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Musica

Claver Gold, da mezzo scemo a genio

Abbiamo chiesto a Claver Gold di spiegarci i testi più belli del suo nuovo album, parlando della sua infanzia ad Ascoli, di rap italiano e di quanto sia importante affrontare le proprie ansie e paure.

Claver Gold rappa di sé come se si fosse aperto il cranio e stesse analizzando pezzo per pezzo tutte le pieghe e gli incavi del suo cervello. Ossessionato e invigorito dalla propria esperienza di ragazzo di provincia cresciuto ed eternamente legato alla cultura hip-hop dei tardi anni Novanta, è arrivato a far parlare di sé a livello nazionale adottando uno stile lirico fortemente identitario. Al suo interno, storie di strada ed eroina vengono coperte con veli di metafora, scene di vita sentimentale e relazionale prendono forma di piccoli drammi, problemi e malattie vengono presentati nella loro cruda evidenza. Requiem è il nuovo capitolo della sua personale narrazione—ce lo siamo fatto spiegare tramite le parole delle sue canzoni più significative.

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Noisey: Dato che sono già uscite un tot di interviste in cui ti sono state poste già forse tutte le domande standard sull'album, volevo parlare con te chiedendoti di commentare delle citazioni dai tuoi nuovi testi. Cominciamo da da "Ballo coi lupi": "A scuola non studiavo ed ero mezzo scemo / Adesso che la critica dice che sono un genio". Questa narrazione del ragazzino incompreso che va male a scuola e diventa artista è autobiografia?
Claver Gold: Sì, e parlo soprattutto di quando ero alle scuole inferiori, alle elementari e alle medie, quando non avevo ancora capito che dovevo aiutarmi da solo. Eravamo cinque figli in famiglia, e i miei genitori—giustamente o meno—non riuscivano fisicamente a stare a dietro a tutti. Io ero l'ultimo, e quindi andavo a scuola senza studiare, impreparato. Per quello sembravo mezzo scemo! Andavo lì, mi sedevo, imparavo le nozioni base che dovevo sapere e via così. Alle superiori e all'università è cambiato tutto.

E della seconda parte che mi dici? In "Deja-vu senza fiato" dici "Non mi riesco più a godere quei traguardi che ho raggiunto". Sono collegate le due cose?
La strofa che citavi prima è una contrapposizione che finisce lì. Magari c'è un sottotesto di "Dove eravate prima?" Quest'altra frase… arrivi a un certo punto in cui ti prefissi dei traguardi—laurearti, fare bene col rap—e una volta che li raggiungi, e provi soddisfazione, hai bisogno di averne altri. Non si tratta di insoddisfazione, depressione o pessimismo cronico.

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Qual è stato il momento in cui ti sei reso conto per la prima volta di questa sensazione?
Quando mi sono laureato ed è uscito poco dopo Mr. Nessuno, che andò abbastanza bene. E da lì ho detto "Cavolo, ci ho messo una vita a studiare, laurearmi e fare il rapper. E adesso che faccio? Devo assolutamente fare meglio una di queste due cose". C'è poi il discorso del denaro, che è una soddisfazione ma non di per sé: "Vittima dei soldi che non ho avuto", dico sempre in "Ballo coi lupi". Parlo di quel potersi comprare tutto quello che da piccolo non hai potuto avere. Come il potersi prendere una Playstation, ma solo perché sono andato io a comprarmela. Avere dieci paia di scarpe perché da piccolo ne avevo solo uno.

Ne "La notte delle streghe" dici: "Io rovesciavo scope come scudi messe di fronte alla porta / Portavo sempre a letto un ansiolitico di scorta / Stavolta sarà l'ultima dicevo, forse non le vedo / Verso un altro distillato e bevo che quasi ci annego". Che cosa ne pensi della presa di coscienza della scena riguardo a temi come la depressione, l'ansia, la dipendenza?
A livello mondiale e nazionale è giusto che si trattino argomenti che riguardano, in questo periodo storico, tante persone. L'ansia è un po' la malattia del nuovo millennio, no? È giusto che se ne parli a discapito di altri argomenti, quindi sono contento. Però dico che fino a quando non dici la parola "ansia" non sai di averla. Il primo attacco di panico mi venne nel 2010, a Bologna. Sono uscito di casa e mi sono fatto quattro chilometri a piedi per andare all'ospedale perché non capivo cosa fosse, ero terrorizzato. Arrivato lì mi è passato e sono tornato, sempre a piedi. Durante la mia prima seduta, il mio analista mi ha detto, "Tu hai l'ansia perché hai dei brutti ricordi di quei momenti in cui hai avuto attacchi d'ansia e di panico. Ora che sei qua a parlare con me, la sedia dove sei poggiato ha un leggero pezzo di legno che spunta fuori e ti sta puntando sulla schiena, lo senti?" E io, "No". "Fino adesso te ne eri accorto?" "No". "Adesso ti disturberà per tutta la seduta". L'ansia è la stessa cosa. Parlarne nei testi può quindi fare bene, ma bisogna stare attenti a non togliere valore al termine. "Ansia", "stress" sono parole di uso comune, e potrebbero anche risultare affascinanti per le generazioni più giovani.

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In "Quando sei con lui", dici “Ora che supero i trenta / La vita spaventa / E mi chiedi 'Quando esce il vinile?'".
Questa cosa del vinile volevo avesse una valenza tipo, "Tu mi fai domande banali". A trent'anni la vita ha problemi molto più grandi—si vive soli, si paga l'affitto, si deve stare attenti al rapporto con una compagna, si passa tutto il giorno a pensare agli stress. E tu mi chiedi, tipo, quando suono nella tua città? E che, devo venire sotto casa tua per farti venire a un live? Essendo di Ascoli ti sei fatto un po' di chilometri per andare a dei live, immagino.
Ne ho fatte tante, quando ero piccolo! Quando non avevo neanche la patente facevamo sempre in treno Ascoli-San Benedetto-Pescara. Che dici, è un'ora, un'ora e mezza. Ma a sedici, diciassette anni mi sembravano veramente viaggi lunghi. Ricordo un vecchio concerto di Inoki, quando uscì il disco di Shocca, 60 Hz, a Pescara. E un 2TheBeat a Bologna, in bus come le bestie… c'era una sola navetta che passava ogni ora, e la gente entrava dai finestrini!

In “Uno come me” dici, “Dicono eri meglio prima, prima del successo / Ma quale successo, che cosa è successo?" L'eri-meglio-prima è un grande classico delle lamentele del rap. Parliamone.
È un po' così, proprio per dire "Ma che è 'sta roba?" "Adesso che vendi non fai più la roba che facevi prima", mi dicono, ma non mi sembra di fare altra musica. È un sentimento che dipende dal legame che hai con determinati album. Per esempio io ho un legame forte con Sindrome, che non è il miglior disco di Fibra, ma lo è per me. Se entri a contatto con un artista o un disco in un momento importante per la tua vita, per te quello sarà sempre il migliore. Non si tratta di una vera critica—è un eri-meglio-prima, ma per me. Poi probabilmente in alcuni casi è anche vero, eh! Ma io resto affascinato, per dirti, ogni volta che sento Ghemon dire "La carpa è diventata un drago" per parlare del passaggio dal fare rap al cantare.

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In "Un motivo" fai un ritratto perfetto della golden age del rap italiano. "Noi usciamo fuori dai '90 con i pantaloni larghi e un cuore di cristallo / La vita che strilla e la pupilla spilla dallo sballo / Scivolando lenti come pennarelli sul metallo / Dentro un vuoto di cazzate e l'odio per il maresciallo".
Sì è, lo stereotipo del b-boy del periodo! L'ho fatto per raccontare a chi arriva adesso che c'è stata un'altra cosa prima, che va rispettata a prescindere dal fatto che sia stata giusta o meno—come le posse, che hanno bloccato il rap e non l'hanno più fatto crescere. Parlo di golden era, degli anni tra il '98 e il 2000. Penso che tutti debbano essere informati su ciò che è successo, che qualcuno debba continuare a fare rap trasmettendo la cultura hip-hop. Se ci fai caso non c'è più chi balla, chi scratcha. E gli scratch nel disco li abbiamo messi apposta, così come abbiamo usato un termine che non usa più nessuno come "b-boy".

Questo anche perché l'Italia è un paese in cui il rap che porta avanti un discorso di cultura e tradizione hip-hop non ha un grande riscontro commerciale. Non esiste, per dirti, un Kendrick Lamar italiano.
Sarebbe figo se ci fosse… ci proviamo! È difficile introdursi nel mercato con un disco di nicchia come questo. Ma riabituando la gente all'ascolto di queste cose, tra un po', forse possiamo farcela.

La partecipazione di Fibra è sicuramente un buon segnale, in questo senso.
Certo! Quando ho mandato il beat a Fibra doveva capire subito che roba era, gli avevo detto che gli avrei mandato una roba anni Novanta. Lui è stato super professionale e mi ha mandato immediatamente la sua strofa.

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In “Non c’è show", che campiona "Non c'è limite allo show" di Fritz e DJ Lugi, dici “Io, son rimasto povero ma onesto / Verso una cultura che più vivo e più detesto". Stiamo parlando sempre della stessa cosa?
Eh sì, perché adesso questa cultura si è trasformata. Ci sarà sempre qualcuno a cui non va bene quello che sta succedendo. Io non sono uno di quelli. Sono contento che il rap vada, ma sarebbe figo se andasse anche un altro tipo di rap. Non che quello che va adesso debba morire, però quando apro la classifica FIMI e leggo "Salmo" dico "figo".

Hai fatto ascoltare il pezzo a Fritz e Lugi?
A Lugi sì! Lo abbiamo beccato quest'estate, ci abbiamo suonato insieme a Budrio e lui si è preso bene. Lui è sempre positivo, in generale. È una persona super solare, era contentissimo.

"Luca" è un pezzo molto privato. Penso che il ritornello sia davvero efficace nel raccontare le sfumature di un'amicizia che si dissolve: "Luca corre forte, ora scappa, la fiducia si strappa / Dentro tutti i miei no nascondo una bugia / Luca con la faccia distratta, 'Scusa di che si tratta?" / 'Dai, parliamone un po'', ma sono andato via".
Luca è il mio migliore amico d'infanzia. È con lui che, dalla prima media in poi, ho iniziato ad appassionarmi al rap, ad approcciarmi alla cultura, a fare le prime tag. Andavamo in motorino in due a copiare le lettere degli altri. Io stavo dietro, gli poggiavo il foglio sulla schiena, copiavo la "r" di uno, la "p" di un altro e facevo il mio tag tutto storto… Poi, verso la fine delle superiori, abbiamo avuto dei diverbi causati da stronzate. Però ho sempre tenuto dentro questa storia e non l'ho mai raccontata. Volevo esorcizzarmi, liberarmi da questo fardello.

In "Carpa Koi" c'è una frase che inquadra bene, penso, quello che fai. "Io cerco la vita dentro le emozioni / Fuori passano stagioni, tanto vinceranno i buoni / Sadico cinismo di generazioni / tan cadendo fiocchi di egoismo nelle mie canzoni". Oltre allo shoutout a Ghemon, mi inquadri il sentimento che volevi trasmettere?
È la mia parte preferita del pezzo, forse una delle mie preferite del disco. Per me significa questo: quelli che fanno parte di questo disco, quelli che fanno il tipo di rap che faccio io, come diceva Gruff, "stanno nel giusto". Era una cosa che non capivo bene, ma adesso capisco. Perché noi siamo noi… siamo stati qui da prima, ci saremo ancora e forse voi no. State prendendo parte ad una cultura magica di cui non sapete nulla, ve ne state un po' approfittando. Ma tanto vinceremo noi. Quando parlo di egoismo, lo faccio perché mi capita di rendermi conto di miei momenti in cui faccio cose che normalmente fanno parte di me. Anche nelle canzoni, delle volte, penso solo troppo a me. Ma è la mia storia, quale dovrei raccontare?

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