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opinioni

Caro Michele Serra, su Torino e i giovani hai proprio sbagliato

Io ci provo, a non fare la parte del trentenne incazzato con quelli più vecchi di me. Ma stavolta non ci sono riuscito.

Il dibattito intorno ai fatti di piazza Santa Giulia a Torino ha acceso la fantasia di chi pubblica opinioni varie su Facebook—come il sottoscritto, chiaramente—e di chi *forse* ha ancora la possibilità di orientare il dibattito dalle colonne dei giornali di carta. D'altro canto, con temi come la 'vita notturna', il rapporto tra giovani, alcol e droghe e il ruolo della polizia, era praticamente inevitabile che succedesse.

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Ieri, ad esempio, è stato il turno di Michele Serra, storico commentatore già famoso per essere stato castigatore delle contraddizioni della sinistra "riformista"—e non solo—ai tempi di Cuore, e che su Repubblica tiene da tempo una rubrica (l'Amaca) che vuole essere una sorta di contraltare 'cinico' dei buongiorni moralisteggianti dei quotidiani della buona borghesia.

Serra è una penna molto intelligente, graffiante, ricca e capace di staccarsi quasi sempre dal pensiero "egemone" dei suoi coetanei, quel pensiero fatto di buonsenso e che da un lato strizza l'occhio all'establishment e dall'altro dà di gomito al famoso. Ogni tanto, però, Michele Serra sbaglia. E quando lo fa, lo fa molto più forte degli altri, e fino in fondo.

Qualche settimana fa, per dirne una, aveva difeso le parole di Debora Serracchiani sulla gerarchia 'morale' dei reati quando vengono dai migranti. "Capisco perfettamente l'avvilimento e l'ira di chi si sente colpito a tradimento dalle persone che sta aiutando," aveva detto, giustificando la "goffaggine" dell'esponente del PD per spiegare tuttavia "una cosa che in molti sentiamo essere vera: chi è ospite e riceve assistenza ha degli obblighi di comportamento."

Nella sua Amaca di ieri, Michele Serra ha scritto invece di piazza Santa Giulia e di "movida" (ce la facciamo a trovare un altro termine?), mettendo insieme un po' di banalità che confermano quanto, su certi argomenti, stia ormai abbracciando quella faciloneria manichea che possiamo definire "conservatorismo di sinistra"—una categoria particolare di moralismo che emerge in modo preoccupante soprattutto quando si parla di quella strana classe sociale onnicomprensiva e priva di qualsiasi sfumatura nota come i giovani.

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In piazza Santa Giulia, stando all'Amaca di Serra, martedì sera sarebbe sostanzialmente nata una nuova forza politica, un movimento spontaneo, un "fronte largo" tra i centri sociali—definiti praticamente dei covi di analfabeti—e gli avventori dei locali, trattati come dei pericolosi 'alcolizzati'. Un sentimento che avrebbe accomunato "movida e no-Tav" (sic) tra "capannelli birrosi che fanno casino fino all'alba." Sostanzialmente, una specie di giorno del giudizio ma in orario post-aperitivo.

Un'inedita alleanza, quella descritta da Serra, "tra il centro sociale con molte kappa nel nome—una, nda—e i ragazzotti con molti bicchieri in pancia uniti dall'edonismo, la velleità giovanile, l'istinto autodistruttivo e l'odio per i poliziotti." Meglio, un incontro tra "giovani molto radicalizzati e giovani solamente alcolizzati, furibondi per l'ordinanza della sindaca contro le bottiglie di vetro."

Adesso: posto che mi sembrano tutte ragioni nobilissime quando hai vent'anni, e posto che questa saldatura "tra movida e no-Tav" ovviamente non è vera, mi chiedo quale sia l'obiettivo di Serra nel generalizzare e affrontare in modo così grossolano un tema così complesso. Che senso ha? E che senso ha scriverlo?

Secondo alcuni miei amici faccio male a sorprendermi ancora per queste cose, perché il nuovo modo di vedere il mondo di Serra era già stato tutto sintetizzato dal romanzo Gli sdraiati. Un libro in cui l'appiattimento di un'intera coorte generazionale alla sola persona del figlio di Michele Serra—guardato con occhi preoccupati e straniti dallo stesso Michele Serra—era suonata come un'operazione quantomeno pigra. Fa sempre male, però, vedere come quelli che potrebbero essere a tutti gli effetti dei 'maestri' risolvano questioni del genere soffiando sul fuoco dell'inadeguatezza generazionale.

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A prescindere dal giudizio che possiamo avere su quanto successo a Santa Giulia, infatti, non posso che constatare come anche dentro le élite intellettuali della sinistra, quelle da cui potremmo comunque 'imparare qualcosa', sia ormai avvenuto davvero quel passaggio di confine, quel giro per cui chi ha fatto gli anni Settanta e ha creduto sinceramente nella possibilità di un nuovo mondo, dopo esserne uscito sconfitto e non aver lasciato niente per il mondo a venire, ha in qualche modo abbracciato quella visione di mondo 'pulito', ordinato e guidato da una concezione di buonsenso troppo simile a quella dell'antico nemico: il conformismo, il conservatorismo.

In pratica, hanno finito—o stanno finendo—con l'aderire a una visione delle cose nella quale non esiste la società ma solo gli individui. Un mondo in cui tanto vale smetterla di farsi illusioni e accodarsi, magari accontentandosi di qualche battuta più intelligente della media. È quel pensiero che parte dalla definizione di uno spazio morale—per cui ogni gesto e ogni parola va ascritta ad un più generale sguardo collettivo—ma che alla lunga sembra diventare solo e semplicemente 'moralista'.

Una differenza sottile, ma sostanziale: lo spazio morale è la definizione di un'azione dentro il mondo secondo una gamma di idee da perseguire; il moralismo è la contrapposizione di quello che è giusto secondo un senso comune contro quello che sembra sbagliato e insensato. Il 'conservatorismo di sinistra' è questo: la deriva dell'analisi della sconfitta che, dopo aver creduto per anni alla vittoria ragionata del progresso contro "i barbari alle porte," lascia andare ogni speranza per rintanarsi nella consolazione di una visione del mondo che si avvicina sempre di più a quella che si è sempre combattuto.

È un po' la lezione impartita da Il desiderio di essere come tutti di Francesco Piccolo, che pure ha dieci anni meno di Serra: un saggio perfetto di questa tendenza, un'ammissione di responsabilità e colpa, scambiata—invece—come una lunga confessione auto-assolutoria per non essere riusciti (quelli della generazione dei Piccolo e dei Serra, ascrivibili più o meno ai padri dei venti-trentenni di oggi) a produrre alcunché, e a lasciare in eredità niente a quelli che avrebbero abitato il mondo dopo di loro.

Io ci provo, a non fare la parte del trentenne incazzato con quelli più vecchi di me. A non inaridirmi nello stereotipo del post-adolescente che si sente privato di tutto dalla cieca ingordigia individualista dei nostri baby boomer il cui unico merito è stato nascere prima.

Quando si leggono ragionamenti come quelli di Serra su Torino, però, mi chiedo davvero se questo non sia l'unico modo che molti hanno per portare avanti il conflitto nell'epoca della disillusione. Immagino debba essere dura svegliarsi una mattina, guardarsi allo specchio, e rendersi conto di essere diventato tutto quello che hai sempre odiato.

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