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Urochromes al Le Guess Who? (foto di Patrick Aleotti)

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Musica

Come possiamo migliorare i festival in Italia nel 2019?

In Italia siamo ancora abituati a pagare tanto per concertoni scomodi negli stadi e nei palazzetti, ma il festival olandese Le Guess Who? ha molto da insegnarci.

I grandi festival italiani hanno bisogno di un nome forte per giustificare la loro esistenza. Non parlo dei boutique festival, cioè quelli che si svolgono in contesti di forte attrattiva, si rivolgono a nicchie ben definite e non hanno bisogno di chiamare Vasco Rossi per sopravvivere. Parlo di cose come il defunto Heineken Jammin Festival, il Rock in Roma, l’I-Days: eventi che più che festival sono rassegne di concertoni con un nome da decine di migliaia di persone in cima e qualche opener che anche se non c’era non era poi un problema.

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Di questo si parlava a una mini-conferenza a cui mi sono trovato ad assistere all’interno di Linecheck, un meeting per addetti ai lavori dell’industria musicale. La domanda era: perché chi organizza concerti tende a dipendere dagli headiner? Quanto c’entra il pubblico, quanto il contesto, quanto la volontà di non rischiare da parte degli organizzatori?

Tra le persone che parlavano c’era Bob Van Heur, che con la sua compagnia organizza due festival. Uno si tiene in Italia, si chiama Beaches Brew ed è un esempio perfetto di come fare un piccolo evento facendo affezionare sia chi ci suona che chi ci viene (parole chiave: Marina di Ravenna, gratis, spiaggia, semi-assenza di backstage). L’altro è in Olanda, si chiama Le Guess Who? ed è un esempio perfetto di via di mezzo tra grande e piccolo evento che in Italia non esiste.

cindy lee le guess who 2018 patrick aleotti

Le Guess Who? si svolge a Utrecht, cioè non in una complessa metropoli ma nella relativa quiete di una città universitaria di medie dimensioni, ben collegata al resto del paese e del mondo dato che a quaranta minuti di treno c’è l’aeroporto di Schiphol. Ci sono concerti per quattro giorni in giro per il centro e la prima periferia. In tutti entri con un unico braccialetto. Quando la capienza è raggiunta non entri più ma hai sempre qualche altro posto in cui andare. Alcuni concerti si fanno in chiese, altri in piccoli club, altri ancora in capannoni in zone semi-industriali.

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Il festival gira però attorno a un edificio bellissimo e trasparente che si chiama TivoliVrendenburg, inaugurato nel 2014 e progettato dallo studio architettonico AHHH. L'impressione che si ha entrandoci è quella di un grande centro per le arti in stile Barbican, a Londra, solo con vetro, acciaio e colori sgargianti invece del grigio cemento armato brutalista. Ma può capitare, come al sottoscritto, di arrivarci dentro per la prima volta, guardare un concerto nella Grote Zaal - 1700 posti posizionati in maniera creativa - e rendersi conto solo dopo un po' che all'interno dell'edificio di sale concerti ce ne sono almeno sei, completamente autonome le une dalle altre.

In un primo momento è più che comprensibile una sensazione di spaesamento e delusione: può capitare che la capienza di una sala venga raggiunta già prima dell'inizio di un concerto, impendendoti così di arrivare bel belli due minuti prima dell'inizio di uno show spingendo in mezzo alla folla per stare davanti. Quando non sono riuscito a entrare né a vedere la dea giapponese delle percussioni Midori Takada né l'africano Hailu Mergia mi sono diretto verso la sala principale senza ben sapere che cosa ci avrei trovato dentro, felice solo di appoggiare il mio sedere su un cuscino per un po'. Dentro c'era Anoushka Shankar, cioè la figlia di Ravi Shankar, cioè il leggendario suonatore di sitar che insegnò il suo strumento a George Harrison dei Beatles e suonò a Woodstock. Con un'orchestra.

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È in momenti come questi che Le Guess Who? rivela il suo valore. La line-up, costruita con l'aiuto di tre artisti-curatori selezionati di edizione in edizione - quest'anno Devendra Banhart, il jazzista inglese Shabaka Hutchings e Asia Argento, poi rimossa dalla comunicazione dopo lo scandalo che l'ha vista protagonista - è infatti un assemblaggio sapiente di avanguardie, hype, classiconi e curiosità che copre l'intero spettro della proposta musicale contemporanea. Se ti ci approcci con spirito aperto, lasciandoti affascinare dai suoni che si intrufolano nelle tue orecchie di sala in sala, è un'esperienza che cambia il concetto di quello che un festival può essere.

Una delle organizzatrici del festival, Jessica Clark, ci ha spiegato che Le Guess Who? vuole essere un festival politico. Non tramite proclami ma grazie a una selezione artistica il più ampia e inclusiva possibile che interagisca con tutte le anime della città che lo ospita. E ce lo ha detto all'interno di un antico mulino nel quartiere di Lombok, popolato dai lavoratori che dalle colonie emigrarono nell'Olanda che aveva conquistato le loro terre. Eravamo lì a vedere il concerto di una band turca, fuggita dal proprio paese in questi ultimi anni di espansione dell’influenza autoritaria di Erdogan sulla società.

Nel giro di quattro giorni abbiamo visto Islam Chipsy & EEK, egiziani che prendono a manate batterie e una vecchia Yamaha polverosa per creare deliranti danze futur-tribali; il sudafricano Sibusile Xaba, che faceva suonare la chitarra ruvida e rugosa come la pelle dei suoi polpastrelli; il rock giapponese fuori dal tempo dei Kikagaku Moyo e quello oltre il tempo e le forme dei Bo Ningen; abbiamo ballato il reggaeton spirituale di radice haitiana di Kelman Duran, l'elettronica ibrida di DJ Haram, i racconti per musica improvvisata di Lonnie Holley.

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Abbiamo ascoltato lo spoken word artist Saul Williams parlarci dei nostri tempi con la techno suggerita di King Britt in sottofondo. Abbiamo visto i britannici Sons of Kemet ricordarci, con quattro batterie, un trombone, un sax e un clarinetto, l'esistenza di regine nere troppo spesso dimenticate. Abbiamo visto il rapper inglese Kojey Radical sputare la rabbia per un amico scomparso e l'ex veterano dell'esercito americano JPEGMAFIA trattare il suo concerto come un sacco da boxe, con il suo stesso corpo al posto dei guantoni. Abbiamo ascoltato la violoncellista americana Kelsey Lu suggerire l'esistenza di un'intersezione tra ricerca estetica e vocalità pop.

Uno dei concerti migliori a cui abbiamo assistito, sicuramente al festival e forse nelle nostre vite, è stato quello dell’Art Ensemble of Chicago. È stato un live incredibile: musica densissima, dinamica, riflessiva, resistente fieramente nera. Andare a Le Guess Who? significa quindi trovarsi nel nucleo dell'avanguardia musicale mondiale contemporanea. Quella in cui i confini sono crollati e il mondo-Europa si è reso conto di essere uno sputacchiello in confronto alla grandezza dell'altro-mondo che in realtà era sempre stato il-mondo. Quello che si ottiene buttando giù tutti i muri è esattamente quello che il micro-cosmo di LGW riesce a creare: inclusività, interazione fra mondi diversi e ottima musica. La domanda è: perché in Italia non esistono eventi del genere?

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Innanzitutto è necessaria una connessione con amministrazioni comunali volenterose, dato che il LGW ha convenzioni con attività, musei e noleggi di biciclette, così da agevolare l’esperienza in città di chi ha acquistato un biglietto. Servono poi infrastrutture all’altezza: nel nostro paese non esiste nulla di simile al TivoliVrendenburg, ma nulla impedirebbe a diversi locali e realtà di fare fronte comune per organizzare qualcosa di simile, un po’ come nei primi anni del Club to Club a Torino.

C’è poi la questione geografica, che abbiamo già affrontato ampiamente sia in senso ampio che per quanto riguarda il mondo hip-hop: l’Italia non è ottimale da raggiungere da un punto di vista logistico e i promoter non possono permettersi di rischiare a chiamare artisti che non gli garantiscono un ritorno economico dato il mercato relativamente piccolo a cui si rivolgono. Il nostro pubblico predilige infatti i singoli concertoni da stadio o palazzetto e/o gli artisti che cantano in italiano.

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Ci sono un paio di casi che vengono in mente: uno è quello di Radar Festival, che si sarebbe dovuto tenere la scorsa estate all’Idroscalo di Milano. Il cartellone comprendeva tanti nomi medio-grandi del panorama internazionale più o meno rari da vedere dalle nostre parti e spaziava tra generi, toccando rock alternativo (Charlotte Gainsbourg, Superorganism), rap (Yung Lean, Young Fathers, Young Signorino), R&B (Sampha), dancehall (Bad Gyal), elettronica (The Black Madonna, Fatima Al Qadiri, SOPHIE, Populous). Dopo qualche tempo dalla rivelazione del cartellone il festival è stato però annullato. Il motivo non è stato dichiarato esplicitamente dagli organizzatori, ma si è molto parlato dell’annuncio di un concerto gratuito di LIBERATO nella stessa città e nello stesso giorno come uno dei principali.

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Le sovrapposizioni di concerti vanno infatti a danneggiare il pubblico italiano interessato a questo tipo di eventi: un insieme di persone relativamente piccolo, concentrato nelle grandi città, non forte di un grande potere d’acquisto, disabituato all’acquisto di prevendite. Lo ha dimostrato anche l’ultima Milano Music Week, un raccoglitore di eventi e concerti invidiabile che ha riempito le agende degli appassionati di musica di Milano ma ha anche creato piste e locali semi-vuoti. Il già citato Linecheck, nonostante un cartellone che proponeva interessanti nomi dell’underground internazionale, si è infatti riempito solo una sera su tre: quella del concerto dell’italianissimo Motta, un artista non certo inusuale da vedere dal vivo.

Secondo Bob Van Heur questo è il risultato di un lavoro pensato sul lungo termine il cui obiettivo è creare uno spazio accogliente in cui persone e artisti vogliono tornare anno dopo anno - proprio come il Beaches Brew di Ravenna, ma in città invece che in spiaggia. Come ha dichiarato: “Proviamo a presentare generi meno mainstream proprio come presenteremmo artisti più popolari. Al nostro festival non ci sono headliner, chi siamo noi per giudicare chi è più importante e famoso? Lo può decidere direttamente il nostro pubblico”.

C’è anche una questione di intenti: sebbene la crescita economica sia l’obiettivo teorico di ogni festival, Van Heur sostiene che LGW sia diventato sempre più grande in maniera organica. L’idea è sempre stata solo quella di presentare cartelloni capaci di risultare al contempo coerenti e poliedrici: nella stessa sala possono suonare di fila un duo che mischia elettronica e black metal come i Bliss Signal e leggende dell’alt-rock sporco di sintetizzatori come i Seefeel.

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Un festival di respiro europeo come LGW non si costruisce certo in un giorno e una versione italiana dovrebbe comunque essere pensata a partire dal contesto in cui nasce. L’idea dei curatori andrebbe sfruttata: esistono personaggi di richiamo che stanno a metà tra mainstream e underground capaci di funzionare da fari su artisti meno conosciuti (e penso a gente come la già citata Asia Argento, Manuel Agnelli, Calcutta). Questi potrebbero anche suonare insieme a progetti teoricamente lontani dalla loro audience ottenendo comunque ottimi riscontri di pubblico, come già dimostrato dal live di Motta insieme al gruppo tuareg Le Filles De Illighidad a Linecheck quest’anno.

La situazione concertistica italiana non è comunque drammatica. Milano sta vivendo un momento di grande fervore e capitano spesso settimane in cui è possibile farsi un concerto ogni sera. Un festival come Club to Club continua a crescere di profilo e ha creato Viva!, portando in un’area lontana dalle metropoli come la Valle d’Itria artisti di caratura internazionale. I boutique festival, come dicevamo, sono la nostra specialità e funzionano bene al nord (Terraforma) come al centro (Siren, Beaches Brew) e al sud (Ortigia Sound System, Ypsigrock).

Il grande pubblico preferisce per ora pagare tanto per stare in non-luoghi come parcheggi e spiazzi in mezzo a decine di migliaia di persone per guardare un Eminem, un Post Malone, una band come i Pearl Jam o una produzione milionaria come quella di Beyoncé e Jay Z. Sarebbe bello nel 2019 poter pensare a eventi che si rivolgono a pubblici medio-piccoli, facendo sì qualche concessione a livello di selezione artistica con artisti italiani o di grande richiamo ma provando a creare ambienti accoglienti, incontri unici, mentalità aperte.

Grazie a Patrick Aleotti per le foto. Seguilo su Instagram.

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