La storia di Blood Orange è una storia di speranza
Illustrazione di Esme Blegvad

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Musica

La storia di Blood Orange è una storia di speranza

Come un ragazzino di Londra che veniva picchiato perché portava i capelli lunghi è diventato un genio della black music.

Club to Club Festival torna anche nel 2018. Abbiamo deciso di presentarlo con quattro articoli che raccontano quattro dei migliori artisti del cartellone di quest'anno. Cominciamo con Dev Hynes, in arte Blood Orange, che si esibirà sabato 3 novembre. I biglietti sono già in vendita.

"I neri non discendono da una stirpe reale. Siamo—e lo dico con grande orgoglio—la progenie degli schiavi. Se c'è qualsiasi maestosità nella nostra lotta, questa non sta in una fiaba ma in quelle umili origini e nell'enorme distanza che abbiamo percorso da allora".
― Ta-Nehisi Coates, We Were Eight Years in Power: An American Tragedy (2017)

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Due anni prima, Kendrick Lamar aveva detto il contrario: "Descrizione di N-E-G-U-S: imperatore nero, re, comandante." Appesantito dalla depressione, schiacciato dal sistema che lo aveva fatto crescere nella m.A.A.d. city di Compton, Kendrick proponeva di ripensare l'esperienza nera negli Stati Uniti del 2016. In mezzo agli spari della polizia, alla discriminazione e alle lotte intestine tra gang c'erano figli di Re Kunta Kinte. "Solo perché indossi un colore legato a una gang diversa dalla mia / Questo non significa che io non possa rispettarti in quanto nero / Dimenticando tutto il dolore e la sofferenza che ci siamo causati reciprocamente in queste strade", declamava in "Mortal Man". Sulla copertina dell'album, una folla di ragazzi e ragazze di colore festeggiava di fronte alla Casa Bianca.

E poi è arrivato Donald Trump, faccia della "tragedia americana" di cui ha scritto Ta-Nehisi Coates nel suo saggio We Were Eight Years In Power, ragionamento sull'evoluzione dell'essere-nero negli anni della presidenza Obama. Coates mette la retromarcia ai suoi stessi entusiasmi: "A quei tempi immaginavo il razzismo come un tumore che poteva essere isolato e rimosso dal corpo dell'America, non come un sistema pervasivo che faceva funzionare quel corpo fin dalla nascita, essenziale al suo funzionamento. […] mi sembrava possibile che il successo di un singolo uomo potesse davvero cambiare la storia, o persino mettervi fine".

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La voce di Devonté Hynes, in arte Blood Orange, sta a metà tra il cauto entusiasmo di Lamar alla fine dell'era Obama e il lucido ripensamento di Coates all'alba dell'era Trump. La sua musica racconta un mondo che schiaccia e marginalizza i diversi. Non gli dà risposte ma immagina per loro, cigni negri, la possibilità di un lieto fine. E lo immagina con uno sforzo immenso e costante, cominciato col fiotto di sangue da un naso spezzato.

Devonté era piccolo. Stava girando per il suo quartiere di Londra Est quando gli spaccarono il naso. Uscito dall'ospedale si tagliò i capelli, smise di dipingersi le unghie e di truccarsi. Poi tornò a scuola e la sua professoressa, vedendolo, cominciò a piangere. Ci avrebbe messo molto tempo prima di esplorarsi di nuovo. Nel frattempo, però, aveva scoperto la musica. Suonava il violoncello in un'orchestra, ma anche la batteria e il basso in un gruppo metal. Andava in skateboard, giocava a calcio ed evitava i bulli che cercavano di pestarlo mentre tornava a casa da scuola.

Nel 2005 Dev aveva occhialoni spessi e neri, capelli semi-cotonati, colori fluo ovunque sul corpo. Ascoltava rap e grime, come molti nel suo quartiere, ma si sentiva molto più a suo agio con uno strumento in mano. Erano gli anni in cui l'indie rock britannico si stava trasformando in qualcosa di più ibrido, elettronico e caotico rispetto a quanto avevano fatto i Libertines e i primi Arctic Monkeys e lui, assieme a due amici, si unì alla festa fondando una band senza pretese. Si chiamavano Test Icicles e avevano un Myspace con due pezzi caricati sopra. Ma quelli erano anche gli anni in cui qualsiasi gruppo di esordienti capace di tirare su un po' di hype si vedeva offerto un contratto da un'etichetta, ed ecco che alla loro porta bussò la Domino.

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For Screening Purposes Only, l'unico album dei Test Icicles, uscì nel 2005. Era indie acido, sguaiato e danzereccio scritto con una drum machine, due tastiere marce e delle chitarre iper-effettate. La band durò giusto il tempo di suonare un po' dal vivo e dare una strusciata di spalle all'hip-hop grazie a un paio di remix grime del loro singolo "Boa Python". Nel giro di due anni la Domino diede a Devonté un'altra possibilità. Un album solista, da registrare in Nebraska, con il suo nuovo nome d'arte: Lightspeed Champion.

Il primo contatto di Dev con la terra delle opportunità è decisamente diverso da quello che lo renderà famoso. Non esplora le grandi città ma si chiude in una casetta in mezzo ai boschi con un genio dello studio di registrazione. Si chiama Mike Mogis, ha fatto la storia dell'alternative rock americano lavorando con l'etichetta Saddle Creek e creando il suono tanto dolce quanto disperato del suo progetto più famoso, cioè i Bright Eyes di Conor Oberst (e almeno questa la sapete, dato che l'ha anche campionata Young Thug).

All'epoca Dev passava ancora le notti a leggere pagine di Wikipedia sui dissing storici dell'hip-hop, disegnava fumetti e indossava colbacchi. E così appariva sulla copertina di Falling Off The Lavender Bridge, uscito nel 2008, prodotto di quel soggiorno in mezzo alla natura selvaggia del Nebraska. Fino a quel momento, Dev aveva fatto musica caotica come la sua Londra; adesso faceva canzoni mezze folk in cui parlava di come tutto gli andasse male. La ragazza con cui tornava a casa di notte non era quella giusta, i suoi amici non erano quelli giusti, la musica che aveva fatto non era quella giusta. Forse il suo posto nel mondo era un altro?

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La risposta era un enorme "sì". Nel 2009 Dev cominciò a lavorare come autore. A contattarlo fu Diana Vickers, una concorrente dell'edizione inglese di X Factor. Lui accettò, senza sapere se gli stavano offrendo troppo poco, senza essere troppo convinto dal progetto: "Non avevo neanche accordato gli strumenti", ha raccontato poi. Ma quella scelta gli avrebbe cambiato la vita. Mentre Lightspeed Champion si spegneva, Devonté si era messo ad accendere le carriere degli altri.

Ad accendere la sua fu una ragazza che incontrò a caso in uno studio di registrazione di Los Angeles, dove stava passando un periodo a lavorare dopo essersi stancato di Londra, prima di trasferirsi definitivamente a New York. Era Solange Knowles, sorella di Beyoncé. Stava lavorando al suo terzo album A Seat At The Table e voleva aggiungere qualcuno al suo team di scrittori. Magari a Dev andava di unirsi a loro? Gli andava eccome. Nel frattempo il nostro aveva cambiato pelle ancora una volta. Stufo del suono ingombrato di Lightspeed Champion, aveva cominciato a produrre brani leggeri ed evanescenti. Stufo di cantare d'amore generico, si era messo a scrivere delle sue insicurezze e delle sue ferite mai rimarginate.

Dev era stato fulminato dalle chitarre cristalline di Chris Isaak, autore di piccoli gioielli country-pop negli anni Ottanta. Si era appassionato alle melodie orientali, colpa del compositore Joe Hisaishi—braccio destro di un genio del cinema come Takeshi Kitano, uomo di fiducia dei maghi dell'animazione dello Studio Ghibli. Restando in zona, aveva scoperto l'elettronica della Yellow Magic Orchestra. In quel periodo, come ha raccontato, Dev sognava di far parte di una band funk e soul, ispirato da I Want You di Marvin Gaye. Il risultato era il suo nuovo progetto, ispirato "agli ultimi giorni della disco". Innamorato del falsetto del cantante tunisino-francese F.R. David, Dev ora cantava spingendo la sua voce verso vette che non aveva mai esplorato. Quando di esibiva dal vivo, in giro per New York, si faceva chiamare Blood Orange. Sul palco era solo: voce, chitarra e una drum machine. Il suo esordio fu un disco di indie rock suadente, frenetico e cristallino. Si chiamava Coastal Grooves e venne al mondo nel 2011.

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Parlando al Guardian per promuovere Coastal Grooves, Dev disse di essersi sentito molto turbato da una serie di suicidi di ragazzini che si vergognavano di essere gay. "Sono etero ma mi bullizzavano come se fossi stato gay, quando ero piccolo. Molti miei amici erano gay, quindi mi sputavano sul bus ogni giorno e un paio di volte sono finito in ospedale. Continuavo a guardare interviste con Octavia St Laurent [donna trans americana resa celebre dal documentario Paris Is Burning] e mi faceva un effetto fortissimo. Continuavo a pensare a quei ragazzi, gay e neri nella New York degli anni Ottanta, e della cultura che avevano costruito per sentirsi liberi e fuggire". Da queste esperienze e pensieri era nato Blood Orange: "È il mio tentativo di sentirmi il più a mio agio possibile con ogni cosa di me, ogni mia esperienza passata".

Sarebbero stati proprio quei ragazzi e ragazze i protagonisti del suo secondo album. Il suono era quello che aveva regalato a Solange per "Losing You" e a Sky Ferreira per "Everything Is Embarassing": malinconico e arioso pop anni Ottanta che prendeva a piene mani da funk, soul e R&B. Nelle sue mani, però, assumeva un valore diverso. Dev aveva scelto di raccontare la vita dell'underground LGBTQ della sua New York e di farlo a partire da quegli ultimi giorni della disco che lo avevano fulminato anni prima. Voleva raccontare la cultura delle Ballroom, luogo di espressione libera in mezzo ai pregiudizi della città, ma anche la vita dei senzatetto gay, lesbiche e trans che oggi scelgono di passare le notti sulle linee A, C ed E della metropolitana in attesa del mattino.

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Lo fece con Cupid Deluxe, un album che parlava di emarginati—per la loro sessualità, per il colore della loro pelle, per i soldi che non avevano, perché emotivamente danneggiati—senza grandi proclami ma con poche frasi di timido sprono. Dev si metteva da parte, mescolando la sua identità a quella di chi aspetta l'arrivo di una persona riparandosi dalla pioggia, si innamora di un ragazzo visto in un momento e poi si trova a baciare il marciapiede, non si sente mai abbastanza. La sua vita si palesa solo nelle parole di Skepta, a cui dona "High Street"; l'MC di Tottenham ricambia con una delle sue strofe migliori, un ricordo di un'infanzia londinese con "il re Michael Jackson che faceva il moonwalk in televisione", tra giornate passate a giocare alla Playstation e altre a sbattersi per far uscire la propria arte dal quartiere, e infine l'emozione di sentire le proprie canzoni passare in radio.

Cupid Deluxe affermò definitivamente il suo autore come un grande musicista. Il suo suono era ormai merce richiesta da stelle nascenti dell'R&B, popstar agli apici dello show business, rapper e produttori: a lui si rivolsero Tinashe, Kylie Minogue, Carly Rae Jepsen, FKA twigs, addirittura Gia Coppola, nipote di Francis Ford e figlia di Sofia, che gli affidò la colonna sonora del suo film Palo Alto. Un curriculum che andò ad aumentare esponenzialmente le aspettative sul suo lavoro successivo.

Dev diede un assaggio di quello che avrebbe fatto con un singolo da undici minuti, "Do You See My Skin Through The Flames?". "Sentirsi così soli all'interno di un gruppo ti fa sentire potente", cantava, parlando di depressione, frustrazione e isolamento. E poi andava a raccontare come aveva indagato sulle sue origini: "Non solo il mio cognome è un lascito della schiavitù, ma significa letteralmente 'servo' / È strano doverselo portare dietro, e mi rende orgoglioso / Sono orgoglioso di mio padre e della mia famiglia / Ma è strano dovermelo portare dietro ogni giorno / Come tutti facciamo / Tutti i neri lo fanno".

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Dopo aver raccontato le vite degli altri, Dev aveva scelto di raccontare la sua. Lo fece con Freetown Sound, uscito nel 2016, a pochi giorni dalla Brexit, poco prima dell'elezione di Trump, mentre l'eco della conversazione sulle violenze della polizia statunitense sugli afroamericani continuava a vibrare per l'Occidente. Era un disco tanto amaro quanto pieno di speranza, non perché proponeva risposte—non ce n'era l'ombra, disse lui—ma perché trovava nel ragionamento e nella condivisione di dubbi e paure un argine all'alluvione di odio che sembrava aver ricoperto il mondo.

Dev cominciava lasciando parlare la poetessa Ashlee Haze, che si rivolgeva alle grandi rapper del passato come Lil' Kim e Missy Elliott: "Se mi chiedete perché è importante sentirsi rappresentati / Vi dirò che nei giorni in cui mi vedo brutta / Sento la dolce voce di Missy cantare per me". E ancora: "Ci sono un milione di ragazzine nere che non vedono l'ora / Di vedere qualcuno che gli assomiglia". Sotto la sua voce, sassofoni e violoncelli; e poi un beat rubato a Michael Jackson, chitarre cristalline, e l'esordio di "Augustine": "Mio padre era un ragazzo / Mia mamma, appena scesa dalla barca / A 21 anni avevo ancora gli occhi freschi / Me li avevano fatti neri, ma galleggiavo ancora".

Dev parla della Sierra Leone da cui viene la sua famiglia. Ringrazia la profeta e leader sudafricana Nonetha Nkwenkwe, arrestata e rinchiusa in un manicomio fino alla morte del governo per i suoi tentativi di portare pace e unità nella sua regione. Racconta di quella volta che, a un concerto di A$AP Rocky e Tyler, The Creator, ha visto una ragazza bionda con le treccine che indossava una maglietta con scritto "Thug Life" e si è chiesto se e perché quel simbolo di protesta creato da 2Pac (che aveva risolto l'acronimo con "The Hate U Give Little Infants Fucks Everyone", "L'odio che dai ai bambini ci fotte tutti") significasse qualcosa per lei.

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Sebbene canti di cose amare, Dev tramuta qualsiasi forma di paura, debolezza e solitudine in brani luminosi. "Hands Up" chiede al pubblico di alzare le mani con un gioco di voci e melodia, ma lì in alto non ci devono andare per festeggiare; ci devono andare per sicurezza, e con il consiglio di "non mettersi il cappuccio", come fece Trayvon Martin prima di essere ucciso da un poliziotto senza alcun motivo. "Love Ya" campiona la voce da cui eravamo partiti: Ta-Nehisi Coates parla delle sue mattine da studente, quando pensava a come vestirsi per evitare di essere bullizzato e picchiato mentre andava a scuola. La scoppiettante "Hadron Collider" affida a Nelly Furtado una crudele constatazione: "Dovremmo ballare insieme agli angeli / Mille aureole riempiono il cielo / Ma siamo troppo lontani dal paradiso".

Fotografia di Nick Harwood.

Freetown Sound lancia una sonda nell'enorme caverna della black music e la illumina a giorno rivelandone tutti gli squarci, i crepacci, le forme armoniose. C'è una lunghissima playlist su Spotify preparata proprio da Dev per presentare al mondo tutto ciò che ha ascoltato per crearlo ed è affascinante risentire nei suoi brani il risultato della sua esplorazione a-geografica nel mondo della musica. C'è il trip-hop tribale dei Massive Attack, ma anche l'elettronica post-diasporica di Chino Amobi ed Elysia Crampton. C'è il rap di Tyler, The Creator ma anche il neo-soul dei Robert Glasper Experiment. E poi il violoncello sperimentale di Arthur Russell, il grime di Skepta e Wiley, i caldi beat di J Dilla, le brillanti composizioni per voce e orchestra di Philip Glass, il southern rap droghereccio dei Clipse, il post punk danzereccio dei Talking Heads, il reggae acustico dei Wailers post-Bob Marley, il pop di Madonna. Tutto rinchiuso nel cervello e nelle mani di Dev, impegnate a cantare i suoi tempi e la sua gente al mondo intero.

Il suo nuovo album Negro Swan è uscito da poco e riprende la narrazione di Freetown Sound. Il mondo si è fatto ancora un po' più brutto, da allora, e quindi Dev ha deciso di dedicarsi al concetto di speranza. Con il fardello della propria passata schiavitù sulle spalle, consapevole dei pericoli che si celano dietro ogni angolo di strada delle città dello stato in cui ha scelto di vivere, pieno di gioia e di colpa per la sua esistenza, Dev ha scritto il suo album più biografico finora. "Il mio primo bacio è stato con il marciapiede", esordisce, tornando con la mente alle strade di Londra che percorreva con i capelli lunghi, le unghie dipinte e il sangue che gli scorreva dal naso. Ma la sua descrizione migliore l'ha data lui stesso:

"Questo album è un'esplorazione nel mio e in molti tipi di depressione nera, uno sguardo onesto negli angoli dell'esistenza nera e alle attuali ansie dei queer e delle persone di colore. Un ritorno all'infanzia e a traumi moderni, e a ciò che facciamo per riuscire a resistergli. Il filo che lega ogni canzone dell'album è l'idea di SPERANZA, nella forma delle luci che possiamo provare ad accendere dentro di noi, sperando di riuscire ad aiutare gli altri ad uscire dalla loro oscurità".

Blood Orange non è un Kendrick Lamar per la comunità LGBTQ+, non è un Ta-Nehisi Coates in versione musicale; è un po' entrambi, ma anche nessuno dei due. È il figlio di un immigrato che ha vissuto sentendosi tanto accettato quanto emarginato da entrambi i lati dell'oceano, musicalmente onnivoro, che sta vivendo e raccontando un periodo storico denotato da insicurezze, crisi e paure tra orgoglio e vergogna, paura e coraggio.

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