Max Gazzè, dai sotterranei al Paradiso Terrestre

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Musica

Max Gazzè, dai sotterranei al Paradiso Terrestre

L'album di esordio del cantautore romano 'Contro un'onda del mare' (1996) era un concentrato di scherzi, sperimentazioni e stranezze che lo facevano assomigliare più al primo Battiato che all'idolo pop che è oggi.

Contro un’onda del mare e La favola di Adamo ed Eva erano davvero dischi straordinari… forse i tuoi dischi più new wave.
Sì, Contro un’onda del mare forse risentiva di più di influenze new wave, progressive, ecc… era comunque un disco diretto e urgente. Ricordo i provini di incisione di quel disco, in pochissime notti nello studio Fonoprint di Bologna, avevo pure un raffreddore pazzesco… è un disco che sento forse come il più intimo e personale…
(Dal blog Lost Highways, 2007)

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Il pop italiano: una bestia che muta pelle a ogni stagione, ma soprattutto la fa mutare. Mentre in altre nazioni la differenza fra underground e mainstream è questione di lana caprina (e quindi il pop è, sì, un prodotto che è più seguito di altri - ma non per questo è obbligatorio snaturarsi per ottenere successo), in Italia invece capitano dei veri e propri rovesciamenti di fronte repentini che lasciano basiti. Di esempi ne abbiamo fatti tanti in queste pagine, altri non ne abbiamo ancora fatti e forse neanche li faremo mai (pensiamo, che so, a Neffa, che dopo Negazione e Sangue Misto si è buttato su un soul acqua e sapone).

Fra questi, tempo fa, citammo i Tiromancino, che da band di eclettici sbandatoni si ritrovano a cambiare completamente line up e stile tramutandosi in un perfetto esempio di musica italiana da classifica. Riallacciandoci a quell’articolo, è necessario fare luce su un altro personaggio, diciamo un outsider, ma anche lui inserito nella fatidica scena del Locale. Il quartier generale romano di cantautori anni Novanta quali Niccolò Fabi e Daniele Silvestri rapidamente, da ritrovo messo su da amici, diventa una piccola mecca radical chic (chissà, forse lo era sempre stato).

La stampa era disperatamente in cerca del nuovo hype, così l’ansia di tappare un buco generazionale apparentemente enorme da parte degli “addetti ai lavori” ha messo in fretta sul piedistallo chi poteva anche aspettare (bastava guardare più verso la periferia dell’impero per capire cosa stava succedendo veramente). La storia ci dice che i nuovi cantautori romani comunque piacevano, nonostante la qualità non fosse sempre di casa, tant'è che le basi sulle quali ora poggia tutto l’ambaradan indie/leggero italiano deriva da questo periodo storico in cui già la società dell’immagine e del marketing a tavolino, del "questo passa il convento", stava prendendo definitivamente il sopravvento sulla musica.

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In questa zona di confine tra novità e finte novità si colloca appunto quella mosca bianca che risponde al nome di Max Gazzè. Nel 1996 fa uscire il suo esordio discografico, un disco pressoché dimenticato dal pubblico una volta che il nostro scalerà le classifiche con i successivi lavori (lui invece se lo ricorda eccome, visto che dal vivo ne ripropone spesso dei brani) e che è, invece, sorprendente.

Ma chi è Max Gazzè? Beh tanto per cominciare è uno che, pur essendo nato nello stivale, non ha vissuto in Italia ma in Belgio (il padre lavorava all’ambasciata Italiana). Già da adolescente prende e suona il basso con svariati gruppi locali, poi diventa arrangiatore dei 4Play4 (roba acid jazz in un periodo in cui era ancora un genere piuttosto acerbo) e poi si trasferisce al sud della Francia a lavorare come produttore per la casa di produzione americana D.P.I. Fino a qui la prima parte della vita del nostro, nella quale Max cerca febbrilmente la sua strada ed è evidente che non ha voglia di stanziarsi più di tanto, scegliendo invece il cambiamento di posizione e la condizione di “oriundo” come modo per arricchire il suo bagaglio umano e musicale in senso internazionale. Poi, però, nel 1992 torna in Italia, a Roma. E proprio in terra natia avviene l'impossibile: Max trova l’America.

Durante questo periodo lavora principalmente a colonne sonore, ma parallelamente è in cerca di un modo per far ascoltare quello che nel suo studio casalingo sta prendendo forma, canzoni che non sono propriamente classiche, anzi, sono piuttosto strambe: decide quindi di portare un demo al Locale, all’epoca ai primi vagiti, in quanto uno dei pochi posti a Roma a non essere infestati dalla peste delle cover band, in quei giorni un problema forse maggiore di oggi. Soprattutto trattasi di un posto che, essendo situato nel cuore di Roma, permette maggiore visibilità di altri. Il demo piace e Gazzè diventa in breve tempo un affiliato del luogo, tanto che addirittura sposa la barista. In breve tempo collabora con buona parte delle star residenti, da Alex Britti a Silvestri, principalmente per la grande capacità di arrangiatore e per la sua tecnica al basso che unisce anima e virtuosismo senza mai sgaggiarsela. Insomma, è chiaramente un asso nella manica per il giro del Locale, soprattutto di Silvestri che lo coinvolgerà nella stesura de Il Dado, forse la sua opera più interessante e ostica, che esce nel 1996: non a caso proprio l’anno in cui Gazzè da alle stampe l’opera prima di cui sopra, ovvero Contro un’onda del mare.

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Già dal titolo, Contro un’onda del mare si pone come un manifesto poetico: l’onda è chiaramente quella del mainstream, al quale il nostro si oppone anche sapendo di rischiare l’annegamento. Tutti i testi rispetto agli standard dell’epoca (e anche degli stessi artisti del Locale indecisi tra citazioni di Hair, uscite imbarazzanti su Cuba, o frescacce che rimettono gli amorazzi in primo piano travestendoli da roba raffinata) risultano particolarissimi, con un uso dell’italiano simile a quello che Roversi sperimentava con Dalla. Poesie in musica sì, ma principalmente una serie di quadretti psicoanalitici che rasentano il paradosso: l’autore è il fratello Francesco, poeta e geniale interprete delle inquietudini di Max, capace con l’uso dei suoi versi di rendere materia anche il vapore (sarà ovviamente collaboratore fisso anche nelle successive prove).

Nei primi video il nostro Max appare come una specie di nuovo Franco Battiato: capelli crespi, pizzetto, phisique du role allampanato, estetica bizzarra. Impressioni confermate anche dalla musica, che sembra una specie di crocevia di stili apparentemente inconciliabili ma nei quali s’intravedono anni d’immersione nella materia, tutta roba ingoiata e masticata durante gli anni internazionali di formazione che finalmente viene sputata in forma commestibile per quanto evidentemente – e fortunatamente- ancora sperimentale rispetto agli standard futuri. Non è un caso che il disco esca proprio per l’Ottava, etichetta di Franco Battiato, uno dei primi a credere nel giovane cantautore facendogli addirittura aprire i concerti, e per giunta in versione acustica (suicidio commerciale sicuro). Sembra un passaggio naturale di staffetta, anche perché i suoi musicisti non sono nomi blasonati, anzi: un altro al posto suo avrebbe reclutato dei session man senza anima per farsi largo nelle falde del mercato. Max, invece, vuole solo fare la sua cosa e la fa davvero egregiamente, senza compromessi.

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Probabilmente non dico un’eresia affermando che “Quel che fa paura” è forse una delle più grandi canzoni italiane di sempre. Il testo è di un’intensità incredibile e narra appunto delle zone d’ombra della nostra coscienza, della violenza dei rituali, della condizione umana come perenne stato d’assedio. Musicalmente è una tessitura perfetta fra strumenti e voce, con uno stile personalissimo che cerca di non strafare con l’effettistica mirando semplicemente al cuore del pezzo, ricordando a livello di arrangiamento scarno e dosato il Battisti di Don Giovanni come le prove del Battiato anni Settanta e Novanta, per l’appunto (a volte sembra si evochi lo spirito di Pollution per l’uso del pianoforte). Tutte aperture e bassi pulsanti quasi elettronici, synth liquidi e chitarroni messi al punto giusto allo scopo di creare vertigine. Ma non c’è imitazione, anzi: c’è rischio e desiderio di ripartire dal vuoto. "Quel che fa paura […] come i tasti estremi di un pianoforte". Già da questo brano il disco potrebbe essere archiviato come un capolavoro, ma andiamo avanti.

“Sul filo” invece sembra quasi un esperimento quasi zappiano nella sua melodia e nel suo andazzo ritmico: altro paragone che non è per niente campato in aria, in quanto Max potrebbe essere tranquillamente lo Zappa del pop italiano (almeno in questo caso). La voce corre sul filo delle parole appunto, rendendo assolutamente liscio quello che potrebbe essere facilmente incespicante. Il brano sembra avere influenze prog stile PFM in vena di tarantelle, introdotta però in un mondo ad alta definizione. Canzone su un rapporto che sta spaccandosi come la terra: “il vulcano si è spento oramai, sento lava gelida sui fianchi teneri” e finale che cita i Nirvana con quel "eee" astutissimo, tanto per non badare a spese.

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“Ringrazio Dio che non mi ascolta mai, che sale un diavolo per lui”. "Gli anni senza un Dio" è un brano simil trip hop per quanto concerne la base ma mischiato alle evidenti influenze Police che nei lavori successivi verranno a galla, ahimè, in maniera a volte imbarazzante. Invece qui improvvisamente entra un’intricata materia melodico-armonica che potrebbe ricordare i Soundgarden di "Black Hole Sun", ma al contrario è più legato alle bizzarrie psichedeliche anni Sessanta, soprattutto quelle dei periodi più malati, con tanto di synth miagolanti di stampo residentsiano e voci sintetiche digitali a caso, che oggi piacerebbero a Björk, per un gran finale. Un brano contro la religione, diretto e senza peli sulla lingua: l’arrangiamento scorre come l’acqua pur essendo variegato e dettagliatissimo come un mosaico di vetro.

“Il bagliore dato a questo sole” prosegue con le atmosfere rarefatte e parsimoniosamente acide, non disdegnando un momento più noiseggiante, che vede sicuramente l’influenza de I Dischi del Mulo e del giro Ferretti-Zamboni, all’epoca sicuramente dei fari per il rock alternativo italiano (la passione è dichiarata d'altronde esplicitamente in un successivo video di Gazzè in cui i beniamini della DdM apparivano fra i suoi miti in un originale Indovina Chi?). Tutto questo è però filtrato da una sensibilità ancora una volta alla Dalla: “Liberi di ascoltare le ragioni dentro al cuore e nell’anima”, recita il testo. Un brano sulla libertà e sulle difficoltà di raggiungerla se non con il grande rischio di bruciarsi le ali per colpa dei “riflessi della mente”. Un brano che rifiuta l’orecchiabilità per la narrazione, anche se in alcuni tratti sembra di sentire addirittura il primo Calcutta in una strana versione “progressive”.

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“Karboga” è il brano più duro, di gusto stoner anche qui particolarmente complesso nella struttura: cambi continui e momenti mediorientali che ricordano i momenti di Fisiognomica del solito Franco, solo più glassati da una dura crosta ancora una volta digitale. Si parla di santi sepolcri, di crociate, di sangue versato ancora una volta per una religione del cazzo. “L'audacia non serve per la buona giustizia”, “ogni terra è santa, ogni uomo guerriero”. Particolarmente inquietante e attuale se ascoltata oggi, il brano è un missile pestato che non lascia spazio a compromessi, come il feedback finale insegna.

“Sirio è sparita” è una giostra simil funk in cui Ghost in the Machine sembra essere in agguato, ma poi si scompone in mitragliate di momenti melodici quasi mantrici (mi immagino un Gazzè che incomincia a fare vocalizzi alla Holly Herndon). Un brano sulla caducità delle cose, un’era che si sta sgretolando e la voglia di essere ingoiato nel cosmo a costo di finire in mille pezzi col “sangue goccia sul mare”. Immagini forti, insomma, lontane dai “timidi ubriachi” che verranno.

“L’eremita” sfoggia sintetizzatori digitali decisi, un brano sulla solitudine e sul desiderio di essa, che mescola momenti new wave a un salmodiare quasi panelliano, con un arioso ritornello ma anche con stacchi arditi che nel finale sfiorano il pestone punk. Ancora una volta un testo di grande poesia: "lui cammina piangendo storto / e nulla che rifletta il male / se non acque immobili / a specchiare l'urlo del silenzio / oppure un occhio obliquo / che guarda e ti sorride male".

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Mancano solo una manciata di brani per chiudere il disco e aprire però al momento più prettamente sperimentale, alla zozza e più noise di tutte "Terra": a forza di voci campionate alla Visionist e disagio mentale, ecco un Gazzè che non ci capisce più un cazzo, non dorme da secoli, si caca addosso e grida il suo disastro: “vedo un gatto secco spiaccicato da un tir, vedo le immondizie accumulate da mesi”. Nel piglio grottesco sembra di ascoltare il figlio di Sandro Oliva, altro probabile punto di riferimento. La base è gonfia di chitarre sporche e urlanti. In questo caso i testi sono del pianista Lucio Morelli che si crea un certo spazio con il suo pianoforte alla Bowie. Finale parlato che ricorda quasi i NoMeansNo quando gli piglia male: un bad trip totale.

“Il viaggio di luna” mette il piede sull’acceleratore del disorientamento, è il brano ritmicamente più complesso, dagli evidenti influssi fusion prog, dalla melodia quasi Cardiacs o in odore degli Yes periodo Trevor Horn, impossibile stargli dietro. Apparentemente parte ascoltabile, poi si arrotola come un pensiero delirante a dimostrare la grande perizia tecnica della band che fa pop, sì, ma tutto sommato mica tanto. Storia fantastica che potrebbe ricordare i testi di Branduardi, picchia in testa come un’allucinazione math rock che manco gli Oxes. Finale dilatato e disperso nei fischi delle chitarre che tracciano una linea d’orizzonte dove il sole muore.

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“Sono pazzo di te” è invece l’unica canzone d’amore che chiude furbescamente il disco. Unisce una composizione chiaramente classicheggiante, quasi da camera, con un arrangiamento che rimanda a Hegel di Battisti e di conseguenza alle ritmiche meccaniche di Greg Walsh. Condisce il tutto un cantato simil-lirico a doppiare un Gazzè che utilizza anche il falsetto in maniera teatrale e “buffa”. Inserimenti di chitarra acustica che potrebbero stare bene in un disco dell’ultimo De André. Nel video promozionale, completamente fuori di testa (in caso non si fosse capito che il nostro era avvezzo alle eccentricità), Gazzè è alle prese con una bambola gonfiabile, vestito come un pazzo e si produce in azioni senza senso (anche qui torna l’estetica Pollution). Il brano è il più commerciale del lotto ma proprio per questo il meno comprensibile, come in un cortocircuito dadaista.

Discorso a parte per gli intermezzi “sperimentali” seminati fra un brano e l’altro del disco. "Atmos" si presenta come un brano alla Fripp, ma dura solo cinquantasei secondi; in "Atmos 2" il nostro Gazzè invece si diverte a dare sfoggio della sua tecnica bassistica alla Stanley Clarke, fortunatamente spengendo l’interruttore dopo 18 secondi, lasciando l’ascoltatore – già pronto a criticarlo per la sua vanità tecnica - di stucco. "Atmos 3" dura 41 secondi ed è una sferzata hard funk quasi da Prince, "Atmos 4 (scherzo in Do minore)" è davvero uno… scherzo. Una midizzata aria classica da ascensore, che adesso piacerebbe tanto agli accelerazionisti tutti, due minuti e cinquanta di straniamento ed estraniamento che non si sa per quale motivo si trovi nella tracklist, ma proprio per questo funziona. Il finale è composto di uno scricchiolio vinilico che dura veramente assai, poi improvvisamente sale in fade-in la base di "Sono pazzo di te", per poi farla esplodere in una sbarattolata di lamiere a caso.

Insomma, all’uscita di questo disco Gazzè sembrava essere potenzialmente il paladino di una nuova generazione di cantautori spostati, che non volevano per nulla inserirsi in nessun tipo di mercato ma solo andare al sodo, spezzando le catene dei generi e della maniera. Come il Battiato di Fetus, il Gazzè dei Novanta trova la forza proprio in quell’ingenuità che però risulta davvero verace, e le aspettative, almeno per i fan dell'epoca, erano che il nostro avrebbe virato velocemente verso sonorità sempre più allucinate.

La critica però da subito accolse benissimo quest’album e, forse, il fatto di essere accolto da subito nel calderone del Locale fu paradossalmente il motivo per cui d'improvviso il nostro Max si trovò proiettato nel pop italiano che va a Sanremo, facendo il colpaccio. Da La favola di Adamo ed Eva, il nostro si è sempre bene o male mantenuto in equilibrio fra qualità, proverbiale stranezza e l’utilizzare le proprie innegabili risorse anche per vendere fumo (ad esempio l’ultima hit, "La vita com’è", non si può davvero ascoltare), ma non c’è più traccia di quell’energia grezza che lo poneva negli “inclassificabili” del pop italiano. Tanto che lui stesso a volte, nelle interviste più recenti, dichiarava di voler tornare con lo spirito a quei primi due album di cui probabilmente anche oggi sente la mancanza a livello di freschezza e d’istintività.

Adesso il nostro sta per tornare con un lavoro ambizioso: nel 2018 pubblicherà una vera e propria opera “sintonica” chiamata Alchemaya. Speriamo che dopo lo scivolone di Maximilian (a proposito: che è sta storia Max? Mi hai copiato l'idea?) qualcosa cambi e che questo nuovo progetto non risulti l’ennesimo delirio megalomane di un cantautore di successo. D’altronde non è sempre facile per un punk scagliare i propri sputi contro un’onda del mare.

Demented è su Twitter: @DementedThement.

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