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Musica

Il "rap femminile" non dovrebbe esistere

La musica è musica e basta, che la faccia un uomo o una donna, e dobbiamo stare attenti a non creare sotto-categorie inutili e dannose.

Questo non è un articolo sul fatto che non ci siano poche donne nella scena rap: quello l'abbiamo già fatto anni fa. Non è nemmeno un articolo sull'importanza che le donne hanno avuto nel dare forma alla cultura hip-hop, dato che ce ne sono già molti in giro. Infine, non è un articolo sulla rappresentazione delle donne all'interno dei testi rap: è un tema di cui si discute già da anni con risultati altalenanti.

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Questo è un articolo in cui vorrei dire che le parole importano e che il modo in cui parliamo di musica ha un'influenza sul modo in cui la percepiamo e interiorizziamo. Mi è venuta voglia di scriverlo perché la scena rap italiana sta cominciando a diventare un luogo più variegato rispetto al passato. Il che va molto bene, dato che più voci e prospettive significano più stimoli ed esperimenti. Ma è anche un bene, che va riconosciuto e protetto.

Usare il termine "rap femminile" significa suggerire che il rap "normale" sia fatto dagli uomini.

Penso che parlare di "rap femminile" sia rischioso. È un'espressione che salta fuori abbastanza spesso in contenuti prodotti da media ed etichette discografiche, siano articoli (anche nostri) o comunicati stampa ufficiali ("x è il punto di riferimento del rap femminile in Italia"). Non credo che ci sia alcun intento malizioso nell'uso del termine: è che quando percepiamo qualcosa come "nuovo" o "particolare" tendiamo a evidenziarlo, e una donna che fa rap è ancora abbastanza inusuale da portare chi ne parla a sottolinearlo.

Insomma, si tratta della naturale tendenza dei media e delle etichette a parlare delle cose che distinguono un artista per comunicarlo meglio, trovargli/le una nicchia. L'editoria contemporanea e il suo sistema di sostentamento funzionano così, d'altronde. I prodotti generalisti hanno perso lettori e risorse e spianato la strada alla creazione di testate di riferimento rivolte a categorie ben definite. I prodotti pensati per essere "femminili" e "maschili" ci sono sempre stati, ma da quando è diventato facilissimo profilarci è anche diventato più semplice che mai rivolgersi a uno specifico target, così da vendere più spazi pubblicitari e venderli meglio.

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Madame, fotografia promozionale

Nel caso specifico del rap italiano (ma possiamo sostituire "rap" con qualsiasi altro genere musicale), il rischio è che si confinino le artiste all'interno di una sottocategoria perché hanno una vagina. Usare il termine "rap femminile" significa suggerire che il rap "normale" sia fatto dagli uomini, e sebbene storicamente sia la verità non c'è scritto da nessuna parte che dobbiamo continuare a prenderlo come uno stato di cose.

Questo non è un invito a ignorare l'identità di genere di un qualsiasi artista, o a non fare il possibile per auspicarsi una diversità sempre maggiore all'interno della nostra comunità creativa. È che sarebbe bello se considerassimo la musica (e qualsiasi campo creativo) come uno splendido insieme disordinato creato da esseri umani. Andremmo così a cominciare a scardinare luoghi comuni culturali e artistici che rischiano se non di affondare la comunità hip-hop e i suoi prodotti almeno di renderla noiosa, a lungo andare.

"Negli Stati Uniti si parla di Cardi B e di Nicki Minaj come di grandi rapper e basta. In Italia dobbiamo arrivarci, per passettini".

"Il termine mi fa arrabbiare tantissimo", dice Leslie, una delle protagoniste della posse track "Bimbe (Holla)", mini-progetto ideato da Thaurus per lanciare quattro rapper esordienti nel rap game italiano. "È il primo step del ghettizzarsi e non porta a nulla di utile, né in termini di marketing né di musica. Ci dissocia dal resto del rap, non dovrebbe assolutamente essere così. Ne siamo parte integrante, non una fascia a parte". E poi aggiunge: "Negli Stati Uniti si parla di Cardi B e di Nicki Minaj come di grandi rapper e basta. In Italia dobbiamo arrivarci, per passettini".

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Gli Stati Uniti non sono comunque un'isola felice e anche artiste come Nicki e Cardi subiscono i condizionamenti della cultura che le ha formate. Ci sono numerosi studi accademici e autorevoli articoli che evidenziano l'esistenza di processi di auto-oggettificazione da parte delle rapper americane, portate o a descriversi con gli stessi termini con cui gli uomini le hanno descritte per anni e anni ("bitch" su tutti) o a presentarsi utilizzando immagini e parole che rimandano alla mascolinità (è il caso, per esempio, di Young M.A.).

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Beba e Rossella Essence, fotografia promozionale

Questo interessante pezzo di A.Side pone inoltre una questione fondamentale per lo stato della scena italiana oggi: dobbiamo stare attenti anche a non supportare e spingere rapper solo perché donne. Credo fosse quello che voleva dire (maldestramente) DrefGold nell'intervista che ci ha rilasciato: ha senso spingere un'artista se nella sua arte qualcuno vede qualcosa, non solo perché è una donna. Ma credo sia sbagliato fare ragionamenti che mettono i bastoni tra le ruote a qualsiasi spinta verso la diversità, soprattutto se questa è ancora all'inizio. Lo è negli Stati Uniti, figuriamoci in Italia.

"Non mi piace sentire parlare del rap fatto da una donna come se fosse un genere a parte ma se sentiamo la necessità di definire e dare un’etichetta a tutto posso dire che mi basta se ne parli, finalmente; a differenza di quando ho iniziato io, in cui l’argomento non era neanche preso in considerazione", dice a proposito Beba, autrice di una serie di singoli per Universal insieme alla beatmaker Rossella Essence. "Il mio modo di rapportarmi all’ambiente e agli altri artisti, che si tratti di uomini o di donne, è il medesimo: per me esistono solo il talento e la passione. Questo è il mio modo di gestire la differenza che una parte del pubblico e dei media fa tra i due sessi: non farla io, non assecondarla".

"Il mio sogno, con il 'rap' è quello di essere riconosciuta come la migliore della scena, non la migliore delle donne della scena" - Madame

Particolare è il caso di Madame, che viene da Vicenza ed è nata nel 2002. È un caso unico nella scena italiana: il suo secondo singolo, "Sciccherie", è uno schiaffo alle aspettative di chi schiaccia "play" aspettandosi un pezzo che rientri negli standard del rap italiano contemporaneo. Il beat di Eiemgei è attraversato da un pacchianissimo (e azzeccatissimo) sassofono. Madame lo usa per rappare e cantare in un italiano fluido, passato per un colino, bollito, raffreddato, congelato e spaccato con un martello. È qualcosa di unico nel rap italiano tutto, impreziosito da un testo pieno di quasi-neologismi e toni confessionali che gridano genuinità.

"Le catalogazioni mi lasciano abbastanza indifferente. Il mio sogno, con il 'rap'—che comunque è solo una parte del mio modo di fare musica—è quello di essere riconosciuta come la migliore della scena, non la migliore delle donne della scena", dice lei. "I media possono usare le definizioni che vogliono, tanto noi artisti avremo sempre qualcosa da ridire perché troveremo sempre qualcosa di sbagliato, ma fa parte del gioco". Ed è giusto che gli artisti lo facciano, perché noi siamo corresponsabili dei destini di questa scena che ci permette di fare il nostro lavoro. Non serviamo agli artisti ma contribuiamo a raccontarli alle persone che li ascoltano: farlo senza pensare a tutte le implicazioni dei termini che usiamo sarebbe quantomeno un peccato. Elia è su Instagram. Segui Noisey su Instagram, Twitter e Facebook.