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Musica

Come Netflix ha rivoluzionato il ruolo delle colonne sonore

Il colosso americano di streaming ha dato dimostrazione di possedere non solo le migliori serie, ma anche le migliori musiche.
GC
London, GB

Dall'autunno 2015, quando sbarcò sui nostri portatili per condannarci a una vita di consapevole sedentarietà - fatta di maratone sul divano e notti in bianco per non incappare negli spoiler degli amici nerd su Facebook - il portale ha cambiato progressivamente la percezione di quello che una prodotto seriale può rappresentare per lo spettatore. Specie attraverso i contenuti originali, che hanno alzato gli standard di qualità di un'industria televisiva ripetitiva e stantia, abbiamo recentemente assistito ad un nuovo cambio delle regole proveniente dal digitale, non solo per quel che riguarda regia, storie e cast. Le colonne sonore più riuscite e le sorprese che il bringe-watching di Netflix ci ha fatto conoscere o riscoprire, attraverso le sue storie, sono diventate protagoniste quasi al pari dei pluripremiati show della piattaforma.

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Alzi la mano chi non si è trovato a canticchiare per giornate intere "soy el fuego que arde tu piel, soy el agua que mata tu sed", appena fatto partire un episodio di Narcos (esempio pratico per cui il tasto skip che appare nei titoli di apertura è diventato quasi superfluo: vogliamo ascoltarla tutta, impararla a memoria e cantarla a squarciagola sotto la doccia). Rodrigo Amarante, cantautore brasiliano scelto dal regista José Padilha per scrivere la sigla originale, ha immaginato inizialmente una ballata d'amore che avrebbe potuto cantare Hermilda, madre di Pablo Escobar (Wagner Moura), mentre si prendeva minuziosamente cura del figlio durante un'infanzia non facile, prima che diventasse l'uomo di casa.

La prima impressione che suscita è invece quella di un'espressione estrema di narcisismo: essere tutto ciò che ogni comune mortale sogna di poter essere, realizzare ogni piacere, essere il piacere (chiaro riferimento all'indole del protagonista). Pablo la canta alla moglie, durante il primo episodio, ma i versi di "Tuyo" suonerebbero bene anche per descrivere l'estrema, ricambiata affezione dello stesso patron per la madre, una condizione che vedremo persistere morbosamente, nonostante si assista alle gesta di uno dei personaggi più pericolosi al mondo. Diverse chiavi di lettura, ma un effetto ipnotico assicurato, che crea dipendenza. Curiosità: Escobar chiama "Tuyo" un cantante di mariachi, ancora una volta nell'episodio pilota, un piccolo riferimento nascosto inserito ad hoc da quei burloni degli sceneggiatori.

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Un'altra serie che ha guadagnato posizioni (e una dozzina di premi, oltretutto) nelle gerarchie degli originali Netflix è certamente Master of None. Lo show, ideato da Aziz Ansari (che ne è anche il protagonista) e Alan Yang, ha avuto dal punto di vista sonoro la supervisione di Zach Cowie, che a stretto contatto con Ansari ha creato una combinazione di originali selezioni per accompagnare le vicende di Dev, Arnold e compagnia tra New York City e l'Italia. Per quanto la colonna sonora non sia stata composta da zero appositamente, già dalla prima ora di MON ascoltiamo alternarsi "Come To Daddy" di Aphex Twin con "Burning Airlines Give You So Much More" di Brian Eno, mica male. Nel corso della stagione avranno spazio sia i classicissimi Bobby McFerrin e Spandau Ballet che John Carpenter, Giorgio Moroder e Todd Terje, tra leggerezza e fancazzismo, vita vera e sindrome di Peter Pan, uno spaccato della società odierna attorno a cui ruota lo script.

La seconda stagione ha ulteriormente alzato l'asticella, basti pensare che è stato scomodato persino Battisti: "Amarsi Un Po'" (che dà anche il titolo al penultimo episodio), non era mai stata licenziata fuori dall'Italia. Solo un lavoro forsennato da parte del team di supervisori, unito alla profonda infatuazione di Ansari per l'Italia, ha portato dopo sei mesi di travaglio alla tanto agognata concessione del brano. Nel resto della serie—peraltro ambientata in parte proprio nel nostro Paese—ci imbattiamo in continui riferimenti alla musica nostrana degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta: Ennio Morricone, Sergio Endrigo, Edoardo Vianello, Mina (che figura nella stampa vinilica della colonna sonora con due brani) creano un revival di alcune delle figure più influenti della nostra canzone. C'è persino un tributo a David Mancuso e il leggendario The Loft, a Lerry Levan, il Paradise Garage e la disco music della New York di fine anni Settanta, cosa chiedere di più? Il music supervisor Cowie, peraltro, nel tempo libero fa il DJ con Elijah Wood, con cui ha formato il duo Wooden Wisdom. Avete capito il personaggio?

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Arrivati a questo punto, come non citare la genesi musicale della serie che ha fatto rinnamorare follemente tutti degli anni Ottanta e del loro mondo. Avrete già capito da soli, ma ad ogni modo sì, chiaramente si parla di Stranger Things. I Duffer Brothers erano fan del collettivo S U R V I V E già dalla prima ora. Avevano ascoltato delle vecchie demo, materiale dei primi LP impregnati di synth-wave e riferimenti marcati a Froese, Carpenter, Tangerine Dream e Vangelis. Kyle Dixon e Michael Stein furono scelti per scrivere la colonna sonora originale, quando lo show venne scritturato da Netflix, creando un inatteso quanto riuscito revival nostalgico dell'elettronica anni Ottanta. Ciò che più ha sorpreso del risultato della soundtrack è che i SU R V I V E, attualmente, sono ricercati per interviste, eventi e tutto quanto sia collaterale al mondo di ST, al pari di attori e creatori della serie. Prima dell'uscita dei trailer ufficiali della seconda stagione, la rete è stata invasa da articoli che hanno incensato in qualsiasi salsa il loro stile musicale, capace di dare un contributo decisivo alla sorprendente riuscita dello show, conditi da curiosità spasmodica su quanto saranno capaci di inventarsi per il prossimo capitolo. L'uscita di un doppio LP con lo score integrale, come successo per Master of None, è stata praticamente una formalità, vista l'accoglienza per quella che è stata la rivelazione assoluta dello scorso anno (se leggete nel presente, agosto 2017, è in odore di Emmys dopo aver già sbancato al Golden Globe).

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I magnifici anni Ottanta sono un elemento ricorrente nella mente dei creativi di Netflix, probabilmente più di quanto ce ne fossimo resi conto. GLOW, ambientata nel mondo del wrestling femminile di quella decade, ne è giustificatamente imbottita. Le scelte sono dei ricercati anti-cliché: ad accompagnare Billy Joel, Tears for Fears, Gary Numan, tra i nomi necessari che figurano, ci sono scelte di nicchia mica da ridere. Tra i più amati episodi di Black Mirror, anche "San Junipero" catalizza nuovamente l'attenzione su quella fascia temporale. Difficile non farci caso, d'altronde, quando l'eterna "Heaven is a Place on Earth" di Belinda Carlisle apre il sipario (e riapparirà nei titoli di coda del controverso finale). E indovinate un po' quale colonna sonora della serie è stata stampata a grande richiesta? Proprio quella scritta da Clint Mansell per l'eterna estate da sogno in riva al mare, dove Yorkie e Kelly si incontrano.

Nonostante la serie britannica non sia nativa della piattaforma, la terza stagione ha visto consacrare lo show proprio grazie all'acquisizione nel proprio catalogo da parte di Netflix. Charlie Brooker, mente del distopico universo della dark-fiction, ha inoltre ammesso che tramite alcuni espedienti di sceneggiatura molti avvenimenti della serie sono in qualche modo connessi. E anche qui, la musica torna ad avere un ruolo centrale: "Anyone Who Knows What Love Is (Will Understand)", brano anni Sessanta di Irma Thomas, appare nella prima stagione in "Fifteen Million Merits", cantata da Abi nella sua esibizione per Hot Shots, una sorta di X-Factor che libererebbe dalla schiavitù i personaggi coinvolti nella folle routine quotidiana della cyclette. Farà ritorno in "White Christmas" - capitolo speciale della seconda - nella scena del karaoke in cui canta Beth, per diventare definitivamente uno dei pezzi più cliccati in rete dagli accaniti series addicted.

In The OA la ricerca si sposta in modo altrettanto interessante nella scena contemporanea, tra sperimentale e ambient, perle di Nils Frahm, Ben Frost e Chilly Gonzales fanno da sfondo alle vicende di Prairie Johnson. In Love c'è spazio anche per elettronica, trap e future house, da Flume a Jamie xx, Wiley e persino Chance The Rapper. Tanta ricerca e tanta varietà anche in Orange is the New Black: si va dai Sigur Rós a Patti Smith, da brani anni '20 di Jack Whisper a "Milkshake" di Kelis. La ciliegina finale, recentemente, è stato il lavoro fatto in 13 Reasons Why: per quanto anche in questo caso non si tratti di una soundtrack originale, è il risultato di azzeccate opzioni pescate dagli addetti ai lavori, ricche di artisti da scoprire (Lord Huron, Colin & Caroline), classici senza tempo ("Love Will Tear Us Apart" dei Joy Division, cornice del finale) e influenze dalla scena attuale (Washed Out, Chromatics).

Netflix sta dimostrando di avere un team che lavora bene in molte delle sfumature che il cinema, pian piano, ha messo da parte a favore di forzata spettacolarità e cachet ridondanti non sempre giustificati. Nella cura ai dettagli (e la colonna sonora, a dirla tutta, non dovrebbe essere confinata a tale ruolo, neanche per il grande schermo), dalle parti di Los Gatos hanno raggiunto una maturità e un intuito particolarmente chiaro, che sta riportando quella piacevole sensazione di associare le immagini di una storia a della buona musica che ne racconti le emozioni.

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