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Cosa ho imparato sulla vita e l'amore osservando mio nonno perdere completamente la memoria

Non ho pianto come pensavo, quando mio nonno non mi ha riconosciuta a causa della demenza, perché col tempo mi ero semplicemente abituata all'idea che un giorno sarebbe successo.
Lauren O'Neill
London, GB

Illustrazione di

Dan Evans

La prima volta che mio nonno non mi ha riconosciuta non è stata brutta come me la immaginavo. Mi ha salutato affettuosamente come sempre, ma non mi ha chiamato "Lauren" o "cara". Mi ha chiamato "giovanotta." "Ciao giovanotta," mi ha detto con quel suo tenace accento dublinese che anni di Inghilterra non sono riusciti a scalfire. "Come va?" Mi guardava degli occhi, ma non sapeva chi fossi.

Quando gli è stata diagnosticata la demenza, la mia prima, egoistica reazione è stata piuttosto prevedibile: avevo paura che si dimenticasse chi sono. Ma quando quel momento è arrivato, è arrivato e basta, proprio come fa la demenza: sommessamente, senza troppa fanfara. Fa scivolare le sue sottilissime dita invisibili attorno alla gola di chi ne soffre, per poi stringerle intorno al suo essere con una tale lentezza che all'inizio non te ne accorgi nemmeno. Non ho pianto come pensavo, quando mio nonno non mi ha riconosciuta, perché col tempo mi ero semplicemente abituata all'idea che un giorno sarebbe successo. Quando una persona che ti è vicina soffre di demenza, non devi far altro che rassegnarti alla semplice realtà della degenerazione. È una cosa terribile a cui "abituarsi", ma al momento la cura non esiste, e farci l'abitudine è l'unica via––se non vuoi essere risucchiato in una spirale esistenziale che ti porta a rimuginare all'infinito sulla crudeltà, la fragilità e la futilità della vita umana.

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Non voglio fare la cinica. So che se mio nonno leggesse quello che sto scrivendo si troverebbe in disaccordo sull'ultima parte: per lui, quando stava bene, la vita era tutto fuorché futile. Era cattolico praticante, e in generale gli piaceva stare al mondo. Ha passato gran parte della sua vita a gestire pub a Birmingham, e quando è andato in pensione, lui e mia nonna (che adorava, e che ora quasi ogni giorno passa una discreta quantità di tempo sui mezzi per andare a trovarlo alla casa di riposo, con una dedizione che solo una donna innamorata da cinquant'anni può raccogliere) si sono fatti un sacco di crociere––di quelle per anziani, dove ci sono le pareti per scalare direttamente sulla nave. Era spiritoso, bravissimo nei calcoli a mente, e gli piaceva cantare le canzoni dell'IRA e bere Guinness. Non si può dire che non se la sia passata bene, soprattutto negli anni della vecchiaia.

Così, quando ha iniziato a dimenticarsi le cose, e quando la sua verve ha cominciato a sbiadire, nessuno ha dato eccessivo peso alla cosa, perché proprio non era il tipo da demenza. Era troppo robusto, troppo in salute nonostante la sua età, così diverso da quel tipo di anziano fragile a cui solitamente associamo la demenza––insomma, stava solo invecchiando. E anche dopo un grave episodio dissociativo che ha avuto in vacanza in Spagna, quando era convinto di essere su un pullman carico di terroristi e aveva detto alla receptionist dell'hotel che la nonna voleva ucciderlo, la diagnosi del suo medico era stata "esaurimento nervoso". C'è voluto un po' perché iniziassero a considerare la possibilità di una malattia degenerativa, perché il nonno non era il tipo di persona da avere una cosa del genere. Ne era convinto persino il medico.

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Ma ovviamente era quel tipo di persona, perché chiunque può esserlo. La demenza può capitare a chiunque, indipendentemente dal proprio stato di salute, anche se c'è chi è più predisposto di altri a livello genetico. È causata da una serie di cose piuttosto complicate, spaventose e dai nomi intricati che avvengono nel cervello, e ha dei sintomi molto brutti. In generale, diventi sempre meno in grado di provvedere a te stesso, e semplici azioni quotidiane come andare in bagno e vestirsi si trasformano in missioni che richiedono la stessa quantità di sforzi e persone che richiederebbe un allunaggio. Perdi la memoria, dimentichi certe parole. E alla fine ti dimentichi anche come si cammina e sei costretto a letto. Dopodiché il tuo sistema immunitario smette di funzionare, e quando succede è praticamente finita. Demenza, uno; tu, prossimo allo zero.

Non avevo mai considerato la possibilità di avere a che fare con questi sintomi, perché i miei nonni, quelli con cui sono cresciuta, sembravano sempre così giovani. Dal mio punto di vista le malattie degenerative erano certamente una cosa orribile, ma le percepivo lontane, come le notizie di una guerra al telegiornale. Prima che mio nonno si ammalasse, il mio rapporto con la demenza si limitava a un prozio che non conoscevo bene e che era morto inaspettatamente giovane di Alzheimer. Ma dopo quell'incidente in Spagna, le mani lunghe e sottili della demenza hanno cominciato a stringere la presa su mio nonno. Avevo 18 anni, ed ero appena tornata a casa dopo la fine del primo semestre di università per ritrovarmi in una situazione in cui la gente faceva i turni per dormire perché il nonno aveva preso l'abitudine di alzarsi in piena notte e girare per casa fino all'alba, con la confusione che gli occupava la testa.

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È difficile abituarsi all'idea che la persona che ti ha cresciuto abbia un costante bisogno di essere aiutata e sorvegliata. Ed è ancora più difficile dover essere una delle persone incaricate di aiutare e sorvegliare. Mio nonno è stato una presenza importantissima nella mia vita—ho vissuto a casa sua per diversi periodi della mia vita (anche adesso sono da lui), mi ha letteralmente tirato su. Sono le cose apparentemente più insignificanti e strane quelle che mi ricordo meglio, come quando mi faceva guardare i giochi alla tv insieme a lui perché imparassi a scrivere, o quando mi prendeva in spalla nel tragitto da scuola a casa. Tamponare l'angolo della bocca di una persona con un tovagliolo di carta dopo che ha bevuto il tè è difficile, quando sai che era quella stessa persona a pulire il tuo rigurgito. Perché tu dipendevi da loro, e ora loro dipendono da te. È la vita, e sono cose che succedono, ma non è tutto profondamente triste?

Si stima che nel Regno Unito ci siano circa 850.000 persone affette da demenza, e il numero è destinato a raggiungere il milione entro il 2025. Questo significa che probabilmente molte delle persone che leggeranno questo articolo hanno avuto esperienze dirette. Eppure non se ne parla, e penso sia perché è una malattia che ci costringe ad affrontare le nostre paure più umane—come perdere la dignità, o diventare un fardello per le persone che ami, o addirittura non sapere più chi o cosa sei. Perché fondamentalmente è l'ego ciò che ci rende umani, e la demenza si prende tutta quell'individualità profondamente umana, un poco alla volta. La triste immensità di questa cosa fa una paura boia; quindi non è affatto una sorpresa, se non vogliamo parlare di una malattia che potrebbe masticarci come se fossimo dei pezzi di carne dura, per un tempo lunghissimo, fino a inghiottirci per sempre.

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Prima di soccombere, quelli che hanno la sfortuna di finire i propri giorni con la demenza vengono portati in casa di riposo, perché hanno bisogno di un'assistenza specifica e costante che molte famiglie non possono offrire. Le case di riposo non sono il posto preferito di nessuno, e mio nonno, nonostante gli interni di un violetto allegro di quella in cui sta ora, non fa eccezione. Nei corridoi la tristezza aleggia come fosse umidità: non è mai soffocante, ma sempre palpabile. Si aggrappa alle tende, ai muri, ai pavimenti di laminato appiccicoso, alle persone. Il personale, per lo più femminile e di età varia, fa il suo meglio a dispetto dello scarso stipendio, e mentre va da un corridoio all'altro si ferma a parlare con quei pazienti di cui ormai conosce a menadito la storia, le abitudini e le idiosincrasie. Nella sala comune le poltrone sono alte e con lo schienale dritto per facilitare la postura; le camere sono grandi, pratiche e beige.

Le pareti della camera di mio nonno sono ricoperte dalle foto di membri della famiglia che per la maggior parte non è in grado di riconoscere. Sa chi è mia nonna per il suono della sua voce, e anche in quel caso tutto dipende da visita a visita. Ma ci sono ancora dei giorni "sì", quando il suo corpo sprigiona piccoli raggi di umanità gioiosa. Quando il personale o le visite dei parenti lo mettono nella condizione favorevole, si riesce a intravedere quel poco che la malattia non è riuscita a portargli via. Quando sente la musica sembra risvegliarsi, e gli piace ancora cantare; balla e gioca a pallone, riceve le visite del prete e prega insieme a lui. È bello vederlo quando è così. Ma ci sono anche i giorni "no". Può essere arrabbiato e nervoso, o entrambe le cose. In quei giorni il suo passato da gestore di pub lo tormenta, e la sua mente annebbiata si fissa coi soldi e il lavoro. Se non si sente dire quello che vuole, la sua aggressività può durare per giorni. Cambia di umore in un attimo, e quando vado a trovarlo non so mai quale versione di lui c'è ad aspettarmi quel giorno.

Ma non sono l'unica a sentirsi così. Penso che molti di quelli che hanno a che farci tutti i giorni non si aspettassero una cosa del genere. Perché nessuno se l'aspetta—prima di ritrovarti a conviverci è una cosa lontana che diventa grande e spaventosa quando ci pensi troppo, e che ogni tanto si vede in tv, quando serve dare consistenza a un personaggio avanti con gli anni. Nessuno si aspetta la demenza, perché pensiamo di conoscere troppo bene i nostri cari; pensiamo che i tratti del loro carattere siano indelebili, e le loro personalità troppo forti. Quando arriva, lo fa senza annunciarsi; guadagna terreno silenziosamente, pronta al grande furto.

E la cosa ironica è che, per quanto inaspettata possa essere, sai immediatamente come sarà la tua vita da quel giorno. La distanza di cui godeva quella malattia nella tua mente si fa improvvisamente minima, e ciò che inizia come paura e incertezza diventa rassegnazione e pragmatismo. Impari a convivere con la malattia perché vuoi bene alla persona che si sta portando via, e alla fine accetti il fatto che non ci saranno miglioramenti. In un modo o nell'altro, vai avanti. Ci fai l'abitudine.

Segui Lauren su Twitter: @hiyalauren