Mad Decent, l'etichetta di Diplo (i Crookers), o che si è fatta produrre i primi singoli da Steve Aoki (i Bloody Beetroots). E quando li mettevi insieme erano un'atomica: il remix del "Brutto", appropriatamente rinominato "Il Bruttissimo", contributo dei BB all'EPistola dei Crookers, era un condensato di tutto quello che faceva muovere il mondo in quegli anni. Insomma, questi erano semplicemente il meglio del meglio del meglio. Purtroppo si sa, le coppie scoppiano, più un artista brucia luminoso più si consuma in fretta e tutta quella serie di luoghi comuni sfigati. Di fatto, oggi entrambi i progetti sono portati avanti da una sola figura e hanno preso una deriva nettamente più pop, e se il nome Crookers ha pubblicato un paio d'anni fa 16 Chapels, terzo disco a dir poco dimenticabile, Bloody Beetroots taglia lo stesso traguardo soltanto oggi. Dopo quasi tre anni di inattività e a quattro dal precedente Hide, Sir Bob Cornelius Rifo, torna ad indossare la maschera del simbionte dell'Uomo Ragno e a portare in giro per il mondo il suo carico di beat zarri. The Great Electronic Swindle è il terzo album del produttore bassanese e mette sul piatto parecchie cose, tra cui camionate di collaborazioni e strizzatine d'occhio a generi molto diversi tra loro. Come nei due precedenti episodi, la forma-album di Bloody Beetroots è meno puramente truzza dei suoi singoloni e più ricca di variazioni e sfumature. Ne segue che, da fan della prima ora, il mio terrore iniziale al pensiero che Rifo potesse aver dato seguito ad oscenità come la collaborazione con Raphael Gualazzi e conseguente partecipazione al Festival di Sanremo era soverchiante. Buona notizia: ok, nel disco c'è un novero di artisti con cui Rifo collabora talmente dispersivo che fa pensare davvero ad una ruffianata clamorosa, ma no, niente arriva anche solo lontanamente vicino al livello di orripilanza del pezzo con Gualazzi. Cattiva notizia: anche se qualche momento di sana ignoranza alla "Rocksteady" effettivamente c'è, "Warp" è sempre più lontana. Ma ne abbiamo parlato senza freni con il diretto interessato. Dovevamo incontrare Rifo in quel di Milano per andare a fondo sull'argomento, ma il destino ci si è messo di mezzo e ci siamo limitati ad una chiacchierata telefonica.

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Noisey: Ciao Rifo, mi spiace che non riusciamo a trovarci di persona, ma solo al telefono…

Rifo: Hey ciccio. Cazzo è successo, m'han detto che ti sei spaccato una gamba, mi spiace. No problem comunque. Non si sente parlare di o dei Bloody Beetroots da un po', che è successo negli ultimi tempi?
Bloody Beetroots si è fermato alla fine del 2014, dopo aver concluso il nostro tour a Cape Town. Da lì ho iniziato un tour come SBCR per vedere un po' che cosa c'era in giro e cosa volevo fare con questo progetto. Ho girato il mondo per un anno e mezzo e poi ho cominciato a scrivere questo disco raccontando un po' questo lungo viaggio, coinvolgendo molte persone, cambiando anche etichetta discografica… E quindi oggi siamo qui a parlarne. Partirò in tour e sarò di nuovo in Italia il 15 dicembre al Fabrique di Milano. Ottimo, allora faccio in modo di esserci al Fabrique, anche perché manco da un live di Bloody Beetroots da una vita, l'ultimo credo sia stato al Magnolia nel 2009 o 2010.
Ah tanti tanti anni, beh è cambiato un mondo dal vivo, è molto diverso oggi. Me l'immagino. Però ti ho sempre seguito su disco, e devo dire che sul nuovo…
Ecco, ti è piaciuto? Allora, mi è piaciuto, ma adesso ti chiedo conferma o smentita di alcune cose che ho notato. Prima di tutto c'è davvero tanta gente dentro, e questo crea dei contrasti anche abbastanza forti: si va dai Jet, ad Anders Fridén degli In Flames, a un rapper cristiano come Mr. TalkBox, come sei entrato in contatto con tutta questa gente? L'altra cosa è che rispetto soprattutto ai singoli classici, ma anche ai due dischi precedenti, quest'album mi pare un po' meno coatto.
Mh. Sì, se vuoi è un po' più raffinato, ho tentato di mantenere un certo tipo di artigianalità nel produrlo… [ci pensa un po' su, nda] Sì, è vero, si può dire che è un po' meno coatto. Nei suoni, nel mixaggio, nella registrazione dei cantanti. Tutte le persone che senti nel disco sono amici con cui sono finito a creare musica insieme. Per la prima volta, dopo tanto tempo, ho voluto esprimermi anche attraverso la parola, quindi ho curato i testi insieme a tutti loro. Ed è un disco in cui anche loro sono diventati Bloody Beetroots, perché abbiamo passato tantissimo tempo insieme, condividendo esperienze notevoli, raccontando le nostre vite. Il clash tra generi e cantanti c'è da sempre all'interno del contesto Bloody Beetroots perché è una cosa che mi viene naturale. Credo che chiunque ascolti musica durante la giornata ascolti molti generi diversi, con colori e umori diversi. Ho sempre trovato riduttivo esprimermi seguendo una linea "imposta" dal music business, perché mi esprimo meglio con la mia cultura e con quello che vivo. E quello che vivo sono anche i contrasti. Questo disco vuole essere fuori dagli scaffali. La stessa copertina è un contrasto, non essendo finita.

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Chiarissimo. Quindi mi stai dicendo che se il prossimo disco degli In Flames non avrà proprio più niente di metal sarà colpa tua perché Anders è diventato un po' troppo Bloody Beetroots.
Sì, capita sempre quando mi incontrano [ride, io da fan degli In Flames invece piango, nda].

Visto che l'hai nominata, invece: la copertina. Di nuovo una collaborazione con Liberatore, che è un illustratore che io personalmente adoro. Com'è nata la collaborazione con lui, come vi siete conosciuti e come mai proprio Tanino Liberatore?
Allora, io e Tanino abbiamo una storia d'amore che DEVE proseguire, perché questo progetto abbiamo deciso di farlo in qualche modo insieme a quattro mani. Lui è stato parte della mia esperienza visuale, è lui che ne ha la responsabilità. Io sono cresciuto con Frigidaire e Ranxerox è stato il primo fumetto che ho letto e sperimentato nella mia vita. Liberatore ha forgiato il mio pensiero visuale, quindi per me era assolutamente indispensabile chiamarlo e cercare di collaborare con lui. Alla fine siamo diventati amici. Credo sia anche importante portare qualcosa del passato in una contemporaneità in cui Tanino non è più così conosciuto o rilevante, e per me questi bridge temporali sono vitali per esprimere quello che sono.

Beh, da appassionato di fumetti per me Liberatore è una sorta di Messia, quindi complimentissimi. Spunta del nerdismo quindi, visto che dici di essere cresciuto con Frigidaire.
Confermo, sono davvero appassionato di Frigidaire. Ho tutti i numeri della rivista recuperati nel tempo, collezione completa. Non credo però sia tanto nerdismo quanto ricerca di identità, perché queste persone hanno contribuito a formare l'artista che sono nel 2017. Ho dovuto studiare, fare ricerca, fare dei passi indietro per capire la mia stessa storia. Sai, con tutto questo movimento, sempre in giro coi tour, capita di perdere di vista la propria storia, e per me è fondamentale tornare alle mie influenze, cercare di capirle, e più cresco più trovo delle informazioni nuove.

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Dopo tutti questi anni di singoli, di tour e di questo tipo di vita, qual è l'aspetto di Bloody Beetroots che ancora ti diverte di più e ti dà più soddisfazione?
Scrivere musica con altri artisti è qualcosa che mi dà veramente tantissimo. Oltre alla musica in sé si condividono dei momenti eccezionali e ogni artista che incontri ti fa crescere un po' di più, aprendoti una prospettiva su un mondo che magari conosci poco. Quindi decisamente è scrivere della musica che ti permetta di conoscere altre persone. E poi stare sul palco. Bloody Beetroots live è diventato molto, molto teatrale negli ultimi anni, e mi ci vuole una preparazione atletica importante per fare quello che faccio, e mi diverto veramente tanto, è diventato una specie di palestra.

Come risposta è particolare, perché di tante interviste che mi è capitato di fare una risposta abbastanza costante da chi è spesso in tour è che è bello portare in giro la musica, avere il contatto con il pubblico, vedere posti nuovi, eccetera eccetera, però la fatica più grande è proprio quella di essere sempre in giro, essere costretti alla convivenza in un bus per tanto tempo, lontani da casa…
Sì, sì, capisco benissimo, ma noi siamo molto fortunati a fare questo lavoro. Non metterei delle lamentele sul fatto che si lontano da casa, stiamo vivendo un sogno. Chiaro che è difficile star fuori casa, però fa parte del gioco, non mi lamenterei più di tanto. Quello che per me funziona è quello di dare un periodo limitato da destinare al tour. Do un massimo di tre settimane, poi posso rientrare e dedicarmi alla mia vita normale, alla mia famiglia e alle persone alle quali voglio bene. In questo senso, dopo dieci anni ho anche imparato a gestirmi e a capire il tempo che voglio spendere fuori e dentro casa, e credo di aver trovato un ottimo equilibrio.

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Tornando al disco adesso: visto che hai avuto a che fare con così tanta gente, ci sarà qualche aneddoto assurdo da raccontare…
Beh, la meraviglia delle meraviglie è quella mattina in cui mi sono svegliato e ho pensato che Nic Cester, il cantante dei Jet, dovesse cantare su un pezzo che avevo scritto, quindi chiamai il mio manager a Los Angeles per chiedergli di fare qualche telefonata e scoprire dove fosse. Scopriamo che Cester non era più in Australia, ma in quel periodo viveva a Como. Ho preso la macchina, sono arrivato a Como e abbiamo passato una serata incredibile a pizza e vino, tra l'altro quella sera lui era con tutti i suoi amici, una serata veramente eccezionale. Ci siamo piaciuti, abbiamo registrato "My Name Is Thunder" a Bassano del Grappa, scoprendo che Nic in verità è il nipote del Cester che fa il rosè a Nervesa della Battaglia, in provincia di Treviso. Insomma scopro che uno dei cantanti più incredibili del mondo ha una radice veneta e che quella radice veneta fa del buonissimo vino che abbiamo condiviso da lì in poi.

Il mondo è piccolo. E come sei arrivato all'idea di coinvolgere i Jet, quindi? Da dove sei partito?
Mah, il mio esperimento è quello di portare la musica elettronica verso il rock, però tutto quello che sentivo nel rock, le canzoni che ascoltavo mentre ero in giro come SBCR, mi facevano pensare "cazzo, mi piace ancora il rock, ma non trovo nulla che mi dia abbastanza". Quindi ho voluto fare questo tentativo con "My Name Is Thunder", che ovviamente è un pezzo che rimanda agli AC/DC, volendo provare a far suonare gli AC/DC in modo esasperato, e credo che il risultato sia perfetto per far capire alle persone quale è stato il mio intento di crossover sonoro.

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Sì, sicuramente poi piazzarla in apertura del disco è una dichiarazione d'intenti abbastanza netta. A questo punto gli spunti che mi ero segnato per le domande sono finiti, tocca a te aggiungere a ruota libera.
Sì, aggiungo giusto qualcosa sul titolo, visto che parlavamo di punk. Ovviamente il riferimento è a The Great Rock'n'Roll Swindle , il documentario sui Sex Pistols del '79. Per me The Great Electronic Swindle rappresenta un po' la truffa della musica elettronica di questo periodo, ossia il fatto di trovarci davanti ad un mercato musicale in cui l'elettronica è diventata pop, con un appiattimento completo del genere, dove spesso si trovano dei figuranti chiamati artisti che stanno sul palco e non scrivono le canzoni che stanno suonando. Mi sono trovato spesso a parlare ad artisti e dj sul palco. "Che figata di canzone hai scritto" e questo mi risponde "eh ma non l'ho scritta io". "Ma come, e quindi con chi devo parlare?" L'onestà artistica sta nel fatto che se occupi quel posto privilegiato io credo tu ti debba relazionare ai tuoi fan in modo onesto, con un po' di integrità, da poter dire "Cazzo, sono l'autore di questa cosa, io l'ho fatta, io occupo il palco." Invece c'è questo bruttissimo modus operandi, da qualche anno a questa parte, da quando l'elettronica è diventata pop, che si fa questa specie di giochino. E secondo me era tempo che qualcuno prendesse una posizione, perché queste cose spesso passano molto molto poco, perché nessuno ha più tempo di informarsi e la gente non capisce più un cazzo di quello che sta ascoltando o di chi ha davanti, e per me è importantissimo.

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Verissimo, anzi rilancio: non si tratta solo di musica elettronica, c'è una sorta di pigrizia da parte dell'ascoltatore medio che non ha voglia di approfondire, non ha la curiosità di andare a scavare un pochino e ci si ritrova coi festivaloni coi soliti quattro o cinque grandi nomi e poi il vuoto cosmico fino ai concerti underground per soli appassionati che spesso sono anche addetti ai lavori. Si va da un eccesso all'altro, insomma.
Esatto, Proprio per questo dicevo che è tempo di prendere posizione in merito, per questo mi sono esposto e parlo in aperta opposizione al mondo dell'elettronica, sperando che poi altri mi seguano e si riescano a creare dei dischi-manifesto che servano a puntare il dito verso qualcosa che non va più bene.

Mi riallaccio allora a un argomento di cui si parlava l'anno scorso, ossia una supposta atrofizzazione, esagerazione, per alcuni addirittura morte, dell'EDM. Penso a nomi enormi tra i più disparati, da Guetta a Skrillex ad Avicii o Aoki, che tu conosci molto bene. Artisti che hanno gonfiato e gonfiato e gonfiato le loro performance e i loro conti in banca, ma che poi si sono sgonfiati o si stanno sgonfiando nel giro di pochissimo tempo. E quelli che stanno resistendo al passare degli anni sono pochi…
Sì, sì, sono assolutamente d'accordo. Qualcosa resta se una persona si impegna a fare qualcosa di diverso. Io e Steve abbiamo due mondi completamente diversi, per esempio, ma lui si è impegnato nel creare un personaggio e ha trovato una sua verità nell'esagerazione; poi è diventato anche bravo in studio e finalmente può portare in giro una bandiera. Ora, le nostre direzioni sono completamente diverse, ma l'impegno è di portare qualcosa che possa in qualche misura lasciare un segno. Poi chiaro che noi rimaniamo amici nonostante la consapevolezza di fare due strade separate.

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