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Musica

Dopo l'analogico, prima del digitale: la storia di Erased Tapes

La storia di Erased Tapes Records è cominciata su Myspace ed è oggi una delle principali etichette europee al crocevia tra musica classica contemporanea, ambient ed elettronica.

La storia di Erased Tapes Records inizia in quell'ambiente di connessione sociale pre-contemporanea che fu Myspace – quando era ancora normale scrivere messaggi privati pieni di smiley e punti esclamativi ai gruppi, caricare canzoni che parlavano di noi sul nostro profilo e postare a manovella aggiornamenti imbarazzanti che neanche sui blog di MSN. Era il 2007, e Robert Raths – nato a Colonia, allora residente a Berlino e iscritto ad architettura – passava al setaccio profili cercando qualcosa che accompagnasse le sue sfibranti sessioni di studio. Gli capitò sott'occhio quello di Ryan Lee West, che oggi si fa chiamare Rival Consoles e allora aveva appena appeso la chitarra al chiodo per passare ad un'elettronica in 8 bit. Poi sentì i pezzi di un islandese, tale Ólafur Arnalds, che giocava a imbastardire di batterie HC composizioni per violini e pianoforti inserite in concept album sull'esistenza. Si imbattè nel cantautore-mutato-compositore Peter Broderick, nelle sperimentazioni per piano ed elettronica di un allora sbarbato Nils Frahm; nel giro di un paio d'anni, assieme, avrebbero formato quello che tutt'oggi è il cuore pulsante del catalogo Erased Tapes. Senza quasi averlo fatto apposta, Erased Tapes è oggi una delle principali etichette europee al crocevia tra classica contemporanea, ambient, elettronica e sperimentalismi vari, cresciuta assieme ai suoi artisti. I motivi per cui oggi ha sede a Londra, in un ampio open space a un quarto d'ora a piedi da Elephant & Castle, sono principalmente due. Da un lato il costante incoraggiamento di Robert ai suoi artisti di fare rete, conoscersi e collaborare in un'ottica di sperimentazione delle proprie abitudini creative, dall'altro una conscia disattenzione per il mero lato economico del vendere musica, fortunatamente colmata dalla quantità di orecchie pronte all'ascolto che hanno trovato i pezzi di Broderick, Arnalds, Frahm e compagnia bella.

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Oltre a quel nucleo originario di artisti, Robert ha pubblicato una serie impressionante di album in cui il gap tra analogico e digitale si è ridotto in innovative forme di contemplazione sonora particolarmente accessibili. Penso sia una parola chiave: a meno che non possieda un abbonamento a The Wire, il pubblico alternativo più generalista non viene automaticamente esposto a pianoforti suonati con gli scovolini del cesso. Erased Tapes è invece riuscita a ritagliarsi un'intersezione tra alt-mainstream ed effettiva nicchia, stringendo collaborazioni con realtà di estrazione molto, molto diversa: da Boiler Room alla BBC passando per la stazione radio londinese NTS. E ora Ólafur Arnalds se lo può ascoltare l'utente medio di Café OTO così come la vostra amica che fa danza e normalmente si spara in cuffia Kalkbrenner a ogni ora del giorno.

Altri materiali significativi per svolgere l'equazione-Erased Tapes sono stati i due lavori degli A Winged Victory for the Sullen, ibridazione tra le chitarre filtrate di Adam Wiltzie degli Stars of the Lid e il pianoforte del compositore irlandese Dustin O'Halloran; i live set di vitale IDM jazzata del giapponese World's End Girlfriend; e quel macchinario perfettamente oliato i cui ingranaggi sono basso, batteria e synth composto dai newyorkesi Dawn of Midi. Forse, però, la storia più bella legata all'etichetta è stata l'esperienza assurda del pianista ucraino-canadese Lubomyr Melnyk – auto-dichiarato maestro della "musica continua" malcagato dalle istituzioni classiche per quasi quarant'anni nonostante il suo rivoluzionario approccio ultra-fisico, in cui le falangi diventano quasi estensioni del flusso sonoro proveniente dallo strumento. Ed è stato solo grazie alle snervanti ricerche di Robert e compagni se oggi Melnyk ha firmato per Sony Classical (probabilmente tenendo due diti medi alzati e indossando un paio di Oakley da sole).

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La sede di Erased Tapes è vuotissima (se non per qualche portatile, una collezione di 4000 LP, un piano e due chitarre), così come le copertine dei dischi che pubblica. Il soffitto è lontano sopra la mia testa, e appoggiato al muro c'è un dipinto di Gregory Euclide, di cui magari avete visto questa copertina​ da qualche parte. Robert mette su un caffè, e iniziamo a parlare.

Noisey: In un'intervista uscita un paio d'anni fa avevi parlato di come, con Erased Tapes, volevi esplorare il rapporto tra tradizione e contemporaneità, digitale ed analogico. Pensi di esserci riuscito? E ti sei posto altri obiettivi, con il passare del tempo?
Robert: "Direi di sì… missione compiuta. La musica è sempre stata la mia passione, ma ancora di più quello a cui mi dedico è il suono. Non credo nei generi musicali. Quando fondi un'etichetta, e specialmente quando non sai che stai per farlo, ti vengono fatte domande. Ti viene chiesta una dichiarazione di intenti: "qual è la tua visione?". E allora quell'unione di mondi era ciò che effettivamente mi interessava di più. Ora ho cominciato ad apprezzare quando una cosa è quella cosa e basta. Come un disco di musica da camera, ad esempio. Ti rendi conto che c'è bellezza nel lasciare le cose come sono, che non è necessario spingere in un'altra direzione, o aggiungere elementi specificatamente per creare giustapposizioni. Se ne creano da sole: ad esempio ogni volta che pubblichi due dischi nello stesso periodo. Se parliamo di gamma sonora, mi sono interessato ad elementi che non avevamo mai considerato molto. Ad esempio, gli ottoni. È stata una rivelazione: "Dove sono gli ottoni?" (ride, ndr) Mi sono preso bene per IMMIX , l'ensemble di Daniel Thorne. E quando gli A Winged Victory hanno suonato al Barbican per la BBC li ho spinti a inserire degli ottoni live, e hanno suonato parti di Atomos con i London Brass.

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È naturale che ci sia sempre un'evoluzione, ci mancherebbe.
Sai, più o meno seguo ancora la stessa visione. Ma è diventata qualcosa di molto più grande. Soprattutto grazie al connubio con altre forme artistiche, come la danza o il cinema. Penso sia sempre interessante fare un passo indietro e dire: "Perché questa cosa è così? Perché dobbiamo presentarla in questo modo?" Un esempio è Spaces, l'album di Nils [Frahm]: solo perché è registrato dal vivo, perché dobbiamo chiamarlo un album dal vivo? Non è molto più veritiero dire "Questo è un album normale, ma registrato in un ambiente live"? In fondo era quasi tutto materiale inedito, e lui improvvisa così tanto che ogni suo concerto è diverso.

Conta anche Victoria, il film per cui ha scritto la colonna sonora?
Parzialmente sì, ma per quello ha tenuto un approccio diverso. Si è messo assieme ad altri musicisti a suonare mentre guardava il film, in contemporanea. È probabilmente la forma più pura con cui puoi scrivere una colonna sonora. Ti posso anche parlare di Atomos degli A Winged Victory – musica concepita per la danza. Stavo cercando di trovare un modo per ispirarli a scrivere un secondo disco. Adam [Wiltzie, degli Stars of the Lid, ndr] lavora molto lentamente, e mi diceva cose come, "Robert, potremmo metterci sei anni a trovare l'ispirazione per qualcosa di nuovo."

Penso sia anche per questo che non abbiamo ancora sentito un nuovo album dei SOTL dopo And Their Refinement of the Decline.
Esattamente. Ma è una cosa che adoro, e rispetto. È bello che qualcuno decida consciamente di agire distaccandosi dall'immediatezza e della velocità dell'epoca in cui viviamo. Allo stesso tempo sarebbe stato un peccato se si fossero fermati, data la risonanza che il loro debutto aveva avuto. Allora passai dei loro pezzi a Wayne [McGregor], e furono i suoi ballerini a dirgli quanto si fossero trovati bene a usarli come basi. Spesso è tutto quello che faccio: do la musica giusta alla persona giusta al momento giusto. Facilito i collegamenti, senza imporli. In quel caso è stato davvero figo: speravo di riuscire a trovare una scusa per farli rimettere a suonare, e loro erano letteralmente in attesa di qualcosa che li ispirasse. Insomma, è stato un calcio in culo (ride, ndr). E così hanno scritto un album esplicitamente pensato per la danza, ma Wayne gli ha dato così tanta libertà creativa che, in fondo, non era altro che un loro nuovo LP.

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La sensazione che si ha a guardare il catalogo Erased Tapes è di una comunità, più che di un gruppo di artisti che fanno musica simile. Gli esempi sono tanti: Peter Broderick ha lavorato con Nils Frahm dandogli istruzioni durante le registrazioni di The Bells. Frahm ha lavorato più volte con Ólafur Arnalds. Arnalds ha fondato poi i Kiasmos, che sono stati reinterpretati da Lubomyr Melnyk, e così via. Qual è il tuo ruolo in tutto questo?
Non conoscevo nessuno dei miei artisti prima di Erased Tapes. L'idea era quella di aiutare artisti che avevo conosciuto su internet, su Myspace più che altro, stampando i loro dischi. Prendevo accordi con loro via mail o via Skype. Sai, non ho incontrato di persona un sacco delle persone con cui ho lavorato se non dopo anni e anni. Un esempio è Katsuhiko, World's End Girlfriend: sono riuscito a beccarlo cinque mesi fa, e ho pubblicato un suo lavoro nel 2010. Nel primo paio d'anni lavorare in questo modo mi andava bene, ma poi iniziai a provare un certo fastidio dato che stava andando tutto davvero bene a livello di atmosfera e qualità musicale. E ho pensato di incoraggiare le persone con cui lavoravo a conoscersi l'una con l'altra. Non mi aspettavo che nascessero collaborazioni, volevo solo che si dessero una mano. Chi era già andato in tour poteva dare consigli a chi non l'aveva mai fatto, ad esempio. E parlare con i propri compagni di etichetta poteva aiutarli a trovare ispirazione, superare blocchi creativi. Sono poi stati loro a decidere di jammare, o di organizzare concerti assieme. Ad esempio: l'amicizia tra Ólafur e Nils si è sviluppata da sola, con il passare del tempo. Quando Ólafur doveva passare per Berlino stava a casa di Nils, più che altro per risparmiare. Si prendevano una pizza, si bevevano un po' di vino e si mettevano a suonare.

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Il collegamento classico-contemporaneo si è esplicitato, in Erased Tapes, nell'unione tra classica ed elettronica. Ma quali sono le tue, vostre radici sonore?
La prima cosa che ho pubblicato, il Vemeer EP di Ryan [Lee West, che allora si faceva chiamare Aparatec e ora Rival Consoles, ndr], era pura elettronica. La seconda che ho pubblicato, in realtà – la prima era un mio progetto, di cui non vado così orgoglioso. Comunque: io sono un architetto. Cioè, ho studiato architettura. Non sono arrivato fino in fondo, ma da quando ho iniziato a ri-appassionarmi alla musica l'ho sempre pensata in termini architettonici e di design. Un progetto che avevo era la creazione di un nuovo tipo di sala per concerti – un luogo più discreto, familiare. Una casa pensata per ascoltare musica. Mi ero inventato dei muri viventi, delle strutture semoventi, che avrebbero permesso al suono di scorrere in maniera più naturale. Costruii questo modellino basato su una serie di anelli – l'idea era l'assenza di estremità, e quindi l'assenza di finestre, di buchi, e un continuo scorrere del suono. Così che la fruizione di un concerto sarebbe potuta essere ugualmente interessante in qualsiasi punto della casa si trovasse l'ascoltatore, senza che questo dovesse mettersi a fare scale o a trovarsi in un luogo preciso. Sembra qualcosa di piuttosto complicato.
Un po', ma fu esattamente questa complessità a convincermi che avrei dovuto approcciarmi al suono in maniera minimalista. In quel periodo stavo suonando con altri ragazzi, e la cosa stava iniziando a farsi seria – i primi tour, cose così. Ma fu allora che conobbi Ryan, Aparatec, che si era imposto di lavorare in 8-bit usando un software obsoleto di cui non ricordo neanche il nome. E ne adorai la semplicità e la linearità, ma al contempo l'esuberanza. Lui nasce come chitarrista, può suonarti qualsiasi assolo di Hendrix, ma ogni volta che si era messo a suonare con qualcuno si era scontrato con diverse etiche di lavoro, diversi approcci, e la sua reazione era stata quella di mettersi in proprio e comporre da solo – darsi al minimalismo. Esattamente come stava succedendo a me. E quando lo ascoltai la prima volta mi sentii più convinto di quello che stava facendo lui del mio stesso progetto, delle mie stesse idee. L'etichetta è quindi nata dall'elettronica, in un certo senso.

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E invece da dove arriva il vostro lato più classico?
Da Ólafur, principalmente. Una delle cose che mi colpirono di lui, quando sentii il suo primo album, fu il modo in cui la batteria entrava nell'ultimo pezzo. Sembrava hardcore, doppio pedale e tutto. Fu uno shock, ma nel contesto dell'album aveva senso dato che rappresentava una morte. Un improvviso climax di piano e archi e poi queste percussioni, filtrate come se provenissero da un segnale radio distorto, che scompaiono all'improvviso. Non ci trovai molte differenze con quello che faceva Ryan: Ólafur incorporava nuovi elementi su una base classica, e Ryan decostruiva forme classiche sintetizzandole con l'elettronica. Poi lavorammo assieme al suo primo EP, Variations of Static, e coinvolsi Justin Lockey facendolo lavorare a "Fok" – che è un brano spiccatamente elettronico. La sua IDM glitchata prese il posto della batteria, e fu quell'esperienza a spingere Ólafur a sperimentare in quella direzione e incorporare sempre più elementi digitali nella sua musica. I Kiasmos, il suo progetto con Janus Rasmussen, sono nati più o meno attorno all'uscita di Dyad. All'epoca facevano quasi techno dura e pura. Me la fece sentire mentre lo accompagnavo in tour, senza prendere la cosa minimamente sul serio, ma a me prese benissimo! E aveva senso che li pubblicassi, dato che lavoravo con Ryan da un sacco di tempo. Insomma, sono cresciuto ascoltando techno. Sono tedesco, in fondo (ride, ndr). Anche Nils aveva fatto elettronica prima di firmare con me.

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Sì, soprattutto su Streichelfisch.
Esatto. Quando ci conoscemmo mi passò un sacco di pezzi tutti glitchati e clicky-clacky. Prima ancora però fu Chad di Hush Records, in America, a sentire un remix che aveva fatto per Peter e a chiedergli di pubblicare un album con loro, e da lì nacque 7Fingers, con Anne Müller. Sono stato più coinvolto, invece, negli esperimenti di Nils con il Juno. Eravamo assieme in studio, io, Peter e lui, e si mise a usarlo improvvisando e ne uscirono due pezzi.

Che sono diventati "For" e "Peter", penso.
Esattamente, il Juno EP. I due brani si chiamano così perché fu Peter a convincerlo a iniziare a registrare. Non molti sanno che, dopo The Bells, chiesi a Nils di mettere via un album intero che aveva registrato nello stesso modo. Dal vivo, in un solo luogo, in un paio di giorni. Ma sentii due demo che aveva scritto in cui aveva provato a registrare mettendo dei microfoni all'interno del pianoforte, e c'era più bellezza in quei pochi minuti che in quell'intero altro disco. Allora lo spinsi a sperimentare con nuovi strumenti, e il risultato fu Felt.

Da ascoltatore, ci sono mai state delle etichette a cui ti sei appassionato e in cui magari rivedi qualcosa di quello che Erased Tapes è oggi?
È strano, ma penso di non essermi mai consciamente sentito legato a un'etichetta. Ascoltavo molto jazz, e mi capitava di comprare dischi solo per la loro copertina – più che altro se c'era un'estetica minimalista di mezzo – e magari scoprivo solo dopo che tutti i dischi che mi piacevano erano su Blue Note, o su ECM. Suonerà strano, ma l'unica etichetta di cui mi sono veramente deciso ad ascoltare tutto il catalogo è la Man's Ruin, di San Francisco, che pubblicava più che altro stoner. Era impossibile trovare i loro album in Germania e, quando avevo circa vent'anni, andai a vivere là per un periodo. Comprai qualsiasi cosa trovai. Più che l'etichetta in sé ad appassionarmi era lo spirito collettivo che stava dietro ai Kyuss, che portò poi ai Queens of the Stone Age e ai Mondo Generator. Non che ascolti molto stoner, ma c'era qualcosa di unico nel minimalismo e nella purezza di ciò che facevano – nell'unicità della loro proposta, nel loro perfezionare e semplificare una formula pre-codificata dai grandi del genere, come potevano essere i Black Sabbath. E ci riuscivano incontrandosi nel deserto, con qualche lattina di birra, degli amplificatori e dei generatori per farli funzionare. Scordavano le chitarre, suonavano arrivando a frequenze quasi drone. Non penso sia molto diverso da quello che fanno gli Stars of the Lid, e non credo ci sia molta differenza tra quella sensazione di comunanza e quella che si è sviluppata in Erased Tapes.

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Ho letto che non avevi alcuna esperienza nel settore prima di fondare Erased Tapes, ma con il passare del tempo hai cercato di seguire dei modelli, a livello organizzativo?
Non sono poi così interessato al lato commerciale. Non penso nemmeno alla musica come a un'industria. Ok, per un artista in fondo è questione di condividere un album tramite una forma fisica: ma il processo deve avvenire innanzitutto perché quell'artista lo sta facendo per sé stesso. Gli affari sono un aspetto secondario. Dargli troppa attenzione significa snaturare l'atto artistico. Chi fa musica lo deve fare senza fregarsene di un cazzo. Ha senso avere un lavoro e usarlo per potersi permettere di fare musica. Farlo con passione, facendo attenzione a non fare entrare i soldi nell'equazione. È quello che voglio e cerco di fare.

Robert Raths e Aakaash Israni nel backstage dei Dawn Of Midi al Volksbühne di Berlino. Foto di Claudia Gödke.

Ti va di spiegarmi come funziona l'etichetta a livello pratico?
Il mio team è molto piccolo, se lo paragoniamo al modo in cui veniamo percepiti. Ci sono circa 10 persone che lavorano con me. La maggior parte sono part-time, ma sono io a volerlo: gli uffici mi spaventano. Non voglio essere una di quelle persone che ne mette altre in un ambiente grigio, con un soffitto basso, cinque giorni a settimana e risucchia ogni ispirazione dalla loro vita. Ok, è bello essere a stretto contatto con le persone con cui lavori: ma se esageri, e lo fai ogni giorno, diventa rischioso. Voglio che chi lavora con me si chieda se veramente vuole passare così tanto tempo a farlo. O se preferirebbe mantenere una certa indipendenza, e sviluppare un proprio lato creativo. Ci sono manager, designer, fotografi, registi che lavorano con me, ed è bellissimo. Non mi dà fastidio. Alcuni vivono a Los Angeles, Montreal e Berlino, e mi fido di loro: mi mandano un report settimanale su quello a cui hanno lavorato, e via. Penso che sia questo il futuro dell'industria musicale. Non voglio arrivare mai ad un punto in cui dovremo fare affidamento sulle nostre entrate. È innaturale.

La gestione del lato finanziario è comunque un male necessario per sopravvivere – o non necessariamente?
Faccio sempre molta attenzione a fare grossi investimenti. Almeno: li faccio se c'entrano con la musica, ci sto più attento se c'entrano con settori come il marketing, la pubblicità. Ovviamente non voglio mai rischiare di sentirmi come se non avessi fatto abbastanza, ma ci sono cose per cui ha senso spendere e cose per cui non ha senso. Metti che tutti e dieci lavorassimo qua full-time, nello stesso posto, cinque giorni su sette. Se un anno la musica che pubblichiamo non dovesse trovare abbastanza pubblico, come farei a pagare tutti? Mi ritroverei forzato a prendere decisioni drastiche, e sarebbe la fine. Me ne andrei. Sarebbe la morte della musica (ride, ndr).

Erased Tapes ha contribuito enormemente a lanciare la carriera di Lubomyr Melnyk, che è appena arrivato a firmare per Sony. Come l'hai scoperto?
Ho scoperto la sua musica su Myspace, ormai quasi dieci anni fa. La ascoltavo spesso, ma senza pensare che avrei voluto lavorarci. Sai, non sono uno scout. Spesso è come se fossi in una bolla quando ascolto musica – se qualcosa mi ispira, dopo un po' diventa parte della mia vita. Magari un anno dopo inizio a sentire come se dovessi ridare qualcosa a chi l'ha scritta, e così capita che scritturo nuovi artisti. Comunque: il problema di Lubomyr era che il suo Myspace era terribile. Non c'erano indirizzi per contattarlo. Gli avevo scritto per dirgli che adoravo la sua musica, ma non mi rispose. Allora non era così facile stringere contatti, soprattutto dato che viveva a Winnipeg, in Ontario. Il fatto che un artista così grande che non fosse ancora stato scoperto era quasi troppo bello per essere vero. Onestamente, la prima volta che lo ascoltai mi venne il dubbio che fosse musica di un passato lontano caricata a caso su internet a nome "Lubomyr Melnyk". Comunque: anni dopo, venni a sapere che Hauschka l'avrebbe portato in Europa per farlo suonare all'Ambientfestival di Colonia, che è dove sono nato. E quell'anno ci avrebbero suonato anche Nils [Frahm] e Peter [Broderick]. Una sera eravamo tutti e tre assieme, uno di noi nominò Lubomyr e tutti e tre ci dicemmo contemporaneamente, "Ma lo conosci anche tu?". Allora decisi che sarei andato al festival assieme a loro per parlargli – e mi venne la febbre più forte che abbia mai avuto. Ci vuole molto per farmi dire di no ad un'opportunità così grossa, ma affidai a Nils e Peter il compito di prendere i suoi contatti.

Non eri proprio riuscito a contattarlo in alcun modo prima di allora?
No, Lubomyr era irraggiungibile… L'unica persona che mi aveva contattato era un suo vicino che aveva saputo che ero suo fan e voleva aiutarmi a trovarlo, ma non se ne fece mai niente. Ogni tanto lo nominavo a qualcuno – tipo, ne parlai a Richard Reed Parry degli Arcade Fire, e lo conosceva! Quando aveva quindici anni chiese ai suoi genitori di andare a lezione da lui. Ad ogni modo, Nils e Peter suonarono al festival, e si trovarono Lubomyr in prima fila a vedere il loro concerto. Appena dopo gli fece i complimenti, si misero a parlare e Peter gli disse che voleva fare un disco con lui: non come compositore o esecutore, ma in un ruolo di ispiratore. Un po' come aveva fatto con The Bells di Nils. Questo perché pensavamo che le migliori cose di Lubomyr, quelle che lo spingevano ad avventurarsi fuori dalla sua zona di conforto, erano quelle in cui suonava assieme ad altri musicisti.

Un po' come ha fatto in seguito con la chitarra di Jamie Perera su Rivers and Streams.
Esattamente. Morale: Peter organizzò delle sessioni di registrazione a Berlino, Nils offrì il suo studio, Martyn degli Efterklang lavorò agli arrangiamenti e Francesco ["Burro" Donadello, ndr] lo volle registrare. E lì nacque Corollaries. Mi ricordo che ero steso sul pavimento dello studio, e lo ascoltavo suonare – era come se il cielo si stesse aprendo. Fu un'esperienza spirituale, angelica. Sapevamo tutti che era qualcosa di unico, ci guardavamo sorridendo come per dirci, "Cazzo, lo stiamo facendo davvero!" E fin da subito sentii il bisogno di coinvolgerlo, di discuterci. Il primo giorno, in cucina, Nils stava parlando di un software con alcuni suoi amici, e Lubomyr era lì di lato, zitto. Insomma, è un signore anziano, è comprensibile. Dal nulla, poi, se ne uscì dicendo, "Sì, penso che la versione migliore sia la 4.6". E tutti ebbero un momento "wow" (ride, ndr). Si percepiva quel suo modo unico, deciso, di affrontare la realtà? A sentirlo parlare non si capisce mai quanto sia effettivamente convinto delle dichiarazioni altisonanti che fa. Tipo, se guardi il suo sito, la prima cosa che vedi è la scritta "Prima venne Franz Liszt… poi venne LUBOMYR". 
Francamente, ogni volta che Lubomyr apre la bocca ne esce qualcosa di inaspettato, controverso, ed è una cosa che adoro. Crede enormemente in ciò che dice. Non molti condividono la sua verità, ma non penso ne esista una sola. Ha opinioni interessantissime: ad esempio, che il suono non sia un'onda, o una frequenza. E sostiene che non ci sia bisogno di porsi la questione di cosa sia. E, anche se solo per un secondo, ti dimentichi tutta la scienza che realmente c'è dietro al suono, allora lui è riuscito a farti toccare quella verità. La rende una questione magica, di spirito. Io sono stato come un filtro: alcune delle cose che aveva caricato su internet erano presentate davvero male – e ci chiedevamo quale fosse la ragione per cui non avesse avuto il successo di Reich, Glass o Cage, dato che In fondo è un loro contemporaneo. Era lui il primo a chiederselo. Si sentiva rifiutato dal mondo della classica contemporanea, ma nonostante tutto era andato avanti a fare musica per 35 anni, sempre un po' più deluso e amareggiato. Allo stesso tempo, però, costruendosi attorno uno scudo sempre più resistente. Un sacco di gente lo liquidava dicendo, "Ah, è solo veloce", o lo considerava un matto rimasto sotto di anfetamine per cose come la tecnica del kung fu, o il suo parlare del suono come una "quarta dimensione"… Ma non è così, anche se il modo in cui si è sempre presentato facilita il lavoro dei suoi detrattori. E quando scrivemmo il comunicato stampa di Corollaries gli dissi che se ci avessimo inserito tutto quello che voleva avrebbe rischiato di passare per un coglione egocentrico, anche se io sapevo che non era così.

Quale pensi siano le ragioni di questo suo atteggiamento?
C'è molta rabbia in lui, e ho sempre fatto il possibile per eliminarla, filtrarla. Un esempio fu quando pensammo di coinvolgere Gregory, che fece la copertina di Corollaries, in alcuni suoi concerti. Pensavo si sarebbero trovati benissimo insieme, entrambi esprimono un senso di ciclicità nei loro lavori, l'alternanza tra vita e morte, e lo stile di Gregory si avvicinava moltissimo al senso di spazio che volevamo esprimere con Lubomyr. Ma la cosa non gli piacque, si sentì come distratto dalla presenza di un'altra persona sul palco, e Gregory se ne rese conto. Quello che auguro a Lubomyr è, prima o poi, di riuscire a liberarsi da questa negatività che ha dentro, e da quel momento mi sono giurato che avrei fatto di tutto per aiutarlo a riuscirci. Ora che ha trovato un pubblico, ora che c'è gente che lo ascolta e lo apprezza, non ne ha davvero più bisogno. È la musica a parlare. Elia non ha più un mangiacassette, ma possiede tuttora cassette. Seguilo su Twitter​.
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