La cometa di LIM

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Musica

La cometa di LIM

Abbiamo intervistato Sofia, ex Iori's Eyes, ora al debut solista con un EP incantevole di cui vi presentiamo il primo singolo.

Conosco Sofia da qualche anno e ho seguito, anche se da lontano, le evoluzioni del suo universo interiore, che sulle prime mi sembrava quello di una creatura fragile, che quasi hai paura di toccare, ma col tempo è diventato sempre più denso e coinvolgente. Sono passati quattro anni dall'ultimo album degli Iori's EyesDouble Soul, e questo dovrebbe bastare a dare un'idea di come il percorso di Sofia verso la propria identità sia stato intenso e meticoloso. Non ha avuto fretta di affermarsi, fino a che non ha trovato la voce giusta per farlo, ed è per questo che il progetto con cui si presenta oggi, L I M, è solido e diretto come pochi altri usciti di recente dalle nostre parti. L'ho incontrata in un giorno di quasi-primavera sulla terrazza del self-service Titanic e abbiamo parlato del suo EP  Comet  (prodotto in collaborazione con RIVA, in uscita l'otto aprile per La Tempesta International, di cui vi presentiamo il video che accompagna la title-track), il lavoro che l'ha messa a confronto con se stessa e ha fatto affiorare ogni sua fragilità. Una cometa passa, la vedi, e se ne va, mi dice Sofia, come se volesse giustificare un'intrusione. Ma sapendo da dove viene il suo lavoro e, soprattutto, dopo averlo ascoltato, sono sicura che di questa cometa rimarrà il segno.

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Noisey: Partiamo dal passato e partiamo dalle basi: tu hai iniziato a suonare, negli Iori's Eyes, il basso. Poi all'interno della band sei passata alle tastiere. Com'è stato questo passaggio al sintetico?
LIM: Ho iniziato a suonare le tastiere per ragioni pratiche: non ci bastava più il basso, avevamo bisogno di un accompagnamento più completo. Oltretutto io ho sempre adorato il suono degli organi, mi ha sempre fatto impazzire—parlo di organi sintetici, anche se pure quelli da chiesa mi piacciono. Ultimamente mi sono orientata anche verso il piano, anche se non sono mai stata una pianista, così come non sono una cantante. Non sono.

Che tastiere ti sei comprata?
Ho iniziato con una Rodeo, un giocattolino della Gem di un po' di tempo fa, che aveva anche la drum machine inclusa. Poi ho trovato in un mercatino questa Poly 800, e lì mi sono innamorata. Cioè, la definivano pianola, ma questa la usavano i Depeche Mode… Poi una Prophecy… E poi mi sono immersa nel digitale e lì basta, sono impazzita.

Com'è stato passare da stare in una band a iniziare a fare le cose per conto tuo? So che è stato un percorso lento, ci è voluto un po' di tempo per trovare la tua identità.
Sì, stare da soli è faticosissimo… In un certo senso sei più libero, puoi fare quello che vuoi, ma ci metti una vita in più a farlo. Però in fondo era quello che volevo, essere libera da vincoli, fare quello che mi sentivo senza costrizioni, senza essere imbarazzata… E sì, è un percorso lunghissimo, che però secondo me è appena iniziato. Anche se a dire la verità nel 2013/2014 avevo già iniziato a scrivere, anzi, avevo proprio già scritto "Comet"—mancavano le produzioni ma c'era già il pezzo. E poi appnto è anche una questione di autostima, di sicurezza, ma per quei pezzi valeva la pena di mettersi in gioco così tanto, di esporsi, avere paura…

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Immagino che tu abbia molta più paura ora che sta per uscire questo EP rispetto a quando usciva roba degli Iori's Eyes.
Tantissimo, sono proprio completamente nuda.

E come mai hai scelto di metterti addirittura sulla copertina? Cioè, potevi fare altre scelte, pensa a Sia, l'esempio più eclatante di una che ha fatto un percorso molto lento verso la carriera solista e poi ha deciso di affrontare questa esposizione mascherando il suo volto. Tu invece sia nel video che nella copertina hai deciso di mettere la tua faccia e il tuo corpo. Ho sempre avuto l'idea di farmi vedere, di apparire in prima persona… Questo disco è molto personale, è diretto, ci sono pochissimi intermediari, pochissimi filtri. Ci siamo io, RIVA e basta. Poi chiaramente durante la sua evoluzione ci sono stati tantissimi amici che mi hanno indirizzato, il progetto ha cambiato forma, ma è una cosa assolutamente personale.

E come è nato l'album e come ha mutato forma per prendere quella definitiva?
C'è stata un'evoluzione anche perché io avevo già scritto i pezzi, la cover di "Sugar Me" l'ha proposta RIVA, gli ho detto subito di sì perché è un pezzo incredibile degli anni Settanta che non conoscono in molti ma si incastrava perfettamente con gli altri, il testo ha una sensibilità molto vicina al resto del disco. Sai, avevo scritto tanta roba, tanti testi, tante riflessioni, avevo questa cosa sul groppone… Dovevo buttarla fuori in qualche modo, dovevo dire delle cose, le ho scritte, ho iniziato a mettere giù la musica, e poi con RIVA ho trovato l'immaginario musicale giusto, che è ricchissimo, ma è anche essenziale. Ora stiamo scrivendo altri pezzi, ma è diverso perché già li stiamo scrivendo in due. Nel frattempo, ho capito di avere elementi da sviluppare, ad esempio sto prendendo lezioni di canto e la cosa mi sta già mettendo in crisi in un altro modo. In generale l'evoluzione è stata lenta, naturale, è cambiato molto, ma ho sempre tenuto a mente di rifiutare ogni elemento di disturbo. Per far uscire un disco dicono che la cosa più importante sia essere sinceri con se stessi: ecco, l'unica cosa a cui ho tenuto fede è questa. Fare la musica che amo e diffonderla.

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Come hai scelto di chiamarti LIM? Anche quella dev'essere stata una bella Odissea. 
Trovare il nome a un bambino ok, ma trovare il proprio nome è un incubo, credo. All'inizio volevo chiamarmi  I, che anche graficamente era molto bello. Vedi, è una linea. Per tanti motivi però non andava bene, quindi sono tornata alle idee che avevo prima di trovare I e su questa frase, "Less Is More", che sintetizzato è LIM. Poi una mia amica svedese mi ha detto che in Svezia LIM vuol dire "colla" e ciao, mi è piaciuto tantissimo.

Se parliamo del panorama di influenze che ti hanno portato poi a fare qualcosa di tuo, da che cosa sei partita per costruire la tua versione di quel suono, di quell'immaginario?
Inizialmente, mentre scrivevo il disco sono partita con atmosfere cosmiche, alla Klaus Schulze, poi c'è stata un'evoluzione più nera, più soul, e poi ho iniziato ad ascoltare musicisti contemporanei come Arca, Oneohtrix Point Never, un'elettronica più meditativa e sperimentale.

E come è stato metterci la tua voce? Già negli Iori's Eyes hai iniziato a cantare molto tardi e hai cantato molto poco, quindi immagino ci sia stato un lavoro sulla tua voce più complesso.
Guarda, per un annetto ho allestito nello sgabuzzino una mini sala prove, perché era l'unico posto silenzioso di casa mia. Sono partita da suoni molto piccoli, sussurri… Conta che io ho pochissimo volume, e per registrare questi sussurri bisogna avere intorno silenzio assoluto. Avevo scritto tante cose… Questo disco è nato da una storia d'amore che è finita e che mi ha buttata a terra, oltre che dalla distanza dagli Iori's… Oltretutto l'ho scritto tutto di notte: di giorno dormivo e di notte riuscivo a concentrarmi. Poi ho riletto tutto quello che avevo scritto e c'erano già le canzoni. È un disco che nasce dalla solitudine, da una sensazione che già oggi sento più lontana.

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Dicono che quando chiudi un disco sei già in ritardo a parlarne, perché nel momento in cui lo presenti stai già lavorando a qualcos'altro. Ora quindi stai scrivendo con RIVA, come funziona la vostra collaborazione nella pratica?
In pratica ci mandiamo un sacco di robe… Canzoni, suoni, materiale… Poi ci mettiamo a lavorare, ma lo facciamo uno di fianco all'altro, ognuno nel suo mondo. Però continuo a registrare da sola i cantati, almeno il provino. Poi magari entro in studio per rifinirli, ma all'inizio ho ancora bisogno di essere sola.

Come ti immagini una dimensione live di questo lavoro?
Molto minimal… Però vorrei che i visual fossero molto presenti.

Che tipo di visual avrai?
Un po' matti… Ci sta lavorando un ragazzo di nome Karol. Non ne posso parlare ancora, ma posso dirti che ci sono sempre io. Niente, non ne esco più da questa iper-esposizione. [ Ride]

Ma infatti… E quest'esposizione ti aiuta a vederti in un altro modo?
Be', sto cercando di lavorare sulla mia insicurezza… Sulla mia gigantesca insicurezza. Sto facendo finta di non essere così insicura, perché questa cosa in fondo la volevo fare tantissimo, volevo far uscire un mio disco prima dei trent'anni.

Se pensi al panorama musicale italiano, in cui bene o male sei inserita da un po' di anni, hai tirato fuori un prodotto che comunque sia è definibile "pop", non si distacca dalla forma-canzone nonostante le influenze. 
Quando mi devo descrivere io rispondo che faccio elettronica con un cantato abbastanza pop, e non riesco a staccarmi non tanto dalla forma canzone, ma dalla melodia, dalla linea vocale che rimane lì e per me resta un elemento portante. Anche con gli Iori's abbiamo sempre fatto pop, nonostante io e Clod avessimo due concezioni diverse del pop.

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Come ti immagini la ricezione dell'album? Ti aspetti già che ti descriveranno con qualche paragone?
Oddio, non so bene a chi mi potrebbero paragonare… Spero ad una Jessy Lanza, qualcosa del genere.

Se parliamo di ragazze che fanno musica, al momento sulla scena i nomi principali sono FKA Twigs o Kelela, che però sono più interpreti. Effettivamente Jessy Lanza è più tipo one man band, produce, canta, fa tutto lei. Però ecco, lei è inserita comunque in Hyperdub, che è un'etichetta che in qualche modo le dà un background. Forse in Italia fare un discorso di questo genere è più difficile, nel senso che è più difficile inserirsi in una nicchia di riferimento.
Sì, io ho avuto contatti con diverse realtà elettroniche italiane… Collettivi, label… Mi sono accorta però che di solito sono molto elitarie: nel momento in cui inserisci una linea melodica riconoscibile, in qualche modo sei fuori dai loro canoni. Qui non esistono label come la XL, che riescono ad essere mainstream anche se le produzioni vengono dall'underground (nonostante poi vengano ripulite e raddrizzate—anche troppo). In Italia una roba del genere è impossibile, manca proprio quel territorio che riesce a prendere elementi che virano verso il mainstream e farli convivere con produzioni più elaborate.

Già, non c'è molto in quella fascia intermedia tra i due estremi. 
Quando ti avvicini al mondo elettronico è difficile entrare in un giro senza sottostare a regole ben precise e strette, che è una cosa che va bene, ma non andava bene per me. Un'etichetta come La Tempesta è forse l'unica realtà che non si pone mai in maniera esclusiva, anzi è molto inclusiva come gusti e ambienti di provenienza, anche tra i prodotti che propone.

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Sai, credo che in alcuni casi ci sia bisogno di affermazione o negazione molto forte di certi canoni, perché noi storicamente come mercato discografico dobbiamo combattere con quell'incapacità di mediare tra le tendenze sottotraccia che spingono all'innovazione e quel ventre molle del pop che è sempre la stessa cosa. Pensi che ci sia qualcun altro che soffre di questa situazione come te, a livello artistico? Ora c'è questa ragazza, Joan Thiele, nei cui pezzi c'entra anche Clod (l'altra metà degli Iori's Eyes). 
Sì, mi piace tantissimo "Save Me" anche perché sento Clod quando sento il pezzo, perché ci ha messo le mani lui. Però quello è già un mercato diverso, ed è Universal. Il genere che fa lei funziona molto bene come forma canzone. Mi fa piacere che, con una label del genere alle spalle, i suoi pezzi passino tanto in radio. Però mi chiedo come mai questo non possa succedere anche per tutto il resto della musica che esce oggi, senza che si rinunci ad una produzione un po' più complessa. Non credo che manchi un pubblico interessato a prodotti del genere, è che non si fa niente per mostrare che ce ne sono anche in Italia.

Manca un po' di coraggio anche da parte dei media musicali, forse… Senti, come mai hai scelto di mantenere la voce, nonostante la sua centralità, immersa negli altri suoni dei pezzi, come se fosse un altro strumento?
Questo perché non sono una cantante, sono ancora quasi solo una musicista. Poi c'è tutta la questione del messaggio, per cui serve che la voce ci sia, almeno nel mio caso. Per il resto, però, la voce è uno strumento, come un synth.

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Non ci pensi mai a cantare in italiano?
Oddio, è difficilissimo scrivere in italiano. Non so, magari mi verrà, ma è davvero complicato.

Non ascolti molti artisti italiani?
Ascolto M¥SS KETA… [ Ride] Oddio, non lo so, è che non sono stata cresciuta a musica italiana. L'unico italiano che ascoltavano i miei genitori è Battisti. Non ho capito perché, ma salvavano solo lui. Per il resto si ascoltavano Quincy Jones, i Led Zeppelin, mia madre poi è una grandissima fan di Joan Baez.

Tutte le madri stanno in fissa con Joan Baez… Senti, che ne dici di raccontarmi del titolo, di "Comet", e di conseguenza della title-track. Cosa significa questo titolo? Che sensazione volevi dare?
Di una parabola. Di una cosa che passa, lascia il segno, e non è detto che torni, ma almeno è passata.

Come un modo timido di dire "hey ciao sono qui… Ok, ora me ne vado!"
Esatto! [ Ride]

E il video come è nato?
Il video è stato un parto… Una cosa infinita, te lo giuro. Lo abbiamo iniziato due anni fa.

Come due anni fa?
È che le persone sono speciali. [ Ride]

Chi lo ha fatto?
Tora Cellini, Giorgio Calace e Karol Sudolski. Hanno avuto quest'idea incredibile, i provini già mi facevano impazzire. Poi la vita ha fatto succedere un sacco di cose e ci siamo un po' persi nel percorso, ma abbiamo insistito… Ho insistito davvero tanto perché era davvero la versione visiva del pezzo. Era perfetto. Mi sono impuntata e ho detto "o questo o niente" e alla fine l'ho spuntata.

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Me lo vedo un po' come un K-Hole, un tunnel in cui entri e poi ti sparano immagini a raffica. Tu come lo vedi?
È esattamente la sensazione nella quale mi trovavo quando scrivevo "Comet": una cosa in cui entri, vieni centrifugata, non capisci più niente e ne esci che ancora non capisci, ma almeno ti rendi conto che è finita.

Tutto questo processo di scrittura e di esposizione ti ha fortificata? Hai messo via quel momento?
Devo dire che il disco è stato prodotto in un momento della mia vita veramente sconfortante. Mi erano successe cose molto brutte, e ora fortunatamente che sono diventata un po' più forte quelle cose non riescono più a buttarmi giù. È finita la fase in cui non capivo ciò che mi stava succedendo. Ora ho un po' più di strumenti per capirmi.

Vogliamo parlare della copertina del disco?
Anche lì ho passato tante fasi, e questa è quella che si avvicina di più alla musica, al concetto che c'è sotto, l'ha fatta Anna Anna Magni che è un genio, davvero. All'inizio la copertina era più anni Ottanta, fotografica, alla Grace Jones. Poi Anna ha tolto tutto ed è rimasta quella sirenetta immersa nel rosso.

Come mai hai scelto quella foto?
È una delle poche foto in cui mi piaccio. Io non mi piaccio mai nelle foto. Mai, te lo giuro. Lì mi sono vista e ho detto "Ma guarda, ci sta!"

Ti diranno che sei androgina ventimila volte al giorno. 
Sono ventotto anni che mi chiedono la carta d'identità al supermercato, le mamme che nel bagno delle donne mi dicono "hai sbagliato bagno!" In Italia gli standard sono altri… Se non ti trucchi già hai qualcosa che non va, poi hai i capelli corti, ti vesti in un certo modo… Sei subito un ragazzino.

Però dai, è un buon momento per l'androginia in musica. Credo che trascendere i generi sessuali sia un discorso parallelo a quello della destrutturazione dei generi musicali, soprattutto se pensi a producer come Arca o Lotic che mettono questo tema al centro delle loro produzioni. 
Sì, il problema è che qui in Italia stiamo affrontando temi che altrove sono stati affrontati vent'anni fa.

Eh…
Pensa per esempio a  Weekend. È uno dei film più importanti per la cultura gay degli ultimi dieci anni e qui è praticamente stato censurato, lo proiettano in pochissime sale. E invece è proprio quello il modo con cui ci si dovrebbe far conoscere… Non vuole scombussolarti. È un film tutto basato sul dialogo, scopano pure pochissimo.

Sai, forse è sempre il discorso che facevamo prima sulle etichette, sui gruppi chiusi di persone, probabilmente dobbiamo comunicare con un linguaggio più fluido che qui ancora non ha preso piede. 
È che le persone vanno educate, piano piano, come ognuno di noi educa i propri genitori, i propri nonni, si parte dal nucleo di chi ti sta intorno. Oddio, educare non è proprio una bella parola. Si tratta di far conoscere altri mondi, che è un po' quello che cerco di fare con la mia musica.

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