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Musica

Recensione: Summoning - With Doom We Come

Ci sono poche certezze nella vita, ma sulla coerenza e sulla personalità dei Summoning si può sempre contare.

C’era un tempo in cui il black metal non era altro che un concetto vago, per lo più promosso da gente che non aveva ben chiaro cosa stesse facendo. Poi venne un altro tempo, in cui il black metal divenne sinonimo di blast-beat e urla disumane, con un condimento di chiese bruciate, morti ammazzati e tutta una serie di disagi collaterali. Infine, venne il tempo delle tastierine, del metallo rivestito di suoni che sembrano usciti dallo xilofono della Chicco che vostra nonna vi ha regalato quando avevate tre anni sperando che un giorno vi trasformaste nel nuovo Ludovico Van.

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Fu a questo punto che arrivarono i Summoning. Gradualmente, in modo del tutto naturale, partendo tra l’altro da un album di debutto non proprio indimenticabile, Silenius e Protector portarono nel black metal qualcosa di totalmente inaspettato: le trombette. Due decenni e sette album dopo, i due Austriaci riconfermano al mondo di essere gli unici in grado di fare certe cose senza suonare pacchiani, posticci e sostanzialmente risibili. La lista delle band che ha provato a imitare il sound dei Summoning oggi è lunga quanto la manichetta dei pompieri, ma fatta qualche più o meno parziale eccezione (Caladan Brood, il “nostro” Emyn Muil, Sojourner e magari Saor), nessuno ci è andato neanche lontanamente vicino. Perché è dannatamente difficile riuscire ad essere credibili, ieri come oggi come per sempre, cantando della mitologia tolkeniana suonando black metal con la drum-machine e le trombette.

Eppure, con una naturalezza disarmante, l’ottavo album dei Summoning, nel suo immobilismo, nella sua litaniaca ossessività, continua a portare avanti imperterrito una poetica inaugurata ormai ventidue anni fa che fa di aggiustamenti minimi e coerenza massima i suoi unici cavalli di battaglia. Ormai è dal 2006 che ci siamo abituati al fatto che le urla dei due non più giovanissimi blackster possano essere comprensibili, o quantomeno semi-intelligibili, ma With Doom We Come è se possibile ancora più penetrabile, o meglio meno impenetrabile, sia di Oath Bound che di Old Mornings Dawn.

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Continua la tradizione ormai consolidata di un brano finale con cori e ritornello (anzi, la novità stavolta è che il brano è stato addirittura rilasciato come singolo in anteprima su Spotify), ma With Doom We Come addirittura ci accoglie con una canzone dedicata all’ultimo re di Númenor, Ar-Pharazôn, nei cui primi minuti la voce addirittura è esclusivamente pulita. Sotto di essa, una batteria elettronica poverissima, chitarre piatte e ancor più poverissime, e gli effetti di synth e tastiere del discount che portano all’effetto-trombetta di cui sopra. Coerenza, dicevo prima. Perché nel 2017 i tre quarti dei batteristi del mondo black metal venderebbero la propria collezione di dischi per poter suonare la batteria su un disco dei Summoning, ma i Summoning un batterista non lo vogliono. Così come non vogliono dei campionamenti moderni, delle ritmiche accelerate, né qualsiasi cosa che possa rischiare di rendere il loro sound meno personale e distintivo.

Ricordo, all’epoca dell’uscita di Oath Bound, un’intervista rilasciata alla defunta Flash in cui Protector raccontava di come, una volta terminato il lavoro su un nuovo album, partisse per una camminata sulle montagne in cui ascoltare in santa pace e assoluto isolamento il proprio operato prima di pubblicarlo, per poterlo valutare e riconsiderare a mente lucida. Da allora mi piace immaginare lui e Silenius lì, appollaiati su un cucuzzolo delle Alpi austriache, a contemplare dall’alto il mondo che cambia ai loro piedi e soprattutto la vastità del cazzo che gliene frega. Perché i Summoning continueranno a suonare esattamente come i Summoning anche dopo la Dagor Dagorath.

With Doom We Come esce il 5 gennaio per Napalm Records.

Ascolta il singolo "With Doom I Come" su Bandcamp:

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