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Attualità

Suburra è un'altra occasione mancata

Ma il risultato ottenuto dalla serie di Netflix, nata come prequel di un esperimento malriuscito, è tutto sommato accettabile.
Niccolò Carradori
Florence, IT

Attenzione: il post parla di Suburra - La serie, e in quanto tale potrebbe contenere spoiler.

Se c'è un filone che negli ultimi dieci anni ha trainato le serie tv italiane, è quello del crimine. Snocciolare i nomi di successo è fin troppo facile, perché quelle che hanno avuto un impatto realmente distinguibile—sia di critica che di pubblico— si contano sulle dita di una mano, e sono tutte appartenenti a questa tipologia: Romanzo Criminale, Gomorra, Faccia d'angelo. Solo 1992 rappresenta per certi versi un'eccezione.

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Quindi era abbastanza comprensibile che la prima serie italiana prodotta da Netflix rispecchiasse questo tipo di mercato e di pubblico, con il lancio, lo scorso 6 ottobre, di Suburra - La serie, prequel del film di Stefano Sollima uscito nel 2015.

Allora, il film ottenne un'accoglienza piuttosto risibile. Tratto dal romanzo di Giancarlo De Cataldo—il magistrato e scrittore diventato famoso grazie a Romanzo Criminale—e Carlo Bonini, l'intero plot narrativo si inseriva nell'atmosfera di Mafia Capitale. Residuati bellici della Banda della Magliana con un passato nei NAR che comandano il sottobosco di attività illegali a Roma, politici e vescovi corrotti, puttane, piccoli arrivisti di Roma Nord, famiglie mafiose di Ostia senza scrupoli, famiglie mafiose di sinti senza scrupoli. Tutti questi protagonisti si scontravano tra loro per un grosso appalto a Ostia, in una forzatura temporale che mirava a unire in un climax apocalittico le dimissioni di Papa Benedetto XVI e il crollo del quarto governo Berlusconi.

E le lacune di Suburra erano proprio dovute, secondo me, a questa estrema sintesi di tempo, spazio e capitale narrativo: riuscire a raccontare in 135 minuti una storia con questi riferimenti temporali, e questi protagonisti—e tutti i rimandi storici, politici e sociali che si portano dietro—obbligava a una forte condensazione dei personaggi. Che, a parte due o tre eccezioni, risultavano abbastanza stereotipati e piatti.

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L'esempio più lampante era quello dell'on. Filippo Malgradi, interpretato da Pierfrancesco Favino: un politico classicamente (e mediamente) berlusconiano che incarnava tutti i topos che ci si aspetta da questo ruolo. Corrotto, vanesio, codardo, appassionato di festini in albergo con prostitute e droga che si svolgevano di nascosto dalla famiglia stolidamente perbene. E che diceva frasi tipo "uno come me, che è arrivato dove sono arrivato io, se ne fotte della Magistratura." Ma di esempi ce n'erano altri: l'arrivista pariolino che finiva a confrontarsi con problemi più grandi di lui (Elio Germano), la giovane prostituta immersa nel mondo della politica e delle frequentazioni mafiose la cui unica risorsa è il sesso (Giulia Elettra Gorietti) e via dicendo.

Suburra - La serie, invece, ha seguito a mio parere uno dei segreti principali del successo di Gomorra - La serie: focalizzarsi su tre-quattro personaggi principali, svilupparne le caratteristiche in base a filoni che si intrecciano, e attorno a loro srotolare una trama capace di dare l'idea della ricchezza del contesto proprio perché ben segmentata, e non perché prende respiro e si dilata da ogni parte. In questa operazione, sono stati tagliati tutti i personaggi scontati: niente politico berlusconiano, niente arrivista dei Parioli, niente prostituta d'alto bordo.

E il risultato, al netto del peso di essere il prequel di un esperimento malriuscito, è tutto sommato accettabile. I personaggi principali sono tre, tutti maschi, tutti giovani: la spinta narrativa che condividono—che è piuttosto abbozzata in realtà, motivo per cui la serie non convince del tutto—è la rottura con le proprie famiglie. Lele (non presente nel sequel) è il figlio di un poliziotto che ama e ripudia al tempo stesso, e che finirà con unirsi a due personaggi che avevamo visto anche nel Suburra di Sollima, Aureliano Adami (Numero Otto nel film), figlio perdente della famiglia più potente di Ostia, e Spadino Anacleti, fratello minore del capo di una potente famiglia di sinti che sta cercando di espandersi a Roma. L'unione di questi tre personaggi, intorno a cui si raggruppano quasi tutti quelli secondari, scatena una lotta di potere, e getta le basi delle dinamiche che si sono già viste nel film.

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In questa linea di sviluppo dei personaggi, quello che ne ha maggiormente giovato è sicuramente Spadino: omosessuale dichiarato fin dall'inizio della prima puntata, e oppresso da una famiglia che lo obbliga al matrimonio con la figlia del capo di un'altra potente famiglia sinti romana, Spadino dà vita a sottotrame e contrasti psicologici che si dimostrano molto più appetibili del filone centrale. Il rapporto da subalterno evirato con il fratello Manfredi—interpretato da Adamo Dionisi, e personaggio più interessante del film—, quello di disgusto e al tempo stesso unione con la moglie imposta, e quello di ammirazione con Aureliano Adami sono in assoluto le interazioni più notabili della serie. Tanto che, sinceramente, avrei quasi preferito che tutto ruotasse attorno a lui e agli Anacleti.

Un altro esempio è Amedeo Chinaglia, interpretato da Filippo Nigro, che prende il posto di Favino nelle vesti di politico corrotto. Chinaglia viene dalla "sinistra onesta", e dietro la sua commistione con la mafia romana ci sono motivi personali. La sua non è una sottotrama particolarmente avvincente, ma riesce a legare l'immaginario della politica di Mafia Capitale in modo meno stereotipato e banale rispetto al film. Le motivazioni che spingono Chinaglia alla corruzione non saranno un trattato di sceneggiatura, ma neanche la trasposizione dello spazio di Marco Travaglio ad Annozero.

Una scena della serie.

Queste migliorie, che rendono la trama sufficientemente godibile, pagano comunque—come già detto—la presenza del film: il lavoro di Sollima si chiudeva in modo troppo netto per consentire grandi strade da percorrere nel caso di un prequel, e questo si nota anche seguendo la serie. Guardandola, c'è quasi il rammarico che si sappia già qual è il tappo che strozza tutti i possibili sviluppi dei personaggi. La fortuna di Gomorra è stata proprio la possibilità di drenare l'atmosfera del libro di Saviano e del film, senza tenere nient'altro: è stabile, univoca, e soprattutto si può ampliare. Mentre anche nel caso in cui ci fosse una seconda stagione di Suburra—come lascia sospettare il finale—il continuo della storia sarebbe costretto entro un perimetro di possibilità molto finite.

A questo, poi, si uniscono poi elementi che ho trovato limitanti in una serie proposta nel 2017, specie su una piattaforma come Netflix. Il primo è l'ostentato gusto italiano per i richiami da Prima Repubblica e le sue dinamiche: il personaggio di Samurai—ovviamente ispirato a Carminati—che comanda Roma grazie al suo passato nella banda della Magliana e ai segreti che custodisce circa persone particolarmente influenti—pensi ai documenti sottratti con la lista dei nomi della P2? BRAVO!—, ricche ereditiere potentissime e sobillatrici, vescovi con il ghigno da gangster. In sostanza, tutti riferimenti sempiterni a cui sarebbe l'ora di rinunciare.

Perché sì, Suburra non è Gomorra, e nemmeno Romanzo Criminale. Probabilmente, anzi, il picco di questo filone è stato toccato, e sarebbe l'ora di provare a sperimentare qualcosa di diverso, almeno per un po'.