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Interviste

Pace, anarchia, fanculo il sistema: una chiacchierata con i Crass

Mentre i Sex Pistols usavano la ribellione come trovata pubblicitaria, c'era un collettivo di veri punk che seminava il panico nel Regno Unito: erano i Crass e li abbiamo intervistati.
Giacomo Stefanini
Milan, IT
Crass
Foto promozionale

Non c'è dubbio che il punk abbia cambiato per sempre il mondo della musica, dalla sua esplosione nella seconda metà degli anni Settanta. Improvvisamente, in cima alle classifiche inglesi, c'erano canzoni dai titoli folli come "Anarchy In The UK". Ma diciamo la verità, l'anarchia come la intendevano i Sex Pistols era poco di più di uno scherzo, una provocazione da ragazzini, una caccola spiaccicata sull'obiettivo di una telecamera. Nulla di male, sia chiaro, ma l'anarchia va ben oltre.

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Chi ha davvero portato l'anarchia nel punk è una band, anzi un collettivo, di nome Crass. I Crass erano formati da una ganga composta da ex-hippie con un passato da professori di arte e teppistelli di strada dall'inconfondibile accento cockney, militanti femministe e artiste squattrinate. La loro base era la Dial House, una catapecchia in mezzo agli sconfinati prati dell'Essex, a cui il fondatore e batterista della band Penny Rimbaud aveva levato le serrature, trasformandola in una comune votata alla pace, all'amore e all'anarchia.

I Crass non erano soltanto una band: erano un'unità di sabotaggio per la società inglese. Eve Libertine e Penny scorrazzavano per la rete metropolitana di Londra armati di stencil e bombolette riempendo i muri di messaggi anti-militaristici quando i writer di New York City erano appena agli inizi; nel 1983, in piena Guerra Fredda e durante la crisi delle Malvinas/Falkland, crearono un incidente diplomatico internazionale diffondendo la registrazione di una finta telefonata tra Margaret Thatcher e Ronald Reagan in cui un collage tra le voci dei due leader dell'Occidente faceva sembrare che stessero confessando crimini di guerra e interessi occulti.

I loro concerti e i loro dischi erano agglomerati catartici di affermazione anarchica, pacifista, femminista e animalista. Dietro di loro sventolavano bandiere piene di simboli e slogan. Presto diventarono un vero e proprio culto per i punk di tutto il mondo, a dispetto del loro rifiuto di trasformarsi in simboli e di conformarsi a quello che il pubblico si aspettava da loro. Erano il gruppo più punk del mondo proprio per il loro ostinato rifiuto di essere punk, perché, per citare il testo della loro "Punk is dead" "i movimenti sono sistemi e i sistemi uccidono".

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In tutto questo, non bisogna dimenticare che hanno prodotto sette album di musica incredibilmente vitale, che del punk prendeva l'urgenza e l'assalto primitivo ma non rinunciava alla creatività e alla libertà dell'approccio sperimentale, incorporando la poesia, la musica concreta e, fondamentalmente, tutto quello che passava loro per la testa. Questi album oggi stanno venendo tutti ristampati. I primi tre, The Feeding of the 5000, Stations of the Crass e la raccolta di singoli Best Before 1984 sono già usciti e sono distribuiti da Audioglobe in Italia. Gli altri (Yes Sir I Will, Penis Envy, Ten Notes On A Summer’s Day e Christ The Album) usciranno il 28 giugno.

Abbiamo avuto la possibilità di parlare con Penny Rimbaud e ripercorrere la storia di uno dei progetti musicali più improbabili, assurdi, influenti ed esaltanti della storia della musica, la nostra conversazione è qua sotto.

penny rimbaud

Penny Rimbaud dei Crass, foto in esclusiva per Noisey/VICE di Hal

Noisey: Come si sono sviluppati i Crass a partire dalla Dial House? Perché proprio un gruppo punk?
Penny Rimbaud: Nulla era intenzionale. C’è stata forse una intenzione, sarà stato il 1970. Ero tornato a casa dopo un periodo passato a lavorare come docente all’Accademia di Belle Arti, ero molto disilluso, stanco, consumato dalle politiche universitarie e dall’atteggiamento poco piacevole di molti professori. Non volevo più averci nulla a che fare, così ho lasciato quel lavoro e ho eliminato le serrature dalle porte di casa mia. E poi mi sono seduto, chiedendomi che cosa sarebbe successo.

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Aprire la tua casa è stato il primo passo, quindi.
A dir la verità è stato l’unico passo. Tutto ciò che è successo è stato una conseguenza del vivere con le porte aperte. Ci parlavamo, e magari un dialogo ci portava a piantare delle patate nell’orto, oppure a tagliare la legna, o ad andare a fare una passeggiata, o a formare una band o a guardare un film. Nessuna di queste cose è più importante delle altre. Alcune persone attribuiscono importanza a certe cose successe, ma nella mia vita nessuna è più o meno importante delle altre.

Quindi, la Dial House è diventata quello che è perché non volevo più vivere nella maniera che pensavo mi fosse stata imposta. Mi sembrava che quella che la maggior parte delle persone vivevano fosse una vita a metà. Avevo cercato di seguire una strada convenzionale, come docente e come pittore, ma mancava qualcosa: era la vita. Così ho aperto le porte. Le due persone con cui vivevo ai tempi se ne sono andate, perché non erano d’accordo. L’unica regola era accettare ciò che accadeva, il più possibile. Vivo ancora secondo questa regola. Sono arrivate tante persone, tante se ne sono andate. Una persona che è arrivata, sarà stato sette anni dopo che avevo aperto le porte, era un tizio di nome Steve. Era il fratello minore di un artista che era stato qua per un po’. Aveva vent’anni in meno di me e voleva fondare una band. Avrà avuto 16 o 17 anni, io ne avevo già più di trenta. Insomma, lui fa: “Voglio fare un gruppo”, io dico: “Ho una batteria”. E abbiamo fatto una band. Non ci interessava nemmeno coinvolgere altra gente, eravamo tranquilli soltanto noi due. Gli altri membri del gruppo erano tutta gente che passava di lì, ci aveva sentiti fare casino e aveva detto: “Posso provare anch’io?” Andy, il chitarrista ritmico, non aveva mai suonato la chitarra prima e, nei sette anni passati nei Crass, non ha mai imparato. Non c’era un programma, non c’era ambizione: abbiamo soltanto seguito il flusso degli eventi. Invece di dire “no”, abbiamo detto “sì”. E se dici sempre di sì, ti ritrovi in situazioni fantastiche e imbarazzanti. Abbiamo subito deciso che avremmo detto di no soltanto a ogni tipo di impresa commerciale, perché non volevamo questioni di soldi. Non abbiamo mai fatto un soldo per tutta la nostra carriera, perché li davamo via.

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La copertina di The Feeding of the 5000, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

Sulla questione dei soldi, un esempio perfetto è stato il vostro primo singolo Reality Asylum, che vendevate sottocosto…
Già, avremmo fatto più soldi se non ne avessimo venduto neanche una copia, perché per ogni copia venduta perdevamo sempre più denaro. Fa abbastanza ridere l’idea di vendere qualcosa e diventare più poveri, ma sì, diciamo che dimostra più o meno i nostri principi.

Quando si parla dei Crass, l’aspetto estetico e politico sono importantissimi. Personalmente, credo che siate stati in grado di sintetizzare meglio di chiunque altro una specie di ideologia punk che va oltre l’anarchismo, oltre il nichilismo, oltre la protesta. Uno degli slogan più intelligenti, per me, è The nature of your oppression is the aesthetic of our anger (“La natura della vostra oppressione è l’estetica della nostra rabbia”): mai definizione fu più azzeccata per l’anarcho-punk, un movimento che usa un immaginario violento, un’estetica quasi militare, dei suoni che sono quasi quelli di un bombardamento, per parlare di antimilitarismo, pace e resistenza all’oppressione.
È proprio così. Abbiamo deciso di attaccare la narrazione con la narrazione stessa, usando le sue forme contro di lei. Quello è un tipico esempio del nostro approccio, che era essenzialmente dadaista. Quello è uno dei nostri slogan meglio riusciti.

Il passaggio tra The Feeding of the 5000 e il secondo album, Stations of the Crass , è cruciale. Perché se il primo era venuto fuori dal caos, da una band che non era veramente una band, una volta arrivati al secondo disco eravate, anche se contro la vostra volontà, ormai un gruppo ben rodato, con un’identità precisa.
Stations of the Crass è probabilmente il più venduto dei nostri dischi, e secondo me è anche il più brutto. Feeding era un “vaffanculo, facciamo quello che ci pare”, abbiamo detto quello che volevamo dire senza preoccuparci di avere un pulpito, di essere ascoltati. Ma arrivati a Stations, per un breve periodo abbiamo preso la cosa sul serio, ed è venuta a mancare l’essenza. Ha delle belle canzoni, è più facile da ascoltare, molto meno impegnativo. Su Feeding abbiamo creato una definizione che non avremmo mai pensato qualcuno avrebbe preso sul serio, che avrebbe attirato un pubblico, e invece un pubblico è arrivato. E quindi con Stations abbiamo pensato “questa è la gente per cui stiamo scrivendo”, in un certo senso. È un buon album, non fraintendere, ma è stato il punto in cui ci siamo avvicinati di più alla mentalità da “industria musicale”.

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La copertina di Stations of the Crass dei Crass, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

Eppure è proprio su Stations che, in “Punk is dead”, dite “i movimenti sono sistemi e i sistemi uccidono”—un altro brillante slogan che risulta super punk nel suo stesso rifiuto della codificazione del punk.
Sarebbe ridicolo dire che con Stations stessimo “cavalcando un’onda”, ma penso che stessimo sfruttando una situazione invece di creare una situazione nuova. Dopo Stations, mi sento tranquillo e profondamente felice di dire che in nessun modo, mai, abbiamo cercato di conformarci ad alcunché.

A questo punto anche la parte di attivismo della band, l’azione diretta, è diventata fondamentale per la band.
Anche quello lo facevamo già da prima. Eve [Libertine] e io facevamo graffiti in metropolitana già da un anno prima di fondare la band. A quei tempi era un’azione molto radicale, non c’erano graffiti in giro, non penso nemmeno che esistessero le tag nel 1976. Avevamo sentito parlare delle tag in America e io avevo visto i graffiti politicizzati a Parigi, da lì ho tratto ispirazione per farli a Londra. Ogni sabato sera uscivamo armati di bombolette e scrivevamo nelle stazioni del metrò in tutto il centro di Londra. Eravamo molto rigorosi. La band, anzi, rese più difficile tutto questo perché a partire dal 1978 ci tolse molto tempo.

Però il nostro attivismo dimostrava che non era un gioco per noi, che vivevamo quello di cui parlavamo su ogni fronte. I Clash, per esempio, parlavano sempre di creare stazioni radio pirata, e non lo fecero mai, o i Sex Pistols cantavano “Anarchia nel Regno Unito” ma intendevano “Soldi nelle nostre tasche”. Noi eravamo seri. La gente lo sapeva. Non abbiamo mai fatto un soldo dai Crass, nonostante la nostra popolarità, che tra l’altro è in crescita. Non abbiamo mai avuto nulla da nascondere, il messaggio dei Crass lo applichiamo nel nostro stile di vita.

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È davvero impressionante come i vostri testi, sempre così specifici, in cui attaccavate situazioni reali facendo nomi e cognomi (“Margaret Thatcher, come ci si sente a essere la madre di un migliaio di morti?”) risultino ancora validi e al passo coi tempi. E questo mi porta all’attualissima questione femminista, alla quale avete dedicato un intero album: Penis Envy.
Penis Envy fu una reazione naturale alla situazione che vivevamo. Dopo Stations era nata la Crass Army, un gruppo di giovani perlopiù uomini, tutti vestiti di nero. Pensavano fosse una specie di uniforme, ma il motivo per cui noi indossavamo solo abiti neri era anti-uniforme: ai tempi la “moda punk”, quella creata da Vivienne Westwood e compagnia, era coloratissima. Era una dichiarazione di non-identità, ma inevitabilmente era diventata storica. A ogni manifestazione, c’era un gruppo di persone tutte vestite di nero. Noi siamo parzialmente responsabili di questo, e non ne andiamo particolarmente fieri, perché non hanno afferrato il concetto.

Quindi, come si esce da questa situazione? Beh, avevamo tre voci femminili molto potenti all’interno della band. Eve, in particolare, aveva un fortissimo background femminista, faceva già parte della seconda ondata femminista nei tardi anni Sessanta e primi Settanta, quella di Germaine Greer. Quindi aveva molte cose da dire. Era ovvio che se volevamo distruggere, in un certo senso, tutta la questione dei boot boys e della Crass Army, avremmo dovuto usare la sua voce. Il risultato è probabilmente uno dei nostri album migliori, di sicuro uno dei più eloquenti, magnificamente condotto da Eve. Non mi viene in mente alcun altro album femminista, a dir la verità. Ci sono tanti buoni dischi realizzati da donne, ma nessuno così diretto.

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Crass, fotografia di Tony Mottram

In Penis Envy rientra anche la straordinaria truffa ai danni della rivista femminile Loving , quando sotto l’alias Creative Recording And Sound Services riusciste a vendere una vostra canzone, “Our Wedding”, come singolo per innamorati allegato alla rivista, con un testo a base di luoghi comuni e terrificanti dichiarazioni di possesso mascherate da amore romantico.
È stata una cosa venuta fuori naturalmente dal nostro interesse. Avevamo passato due settimane a registrare il disco, costantemente immersi nella discussione degli argomenti trattati. Prima di “Our Wedding” c’era un’altra idea. Avevamo deciso di farne una versione di “Lipstick On Your Collar”, un vecchio pezzo romantico anni Cinquanta, intitolata “Lipstick On Your Penis (Tells A Tale On You)”. Eve aveva preparato un testo tutto a base di pompini e cose del genere. Ma il problema era che veniva a tutti così tanto da ridere che non riuscivamo a finire una take. Ho iniziato a pensare che non valesse la pena di rischiare una gigantesca causa per violazione del copyright per una cosa del genere, che non faceva tanto di più che mettere parolacce su una vecchia canzone. A quel punto ci è venuto in mente di fare qualcosa di più radicale, che avesse effettivamente un impatto. All’inizio doveva essere semplicemente un’accozzaglia di tremende banalità romantiche da piazzare sull’album. Eve stava ancora male dal ridere, quindi Joy si è offerta di cantarla, e lei aveva una voce molto più morbida e delicata. Pete e Joy si sono chiusi in una stanza a scrivere il testo per dieci minuti, durante i quali hanno buttato giù tutto il peggio del romanticismo da discount che riuscivano a farsi venire in mente. E mentre la registravamo, abbiamo pensato “uhm, questa roba è abbastanza convincente da provare a mandarla a una di quelle riviste rosa”. È stato un gesto politico, sia chiaro. Quelle riviste sfruttano la solitudine, la confusione dei più giovani promuovendo un’idea di amore romantico che è impossibile, irrealistica, irrealizzabile e, in ultima istanza, anche indesiderabile. Il gesto, quindi, aveva un fortissimo valore politico e femminista, ma ci ha anche fatto fare due risate. A Loving hanno abboccato subito, e il resto è storia.

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A testimonianza di quanto foste avanti, credo che il problema dell’idea di amore romantico che viene venduta ai giovanissimi sia ancora irrealistica, e ancora pochissimo discusso negli ambienti anche più radicali.
Assolutamente. Penis Envy affronta questo tema in maniera estremamente diretta, in più di una canzone. In realtà Eve e io stiamo pensando di registrare una nuova versione dell’album, ma questa volta in uno stile più vicino all’hip-hop, al rap, al grime. Ovviamente non sarei assolutamente in grado di creare dei beat in stile contemporaneo, quindi mi sono messo in contatto con un paio di persone che potrebbero lavorarci o almeno indirizzarmi nella giusta direzione. Vorremmo creare una versione ancora più radicale di questo album, che è probabilmente il più attuale che abbiamo fatto. La parte più interessante, per me, è l’idea di includere la questione razziale nel messaggio dell’album, ma io, essendo bianco, non sono qualificato per parlarne. Per questo sto cercando di coinvolgere alcuni musicisti di Los Angeles che potranno aiutarci su quel versante.

Riguardo a Christ: The Album , ho letto da qualche parte che voi lo consideravate un fallimento, perché era uscito troppo tardi e gli argomenti che toccava non erano più rilevanti secondo voi.
Christ doveva essere una celebrazione. Le nostre azioni, assieme a quelle di tante altre persone, avevano portato a una totale rinascita del movimento pacifista nel Regno Unito, che nel ’77 praticamente non esisteva più. Nel 1980, era tornato un movimento radicale e potente. Si espandeva in tanti campi diversi: la liberazione animale, l’ambientalismo, un’intera gamma di situazioni che cercavamo di cambiare. Ovviamente il sogno era la rivoluzione, ma sai, quella non si può fare dall’oggi al domani. Quando abbiamo iniziato i Crass, ci sentivamo davvero sicuri di noi, credevamo di vincere, di avere un impatto importante. Eravamo orgogliosi di quello che avevamo fatto, e Christ era una specie di presentazione. Penso che, durante la sua realizzazione, pensassimo anche che sarebbe stato il nostro ultimo album, perché la missione era compiuta, per modo di dire.

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E poi è arrivata la guerra nelle Falkland. E in due settimane, quel movimento pacifista così potente è crollato. Allo scoppiare della guerra c’è stato un silenzio terrificante, e noi eravamo una delle poche voci ancora disposte ad alzarsi. Ci sentivamo molto soli, impauriti e perduti, a dirti la verità. L’unica risposta era l’azione diretta, che per noi significava andare in studio domani e registrare velocemente un’invettiva incazzata sulla situazione. Ovviamente c’era anche altro, come il nascente Stop The City. Ma bisognava agire velocemente. Per noi, insomma, era stato un fallimento, non solo perché avevamo pubblicato un disco che non parlava della gravissima situazione di quel momento, ma perché l’intero movimento si era fatto prendere dalla paura.

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Crass, fotografia di Tony Mottram

Qua in Italia, si potrebbe dire che la sinistra parlamentare abbia in diverse occasioni azzoppato la vera opposizione al governo di destra più di quanto abbia fatto la destra stessa. Pensi che sia successa la stessa cosa durante il governo di Margaret Thatcher e la guerra nelle Falkland?
Non direi: il silenzio era assoluto, anche negli ambienti radicali. Certo, si potrebbe dire che la sinistra è sempre stata un ostacolo per il pensiero rivoluzionario in questo paese, nel corso dell’ultimo secolo. Sono stati dalla parte dell’oppressione più o meno sempre. Quello che manca a tutti i politici, e a tutta la politica, è l’immaginazione. Non puoi avere immaginazione e allo stesso tempo tenere in piedi un sistema. È come cercare di costruire una banana a partire da un’automobile, non funziona. Quindi non si può fare la rivoluzione con la politica, ma solo a partire dalla cultura. Per questo io credo profondamente nella rivoluzione culturale. Dada, beat, esistenzialismo francese, rinascimento italiano: queste cose hanno avuto un profondo effetto su come viviamo oggi. Queste erano rivoluzioni, nel bene o nel male. Gli interessi economici e aziendalisti della politica di oggi non hanno alcun effetto sui nostri pensieri, sulle nostre credenze o sulle nostre aspirazioni. La cosa che mi ha sempre dato fastidio della sinistra è che, molto più della destra, crede di parlare con la voce della ragione. E se c’è una cosa che è controrivoluzionaria è la ragione.

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Già che siamo sull’argomento, che idea ti sei fatto dell’ascesa delle destre in Europa?
Non la chiamerei tanto “ascesa delle destre”, quanto “declino delle sinistre”. La sinistra si è dimostrata sterile: non riesce a operare all’interno del paradigma capitalista. Né è disposta a tentare di cambiare davvero, perché il vero cambiamento è una cosa che va molto oltre l’immaginazione di Jeremy Corbin. Non vedo un’ascesa della destra, quindi, ma semmai un fallimento, un fallimento miserabile della sinistra. È per questo che c’è così tanto sconforto, così tanta rabbia, così tanta insicurezza. Non guardiamo ai politici, guardiamo a noi stessi. Perché non sappiamo che cosa fare. La Brexit è un classico esempio di un caos imprevisto e terrificante. Nessuno sa che cosa stia succedendo né cosa fare al riguardo. Nel frattempo c’è un vero senso di insicurezza, evidenziato da un aumento di violenza insensata. C’è un’energia negativa nell’aria, che è dovuta al fatto che la gente è completamente dipendente da un governo efficiente, e gli ordini che sta ricevendo non stanno funzionando. Bel lavoro. Non sono preoccupato della crescita della destra, né in Europa né nel mio paese; quello che mi preoccupa è la mancanza di visione di quella che è storicamente l’opposizione alla destra. Penso che ci siano persone che stanno guardando a nuove conquiste creative che potranno fare da base culturale per un futuro migliore, ma i politici non possono avere nulla a che fare con tutto questo. Cercare risposte nella sinistra è una perdita di tempo, non c’è una sinistra. È finita.

Penso che per sfuggire al clima tossico di oggi la vostra soluzione, quella di una comune basata su principi anarco-individualisti, sia probabilmente la migliore. Ma per seguirla bisogna rinunciare alla visibilità, a tutti quei meccanismi che ci fanno sentire qualcuno nella società odierna.
Più che di visibilità, io parlerei di ego. Bisogna rinunciare all’ego. L’ego è un costrutto, che noi creiamo ma a cui permettiamo di controllarci. Il mio approccio all’individualismo non si basa su “penso dunque sono”; al contrario, se proprio dovessi usare quel tipo di formula direi “io penso quindi noi siamo”. Ma non mi serve farlo, perché siamo in ogni caso, e che io pensi o meno non fa alcuna differenza. Io credo che noi siamo un’unità simbiotica, che ci piaccia o no, siamo parte di un organismo chiamato Pianeta Terra. La coscienza non ha nulla a che fare con questa roba. La razionalizzazione serve solo a trovare un significato in qualcosa che è totalmente e palesemente senza significato, dare forma a qualcosa che è soltanto il vuoto. È qui che entra in gioco l’illusione cartesiana, “penso dunque sono”. Nel frattempo, il mondo è in pace. Siamo noi a portare la confusione, ma il mondo non ne è disturbato. Il mondo non ha paura di nulla. Al mondo non importa del cambiamento climatico. Ci piace pensare che ci siano un significato e uno scopo in ogni cosa, ma non ci sono.

Quante volte dobbiamo sentirci dire che il mondo è un posto terribile? Non è vero, non lo è! Per come la vedo io, i problemi iniziano quando qualcuno indossa un’uniforme. Ho viaggiato non proprio dappertutto, ma sono stato in tanti posti diversi: dovunque andassi sono stato felice, mi è stato offerto cibo, compagnia, amicizia e amore. Le uniche volte che non avveniva era perché c’era qualcuno con un’uniforme addosso.

Che cosa ne pensi della recente teoria del realismo capitalista? L’idea per cui a questo punto un mondo senza capitalismo sia del tutto inimmaginabile? La risposta, che mi è stata spiegata da amici più intelligenti di me, sembra essere semplicemente: tutto è immaginabile. Molla quel cazzo di telefonino e immagina e agisci di conseguenza.
Ma non bisogna nemmeno fregarsi da soli. Qualunque cosa tu creda, devi guardare quali sono i suoi problemi e chiederti: “posso accettarli?” E se li puoi accettare, perfetto. Poi alcune cose le abbandoni naturalmente, senza imposizione. Io per esempio da quando ho avuto l’infarto ho gradualmente smesso con la nicotina. Non volevo farlo, mi piace fumare. Ma il mio corpo non l’accetta più. Penso che si chiami “crescere”. L’importante è che tu conosca le implicazioni delle tue scelte. Vuoi mangiare una vacca a settimana e guidare l’auto tutti i giorni? Benissimo. Ma sii a tuo agio con le conseguenze. Protestare contro l’industria della carne non serve. Sai come si fa a convincere la gente a diventare vegan? Gli si offre un pasto vegan buonissimo. C’è troppa negatività nei movimenti bohémien. Ti ricordi come funzionava la moda nel periodo punk? Era terribile, appositamente brutta. Perché? È bello essere belli! I fiori non hanno paura di essere belli, perché dovremmo avercela noi? Solo perché abbiamo una coscienza? Siamo stati costretti a fare nostre così tante stronzate negative: è ora di fare un po’ di ordine. Piano piano, liberati dei pesi morti e ti troverai con una cosa… bella! Penso che più ci si avvicina alla bellezza, più ci si avvicina alla fine della sofferenza. E questo si manifesta nell’arte e nella creatività. Cose che catturino e meraviglino lo spirito umano, questo cerco io.

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Crass, fotografia di Tony Mottram

Ultima domanda per l’ultimo disco dei Crass, Ten Notes on a Summer’s Day.
L’ho appena rimasterizzato, ora finalmente suona esattamente come volevo. Credo che sia stato il modo migliore per chiudere l’esperienza della band. È stato un progetto molto intimo per me, non volevo finirla senza un messaggio personale. Il testo parla della mia esperienza nella band, dei nostri successi e dei nostri fallimenti. Ci tengo molto. È anche il meno venduto di tutti, in pochi l’hanno capito.

È un disco davvero strano. L’unico paragone che riesco a trovare è in un altro vostro disco, Yes Sir I Will, che ne rappresenta un po’ il lato oscuro.
In entrambi i casi si trattava di miei progetti, a cui ovviamente il resto del gruppo ha contribuito, ma l’idea di base era mia. Il paragone con Yes Sir è perfetto, devo dire: sono due lati di una stessa medaglia avant-garde. Parlano più o meno la stessa lingua ed entrambi hanno un punto di vista molto personale. La genesi di Yes Sir risiede nel terrore della guerra. Una sera sono andato a letto, il conflitto delle Falkland minacciava di estendersi a tutto il mondo, e c’era Eve nel mio letto che piangeva, così le ho detto: “Che succede?” E lei ha risposto: “Ho paura”. Io ho chiesto: “Di cosa?” E lei: “Dell’America e della Russia, di quello che sta succedendo”. E lì ho pensato che è proprio così che vincono. La guerra esiste solo se c’è la paura. La paura è il vero prodotto della guerra, e serve a tenerci sotto controllo. Siamo controllabili perché abbiamo paura. Mi ha dato un tale fastidio vederla così impaurita! Dopo tutti gli anni passati a dire “Non c’è alcuna autorità a parte te” eccetera eccetera, mi spezzava il cuore vedere una persona vicina a me così colpita da questi fatti. La nostra forza, o la forza che pensavamo di avere, non bastava. E in quel momento preciso sono uscito dalla camera da letto, sono tornato da basso e ho scritto il testo di Yes Sir I Will. Quindi la rabbia di Yes Sir I Will non è politica, ma personale. Era per dire: “Fottuti bastardi! State rovinando ogni piccola cosa buona e bella. Lasciatemi in pace!” Ecco di che cosa parlava. Ne vado molto orgoglioso. Ten Notes è un tipo diverso di urlo. Yes Sir era un urlo dalla testa, Ten Notes un canto dal cuore. Giacomo è su Instagram. Segui Noisey su Instagram, Twitter e Facebook.

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