Commercial Zone dei PIL, l'album figlio della tempesta

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Musica

Commercial Zone dei PIL, l'album figlio della tempesta

La storia dell'album che non sarebbe mai uscito se il chitarrista Keith Levene non l'avesse rubato a John Lydon.

Se c'è una band perfetta per la rubrica album non album, si tratta sicuramente dei Public Image Ltd, ovverosia i PIL. Sì, perché la creatura post-Sex Pistols del geniale giullare dai capelli bruciati John Lydon ha sempre pubblicato della roba al limite fra il nulla e il tutto, dove le cose sembravano uscire improvvisamente come un coniglio dal cilindro di un illusionista, proprio nel momento in cui ti aspetti invece il disastro totale sparso in una discografia costellata di "buona la prima": per cui a volte è difficile anche individuare chi è cosa, chi suona cosa, chi produce che.

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Basti pensare che nei primi due dischi seminali della band (ovvero First Issue e Second Edition) i batteristi sono semplicemente musicisti provinati e messi alla porta il giorno stesso, il cui casting diventa improvvisamente la traccia originale pubblicata per direttissima, a tradimento. Post-produzione quasi azzerata, a volte tracce in cui il chitarrista e deus ex machina Keith Levene suona tutto, dal basso alla batteria passando per i synth, senza che sia accreditato, e gli altri restano al bar a farsi un caffè o semplicemente chiusi in casa a schiacciare plegine. Dischi conclusi risparmiando sul budget della Virgin, speso probabilmente in altri vizi più interessanti rispetto alle sette note, come dimostra il disco d'esordio, in cui i nostri cercano dei riempitivi che poi alla fine, anche qui non si sa come, diventano dei classici, come la molesta "Fodderstompf", nata appunto nella spinta creativa/autodistruttiva di cercare un modo per arrivare al minutaggio sufficiente per completare un disco.

Per non parlare del primo live dei nostri, Paris au Printemps, un disco dal vivo registrato col culo, proto-lo-fi, che fa dell'approssimazione la sua bandiera nera (in senso anarchico ovviamente). Il suono incerto, sfasato, assolutamente non limato, anzi sporco come pochi, tanto da somigliare a un bootleg, dà al disco una patina allucinata e quasi "spiritica", che rende il tutto affascinante e anche qui i soldi investiti per una registrazione decente, chissà come, se li sono spesi.

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Il terzo album in studio, Flowers of Romance, è in qualche modo il picco della sperimentazione estremista dei nostri che aboliscono praticamente il basso per concentrarsi sulle percussioni tribali e malate ottenendo incredibilmente anche un'inaspettata semi-hit, ovvero il brano omonimo, che si ferma al 24° posto in classifica (anche lì brano suonato e concepito tutto da Rotten, con la band sparita non si sa dove).

In generale i PIL sono una cosa difficilmente inquadrabile, la cui genialità è proprio questo nichilismo di base per cui la qualità diventa il suo esatto opposto e funziona perfettamente. L'assolo di chitarra su "Track 8" contenuto in Flowers of Romance è quanto di più repellente mente umana può concepire, suonato come se si volesse manifestare a tutti gli effetti il totale fastidio nel dover fare una qualsiasi cosa, figuriamoci un disco. Cade tutto a pezzi, ce lo vediamo spiattellato in faccia, ma è questo giocare sulla realtà dei fatti che rende almeno i primi tre dischi dei capolavori assoluti.

La recente ristampa di Second Edition, anche conosciuto come Metal Box, e poi di Album, due dischi che in un certo senso hanno fatto la storia sia nel bene che nel male, e il documentario da poco uscito sulla band, ovvero The Public Image is Rotten, che è in piena fase promozionale, hanno riportato i riflettori su quello che è a tutti gli effetti un esperimento totale su quella categoria chiamata "ascoltatori". Esperimento che supera ogni fase temporale essendo fuori della grazia di dio per natura. Vero è che in ristampe, ristampine, raccolte, celebrazioni, deluxe edition e via dicendo, manca un disco che sicuramente rappresenta l'anello mancante fra i PIL d'epoca e quelli che verranno, quelli di Rise e compagnia bella. Questo disco si chiama Commercial Zone.

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Commercial Zone non è un disco ufficiale ma neanche un disco pirata: la sua esistenza è sempre stata nascosta in un limbo fra la curiosità e il gingillo per completisti, ma non ha mai raggiunto lo status vero e proprio di culto—a differenza del famigerato bootleg del live al Ritz (uscito con titoli tipo The Famous Riot Show!) in cui i nostri, esibendosi dietro un telo bianco e non uscendo mai allo scoperto, nonché suonando con una formazione raffazzonata che prevedeva un batterista jazz preso dalla strada la sera stessa (Sam Ulano) e una serie di manipolazioni ai nastri magnetici di registrazioni in studio, provocarono una rissa micidiale che costò ferite agli spettatori e il rimborso immediato di tutti i biglietti. Come può essere? Vediamolo assieme.

Stavolta l'idea di fondo è mettere a punto un prodotto che possa essere allo stesso tempo sperimentale e "di massa", in qualche modo destrutturando tutti i cliché della musica commerciale d'epoca (come da titolo) filtrandoli attraverso la mentalità PIL. L'obiettivo è ovviamente quello di fare i soldi, ma senza mettersi a pecora. "This Is Not A Love Song" è la canzone simbolo di quest'atteggiamento: perché a differenza dei Pistols, i PIL sanno cosa vogliono e fondamentalmente anche come ottenerlo. "Happy to have and not to have not", in pochi criptici versi questa non-canzone d'amore sembra dire: "non aderiamo a questi valori ma di base li usiamo, li truffiamo, li rigiriamo come un calzino"—una specie di anarcocapitalismo volto al consumo sfrenato del nemico fino al suo prosciugamento.

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Si chiudono quindi in sala col produttore Bob Miller, avvezzo alla disco-funk che tanto allora spopolava; trovano un nuovo membro in Pete Jones, in precedenza compagno di merende del batterista Martin Atkins nei the Hots, bassista minimale ma martellante e dedito agli slap quanto basta, e si mettono al lavoro. La confusione però regna da subito sovrana, dimostrando che anche a sapere cosa si vuole in teoria, la pratica è invece tutt'altra storia: prima cercano inutilmente di mettere su una loro etichetta personale, poi annunciano l'uscita di un mini album ovvero You Are Now Entering a Commercial Zone che però non vedrà mai la luce.

Rimarranno in sala invece a macinare sessioni, forse con l'ambizione di produrre una pietra miliare. Ma in breve le primedonne del gruppo, ovvero Lydon e il geniale chitarrista Levene, arrivano ai ferri corti: in teoria il primo vuole pubblicare tutto al volo, ottenendo quanto più denaro possibile. L'altro, al contrario, vuole rimanere di più in sala e lavorare in maniera certosina al missaggio, anche se di base è mentalmente instabile e potrebbe continuare a missare per anni senza arrivare da nessuna parte. Famoso il litigio telefonico fra i due a proposito del missaggio di "This Is Not A Love Song", che Levene detestava: Lydon era lontano, a Los Angeles, e al telefono sbraitava contro Levene per farlo sloggiare dallo studio, impedendogli praticamente di lavorare.

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A quel punto se ne va anche Pete Jones, stufo dell'instabilità mentale dei due, completamente alterati dalla droga: la goccia che fa traboccare il vaso è il divieto alla ragazza di Jones di prendere parte all'imminente tour giapponese, a differenza delle fidanzate di Lydon e Keith. Ma probabilmente anche le scelte stilistiche della band scatenarono il suo disappunto (un basso che in poche parole era manipolato ed equalizzato da Levene su timbriche spigolose togliendo di molto la personalità di Jones), privando i PIL della migliore sezione ritmica post-Wobble.

Prima di tutto questo casino riusciranno miracolosamente a pubblicare come singolo quella "This Is Not A Love Song" che inaspettatamente, nella versione proprio di Commercial Zone, arriverà al quinto posto in classifica. Sul lato B, un brano minaccioso e claudicante, con un tempo spezzato e testi in odore di ipotermia mista a suicidio, ovvero "Blue Water", in cui si assaggia la sperimentazione dei synth triggerati alla batteria.

Insomma, un inizio niente male. Peccato che, andati Levene e Jones, il resto del lavoro ricada sulle spalle del duo Lydon-Atkins e su session man di scarsa qualità, lezione imparata da Chuck Berry, con i quali intraprenderanno il famoso tour giapponese che si tradurrà in Live in Tokyo. Questo disco dal vivo nacque in un certo senso proprio per tappare il buco di Commercial Zone, presentando brani allora inediti come "Bad Life" e "Solitaire", utilizzando una tecnologia di registrazione digitale avanzatissima per delle performance discutibili, in perfetto stile PIL, professionisti del paradosso.

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Mentre i nuovi PIL sono impegnati nel tour del Sol Levante, siamo a metà '83, Levene decide di rimissare tutto Commercial Zone di nascosto, compresi i brani dove lui neanche c'era, e di portarlo alla Virgin spacciandolo come il disco finito, scoprendo che invece Lydon aveva già deciso di rifare tutto da capo. Rimasto solo contro il mondo, a Levene non resta altro che entrare a gamba tesa nel mercato pubblicando nel 1984 a sue spese Commercial Zone in una tiratura di diecimila copie su un'etichetta fantasma creata per l'occasione, la PIL Records Inc.

pil public image ltd this is what you want this is what you get copertina album commercial zone

Nel frattempo però Lydon pubblica This Is What You Want… This Is What You Get, ossia una versione "patinata" di Commercial Zone, con un cambio di scaletta che vede alcuni brani depennati e nuovi inediti inseriti, ma soprattutto con tutte le tracce di Levene brutalmente cancellate. A quel punto Levene torna all'attacco producendo nuove copie proprio per confondere gli acquirenti ed entrare in diretta concorrenza con l'ex amico, che probabilmente distrusse i suoi contributi poiché scottato dalla pubblicazione delle tracce vocali su Commercial Zone, secondo lui non all'altezza della situazione. Insomma, una specie di guerra fra due ego ipertrofici a posteriori assolutamente insensata, con perdita di denaro e di energie da ambo le parti come se niente fosse.

Sicuramente a vincere è la musica. Quella contenuta in Commercial Zone è esattamente quello che potremmo aspettarci dai PIL che tentano di fare i soldi a modo loro, ovviamente fallimentare: arrangiamenti scarni, batterie farmacologiche e triggerate, aperture nel funk bianco mai tentate prima, sintetizzatori che bucano lo schermo ma centellinati e autistici, arpeggiatori random ma subliminali, chitarre che a differenza degli altri dischi risultano sobrie, composte, intonate, ma nervose come non mai, con inserimenti blueseggianti che forse si rifanno alla scuola degli Stones periodo eighties o alla lezione di Lou Reed, scrittura minimale, anemica, rigorosa.

Nonostante il tentativo di piacere, Commercial Zone risulta comunque ostico, come d'altronde sono tutte le muzak da centro commerciale: per questo è ancora nell'oblio. Un disco di frontiera che è forse l'ultimo grande disco dei PIL nella formazione storica, in cui Levene spicca come forza creatrice del tutto, tanto che il suo accanimento nel rivendicare la paternità dei brani può essere interpretato solo come amore romantico di un cuore musicalmente infranto. I testi di Lydon, d'altronde, sono quanto di più acido abbia mai scritto, soffermandosi su deliri di onnipotenza e solitudini metropolitane prive di sbocco, che forse sono lo specchio psichico del periodo vissuto dalla band all'epoca.

Soprattutto i brani non contenuti nel suo gemello This Is What You Want…, ovvero "Miller Hi-Life", "Bad Night" e "Lou Reed part 1", dimostrano che i PIL stanno facendo le pernacchie al pop seguendo proprio le sue leggi, quelle dell'offerta che supera la domanda, quelle della quantità a scapito della qualità. Commercial Zone poi, di contro, ispirerà anche gli inediti presenti in This Is What You Want…, quali "The Pardon", "1981" e "Tie Me To The Length of That", brani che in un sol colpo, con il loro andazzo etno/afro/esotico ispireranno molta dell'elettronica e del pop anni Novanta/Duemila (Björk, per dirne una, che per "Human Behaviour" sa chi ringraziare, ma anche MIA e i Gang Gang Dance e probabilmente anche Jlin).

Insomma, da un disco ne abbiamo praticamente due, cosa che raramente accade: peccato che nessuno si sia preso la briga di ristamparlo, anche illegalmente (Keith Levene, in modo paraculo, si approprierà nel 2014 della dicitura Commercial Zone solo per un suo progetto solista che nulla ha a che fare con l'originale). Potremmo finalmente consegnare alla storia un album che, a tutti gli effetti, l'ha fatta: ora siamo tutti, ahimè, in una fottuta Commercial Zone.

Demented è su Twitter: @DementedThement.

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