Cosmo vuole solo farti ballare

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Musica

Cosmo vuole solo farti ballare

Abbiamo intervistato Cosmo prima del suo ultimo concerto a Milano, e lui si è tatuato una porta MIDI sulla schiena di fronte a noi.

Tutte le fotografie sono di Vincenzo Ligresti. Questa è la storia di Cosmo, autore di uno dei pezzi di più grande successo radiofonico dell'estate 2016. Questa è la storia del frontman dei Drink To Me, gruppo post-punk degli anni 2000, fatta di centinaia di concerti in tutta Italia. Questa è la storia di Marco Bianchi, insegnante di storia, padre di due figli. È una storia sola che comprende tante vite, tanti avvenimenti, molta gavetta, molta sfiducia e un successo che arriva quando nessuno ci credeva più davvero, o perlomeno non il suo protagonista.
Lo abbiamo incontrato prima del penultimo concerto del tour (chiusura il giorno dopo nella sua Ivrea), una data ai Magazzini Generali sold out da tempo, che arriva dopo una doppia, anche quella sold out, a Roma. Marco e i due musicisti che girano con lui (Roberto, già nei Drink To Me, e Mattia), per festeggiare tutto questo, hanno deciso di farsi un tatuaggio celebrativo. Intanto io e lui parliamo di tutto: di figli, di provincia, di musica, di mostri, di droga, di soldi, di identità, di tutto. Arrivi da due date a Roma, come va?
Bene, bene. È un periodo che devo lottare con qualcosa alla gola che non so cosa sia, per cui mi sto trattenendo dal fare festa. Sto facendo proprio il professionista: non bevo perché l'alcol brucia, vado a dormire prima degli altri, 'sto giro ho preso il treno invece del furgone per poter dormire di più. Ma a parte questa roba va tutto davvero bene. Io non riesco a capire, a parte con la droga, come facciate a fare due date di fila come quelle di Roma e senza neanche un giorno di pausa arrivare e fare Milano.
Sotto fine anno ho fatto sei date in sette giorni, al sud Italia. Le fai, dopo un po' prendi il giro. Poi magari ti aiuti con altre robe, tipo il classico bastardissimo cortisone. Purtroppo devono ancora inventare la medicina definitiva per la gola. È la fine del tour e oggi tu e i due batteristi vi fate un tatuaggio celebrativo davanti al nostro fotografo: una porta Midi.
Questa cosa non la sa nessuno, ma ormai la possiamo dire. C'è questa cretinata che abbiamo inventato a inizio tour, una specie di canto prima di salire sul palco: ci mettiamo in cerchio saltando e uno di noi dice "chi siamo noi?" risposta: "I Cosmo!" E poi, "E cosa facciamo noi? Il musicone! E come lo facciamo? Col Midi!" Quindi una piccola porta Midi in mezzo alle spalle. È il mio primo tatuaggio. Volevo ricapitolare un po' da dove arrivi. Partire dai Drink To Me e quello che è stato il tuo percorso sin dall'inizio. Tu sei di Ivrea, ma la tua carriera musicale in qualche modo è cominciata a Torino?
Sì, diciamo che la prima piazza che mi interessava era quella, per noi da Ivrea se andavamo a suonare a Torino era già una cosa gigante. All'inizio abbiamo fatto tutte quelle solite robe tipo concorsi, inizio anni 2000, robe proprio inutili. Però ci servivano per muoverci, e abbiamo subito visto che avevamo qualcosa di diverso da tutte le band che facevano 'ste robe. Ci sentivamo veramente pesci fuor d'acqua: noi facevamo roba più post-punk, nevrotica, rumorosa. Ascoltavamo i Liars, gli Oneida, robe contaminate… Abbiamo anche ascoltato molto i Wire. Secondo me eravamo già un po' strambi, però abbiamo sempre mantenuto questa cosa di fare il cazzo che volevamo, e questo non ci ha fatto inserire subito nei giri, ci abbiamo messo un po'. Ha iniziato a muoversi qualcosa nel 2008 quando abbiamo fatto uscire il primo disco, e lì hanno iniziato a cagarci. Poi con Brazil il primo vero tour un po' intenso, settanta, ottanta date in giro per l'Italia. E Torino è stata la prima piazza.

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Ma tu sei sempre stato a Ivrea?
No, ho vissuto anche a Torino per l'università. Stavo un po' accollato dalla mia ragazza, e un po' in collegio anche. Non avevo i soldi per pagarmi l'affitto: avevo la borsa di studio e il collegio, nella mia famiglia non abbiamo mai avuto grosse disponibilità economiche, anzi. Periodi del cazzo: quegli anni lì i miei si erano separati, mia mamma era rimasta con dei debiti. Eravamo proprio a terra, completamente a terra. L'università l'ho affrontata anche lavoricchiando, per tirare su due soldi.

In cosa ti sei laureato?
Filosofia. Ho fatto il 3+2, tutt'e due. Perché avevo iniziato: per come son fatto io non potevo smettere, dovevo arrivare fino alla fine. Ci ho messo otto anni invece che cinque però l'ho fatto. Anche benino: 109. Che sembra uno scherzo! E poi sei andato a fare l'insegnante.
Ho lavorato subito, perché la preside di questa scuola di Ivrea mi conosceva, e voleva provare un ragazzo giovane, col mio carattere, per vedere di domare questi ragazzi del professionale, che erano classi belle toste. L'esperimento ha funzionato: io mi sono trovato subito bene, è stata una cosa forte. In quel periodo lì c'era il tour di Brazil e poi di S, in parallelo. I Drink To Me quindi li hai vissuti in parallelo all'università e all'inizio del lavoro come insegnante.
Esatto. Poi è successo che nel 2012, durante il tour di S, ci siam guardati in faccia e ci siamo detti"cazzo, certo che se fosse stato in italiano, forse…" C'è stato un hype intorno a quel disco molto forte, ma c'era qualcosa che mancava. E ho iniziato per scherzare, per esigenze mie, a scrivere robe in italiano (i primi due pezzi sono stati "Le cose più rare" e "Ho visto un dio"), e le facevo sentire agli altri. Un paio di loro erano restii "no, no, falle tu da solo, fatti le tue robe".  In contemporanea c'era la scuola, e la società che la gestiva: una partecipata parastatale che piglia appalti regionali per fare poi i corsi, sono aziende private che vivono di appalti. Alle spalle avevano una società che aveva fatto 18 milioni di euro di buco, quindi siamo rimasti senza stipendio tre mesi. Io ho lavorato tre mesi e poi ho detto stop perché non ero neanche coperto dal fondo di garanzia dell'INPS: abbiamo fatto le nostre lotte, proteste che non sono servite a un cazzo, e però intanto in quel periodo stavano venendo fuori i pezzi di Cosmo. Li ho fatti sentire alle etichette, tutti interessati, anche l'editore, mi son state fatte delle offerte economiche, e ho fatto il colpo di testa: "va bene, apro la partita IVA!". Dovevo comunque preventivare di avere certe entrate e di doverle gestire, quindi faccio la partita IVA col regime dei minimi, l'ho aperta, è uscito il primo disco di Cosmo, e… una bella attenzione, però non è stato quello che ci aspettavamo. Ci arriviamo. Tra i Drink To me e Cosmo un punto cruciale è stato il passaggio all'italiano.
E un'altra cosa: la produzione completamente in mano a me. Essendo una band, prima, magari ero io che tiravo le fila, però comunque ognuno dava il suo contributo. Io dovevo mediare, mi trovavo a mediare tra il batterista che storceva il naso quando proponevo un pattern… Spesso mi rendo conto che ho imposto delle cose, eh. Veramente il gruppo ha anche un po' risentito di questo. Era la prima volta che facevo tutto da solo: facevo una roba pop quanto volevo farla io, senza nessun tipo di remora, anche se quel disco veramente poi rispetto all'Ultima Festa sembra ancora sperimentale. Perché poi il pop lo sto sviluppando adesso, mi sto scrollando di dosso un sacco di pregiudizi. Il passaggio all'italiano all'inizio è stato un gioco per provare, perché ovviamente con l'inglese mi trovavo bene per le metriche facilissime da incastrare, monosillabi, superfacile. E, cazzo, poi mi son reso conto che in realtà riuscivo a esprimere delle robe diverse: c'era un modo di usare l'italiano che mi piaceva, mi intrippava. A qualcuno è piaciuto, insomma, però poi è con il disco nuovo che mi sono sbloccato. E adesso ancora di più, sto facendo un percorso cercando un linguaggio che sia il più possibile il mio, che sia esattamente come io mi esprimo nella realtà.

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Disordine esce nel 2013. E come va?
Disordine parte con grandi attese intorno, soprattutto tra gli addetti ai lavori. Mi avevano fatto offerte sia La Tempesta che 42 Records. La Sony si è subito fatta sotto per le edizioni. Come booking potevo scegliere tra Locusta e DNA, che anche lì erano il top. Quindi avevo detto "cazzo," mai trovato in 'sta situazione di essere non dico conteso, però di dover fare delle scelte. I media specializzati l'hanno subito amato. Quello che è mancato è il pubblico, me ne sono reso conto. Io poi ho investito anche sullo spettacolo: fare una roba particolare, che non aveva fatto mai nessuno, i coriandoli, le ballerine… Ci ho lavorato tanto. Poi parti e vedi che il tour va sì e no, e dici "cazzo qua siamo veramente soltanto una spanna sopra i Drink To Me", cioè… siamo lì. Quindi durante quel tour mi sono abbastanza non dico depresso, però ridimensionato. Ho detto "ma vaffanculo, non dovevo dar retta a chi mi diceva ah che figata, andrà bene, non è vero niente, alla fine lo decide il destino, le persone quando gli dai in pasto la musica ne fanno quello che vogliono loro". Quindi Disordine è andato sostanzialmente bene per essere un esordio, bene per aver dato un'identità al progetto, male secondo me dal punto di vista numerico. Poi, prima del secondo di Cosmo, è il momento dell'ultimo disco dei Drink To Me.
Per quel disco per la prima volta mi son sentito che non ce la facevo da solo, allora ho coinvolto Alessio Natalizia. E lui non vedeva l'ora di lavorare con noi. Ci siamo messi in mano a lui, e per me è stato importantissimo, perché mi ha anche dato l'input per L'Ultima festa. Mi ha veramente sdoganato la cassa dritta. Molto contaminata, molte sfaccettature, ma ce n'è molta in quel disco. Secondo me come produzione e come concept è il nostro miglior disco, il più maturo. Però non è andato bene come S. Forse era meno accattivante, meno immediato.
Sì. C'era comunque una nebbia strana intorno alle canzoni, lui ha questo modo di produrre molto minimale—cosa che volevamo, e mi piaceva: ha fatto cantare le voci tutte pianissimo, tutto un lavoro molto soft, mentre noi siamo sempre stati molto muscolari. Poi dal vivo li facevamo pestoni i pezzi.  Però non ha funzionato granché, come riscontri, e a quel punto io figurati come ho affrontato L'Ultima Festa. Dopo due dischi che per la prima volta… da tutta la vita per me era sempre andata in crescendo, pian piano ma crescendo. Poi qui si stabilizza e addirittura scende… Quando vedi la curva che scende dici "porca troia, non ne posso più". Dicevamo che arrivi all' Ultima Festa con uno spirito non esattamente positivo.
Demoralizzato, completamente demoralizzato. E non è un caso che il disco si chiami l'ultima festa.
Eh sì. In realtà poi mi sono accorto solo dopo un po' di tempo che io questa frase l'avevo sentita dire a Davide Panizza, Pop X, in un'intervista che gli abbiamo fatto io e Niccolò Contessa. Gli avevo chiesto come si viveva i concerti, se si sbronzava, e lui mi aveva risposto "io vivo i concerti sempre come se fossero l'ultima festa della mia vita". E 'sta frase mi aveva colpitissimo. Poi quando ho scelto il titolo neanche me lo ricordavo, mi è tornato in mente dopo. Per me era questa cosa della sfiducia totale. L'ultima cosa che ti sentivi di fare e poi potevi anche lasciar perdere con la musica.
Esatto. Ho detto "io mi sbatto adesso"—sbattimenti vuol dire anche tour de force sui tempi, non fare altri lavori perché dovevo chiudere il disco. Io non ho avuto entrate economiche da dicembre 2015 ad aprile 2016, inizio tour. Mi ha mantenuto mia moglie. Te lo giuro, son partito con l'intenzione di spaccare tutto ma sapendo già che non ce l'avrei fatta. Anche 'sta cosa delle radio, io non ci credevo. Mi dicevano "guarda che Deejay ti trasmetterà il pezzo", pare che la promozione radio stesse dando risultati… Quando poi è partito tutto ho iniziato a capire "ok, magari va un po' meglio dai". Però ero sempre tipo "la prossima settimana secondo me non lo trasmettono più". Cioè ero sempre così, non ci credevo a un cazzo di niente che andasse bene.  Però ho lavorato al disco con molta voglia, scoprendo che mi piace davvero farlo, che lo faccio perché mi piace. Poi che io non credessi di andare da nessuna parte è un altro discorso, ma l'ho fatto concentrandomi su quello che volevo fare. E ho usato molte tecniche che mi aveva insegnato Alessio: gli arpeggiatori, un certo modo di usare i synth, la cassa…

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È un disco composto tutto nello studio di casa.
Sì, sì, tutto in casa. L'esperienza con Alessio mi è servita tanto. Mi sono messo a produrre e ho cominciato a pensare "faccio la cazzo di cassa dritta". Nell'altro disco non c'è cassa dritta, è tutto molto spezzato, ritmiche più black miste a bordoni di synth che non sopportavo più. Avevo visto un sacco di difetti nell'altro disco, quindi ho detto: "adesso prima cosa basta con 'sti testi eterei filosofici che non si capisce un cazzo di cosa parlo, due basta con i synth fissi voooom, i bordoni che ti stordiscono e non muovono per niente il groove, e tre fare una cosa più danzereccia".  Perché avevo voglia di quello—ho iniziato ad ascoltare produzioni techno, volevo fare quella roba lì. Quindi ho affrontato tutto giocando in studio, divertendomi parecchio.  Anche sentendo un pezzo come "Le Voci" te ne accorgi, il gusto di fare una canzone con dentro un viaggione pazzo dentro, ci tornavo e ci aggiungevo roba, il divertimento dell'artigianato. E poi improvvisamente è arrivato il successo, per certi versi.
Non del tutto improvvisamente, è stato abbastanza graduale, un percorso: prima son partite le radio, in concomitanza al tour, e poi mi rendevo conto che tanta gente nuova mi stava scoprendo. Le radio hanno cominciato a smuovere, poi "L'Ultima Festa" è arrivata—minchia—in classifica. Già solo nella classifica di Deejay è stata al terzo posto per un bel po'. E loro mi han proprio spinto tanto, questa cosa qua ha smosso un pubblico che non era il mio pubblico e neanche il pubblico indie, per dire. Dai quarantenni nostalgici delle discoteche anni '90 ai bambini. Bambini, proprio, tanti bambini. Sta cosa mi fa volare: i bambini non hanno filtri, sentono se una roba li smuove e li piglia bene. Mi piace questa cosa: quello che volevo dalla musica era proprio comunicare a più gente possibile. Chi c'è in copertina del disco?
Mia madre. Quando aveva diciassette anni.

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Questo richiama anche il fatto che in questo disco c'è un autobiografismo totale.
C'era un po' anche nell'altro, ma era molto più astratto.

Secondo me entrambi i dischi hanno testi molto riflessivi, però forse in Disordine erano testi un po' più freak, un po' più Mogol di un certo Battisti…
Quasi Panella, qualcuno dice. Mentre già "Esistere", che chiudeva il disco, anticipava un po' la scrittura dell'Ultima Festa .
Bravo! È ottima questa osservazione. Io "Esistere" la faccio ancora dal vivo, ed è piena di punchline, frasi forti, cose molto concrete del mio vissuto, e per me è quella invecchiata meglio.  Quella è stata magari un po' una chiave per il disco successivo.
C'è anche il registro più basso della voce, non ho spinto, in qualche modo sì. Chiude il disco prima e apre per quello dopo.
Un caso eh, non potevo saperlo! Però è esattamente successo quello, sono andato più nel biografico, nella sincerità. Un pezzo come "Le Voci" è assolutamente uno che si siede lì e ti dice tutto quel cazzo che gli viene in mente a caso in quel momento.

In un pezzo fai anche due nomi, che sono i nomi dei tuoi figli?
Carlo e Pietro, sì. In "L'altro mondo": "Le commesse dietro a un vetro / L'aria calda/ Carlo e Pietro". Sto cercando sempre di più quel linguaggio lì: un misto, poetico anche, se vuoi, però il più possibile terra terra.  In questo autobiografismo rientra la tua vita privata che è fatta di una dimensione di provincia, che ti tiene un po' lontano dalle grandi città—il che, immagino, abbia i suoi pro e i suoi contro.
Il contro è che sei un po' fuori dai giri, ma quello è anche il pro. Mi perderei… Abitassi a Bologna non so come andrei a finire. Adesso sono in studio: sto bene a casa mia, sto bene a Ivrea, fuori dai giri. E preserva anche un po' il tuo stato psicofisico, in qualche modo.
Sì, alla fine ho capito dopo tempo che è un vantaggio. Una volta coi Drink To Me dicevamo che eravamo di Torino, per farti capire! "Che cazzo ne sanno di cos'è Ivrea?" Invece adesso lo ribadisco. Voglio fare la cosa assolutamente demenziale di fare il represent di Ivrea, che è una città che non si incula nessuno se non per la battaglia delle arance o per la Olivetti, quindi è un gioco. Però ci sono un sacco di cose preziose, come dappertutto, a volerlo vedere. Io ho un sacco di amici musicisti fighissimi a Ivrea che sono depressi dal contesto in cui si trovano. Mentre io ci ho lavorato tanto e ho sempre suonato ovunque anche coi Drink To Me. Invece ho tanti amici anche talentuosissimi, assolutamente geniali, che però non hanno voglia di sbattersi o non sanno neanche come muoversi. Bisogna fare The Sound of Ivrea, tipo The Sound of Rome di Lory D!

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Un'altra dimensione importante per te è stata quella dell'insegnamento.
Quest'anno ho detto di no. Sta andando troppo bene. Sapevo che mi arrivava un tour intenso, non avevo voglia di dividermi a metà il cervello come ho sempre fatto. Voglio focalizzarmi solo sulla musica, sta andando bene—non ti nascondo—anche economicamente, quindi. L'insegnante l'ho fatto per tre anni. Poi con il fallimento dell'azienda sono stato fermo e ho fatto solo il musicista per un paio di anni: produzioni varie, cose… Vissuto di merda, pochi soldi, però ci stavo dentro. Poi ho ripreso l'anno scorso e invece prima di 'sto tour zero, perché mi sono fermato e non ho avuto introiti: niente, disperazione proprio. Debiti, i nonni che mi prestavano i soldi… Io ho voluto restituirglieli poi ovviamente. Ho rimesso tutto a posto quest'anno. Mi sono anche comprato la camicia. E le collane d'oro non ancora?
I denti d'oro! Farebbe veramente ridere, eh. Nel rap appena uno fa quattro soldi deve ostentarlo in tutti i modi, nel mondo diciamo indie invece 'sta cosa proprio zero.
Io ho comprato strumenti! Ti posso dire quello che ho speso di strumenti. Poi a me non dà fastidio, e ognuno è libero di fare quel cazzo che vuole. È proprio un'impostazione molto diversa di comunicazione, rispetto a musicisti come me o Calcutta. Che poi se in un mondo fanno tutti così e in un altro fanno tutti cosà , non è neanche un discorso di singole personalità ma proprio di ambiente di riferimento.
Esatto! Ogni cazzo di ambiente ha i suoi codici: io infatti li rispetto, la multiculturalità ti insegna 'ste cose. Poi fanno una vita esattamente come me, non credo che facciano davvero la vita degli sceicchi, è immagine. Un altro elemento importante che ti riguarda è che esiste questa cosa di un tuo lato oscuro, che viene fuori un po' dai testi, dalla tua personalità , e un po' anche perché ti conosco. Ho sempre visto questa tua trasformazione post-concerto che nel giro di dieci minuti e due cocktail viene fuori… La bestia! C'è un po' questa dicotomia tra lavoro di studio e live, vita in famiglia e in tour, il padre-insegnante e il mostro post-concerto…
Sì. In realtà quello che sto facendo come percorso mio di vita è cercare di far combaciare sempre più le cose. Sto cercando di avvicinare il più possibile l'artista e la persona. Tipo, a mia moglie non ho mai nascosto il mio lato da bestia. Con i miei suoceri, per dire, che magari potevano avere certi pregiudizi, negli anni ho deciso di gettare la maschera: "sono uno sballone, son così". Poi tanto nelle cose che devo fare sono serio. E man mano ho scoperto anche che questa cosa mi mette con gli altri in un rapporto di sincerità. I miei suoceri per dire alla fine mi han preso in simpatia, mi hanno accettato. Alla fine con i bambini sei un papà che ci tiene, lavorare lavori, guadagni. Penso di non essere l'unica persona così fra sette miliardi, anzi, penso che siano tutti come me. Tutti abbiamo dentro delle spinte assolutamente incoerenti tra loro, contraddittorie. L'essere umano non è una cosa sola. L'identità è un'invenzione: la persona che sei è soltanto un costrutto tuo, della tua testa, dell'immagine che gli altri hanno di te. Quindi alla fine la mia tecnica è sgomitare a caso per creare un'identità che sia il più possibile confusa, che però corrisponda sempre di più al vero. Alla fine a me piace che le persone abbiano di fronte una persona che pensano stia dicendo la verità.

Parliamo un po' di musica. So che ultimamente ti sei fissato con Laraaji.
Sì, di brutto. L'ho anche campionato. Però ascolti anche cose meno raffinate.
Indubbiamente. Ascolto un po' a periodi, mi fisso con alcune cose. Sono impazzito al Club to Club per Motor City Drum Ensemble, non lo conoscevo, quindi poi ho ascoltato tanto le sue produzioni, soprattutto Raw Cuts . Anche il Dj-Kicks è fighissimo, ma le sue produzioni mi piacciono un casino. Adesso sto facendo un po' di ricerca su quel filone lì, sto cercando robe, consigli di amici: ho riscoperto Kassem Mosse, soprattutto Workshop 19, poi ho ascoltato tanto The Best di Omar S. Sto scoprendo un gusto per l'house un pochino più intelligente, questo è il trip che c'ho adesso. Infatti sul disco prossimo non so che direzione prenderò, se più techno o più house. Non una direzione più radiofonica?
Vorrei fare un disco che abbia quella forza. Due o tre punti per andare in radio, certo, e tutto il resto più libero. Ho capito che posso permettermi delle libertà, le persone ormai mi stanno identificando come uno che sta in un ambito suo: l'elettronica in cassa dritta cantata in italiano, mi son preso uno spazio che in realtà banalmente era vuoto. E mi rendo conto che all'interno di quella cornice io posso fare il cazzo che voglio: secondo me posso prendere tanta gente e farle fare il viaggetto con me. Mi sento che se mi limitassi a canzoni strofa e ritornello e basta, se facessi una cosa del genere, piatta, starei perdendo un'occasione. Finalmente ho l'occasione di fare quello che voglio, anche a livello di strutture, di invenzioni, trick, e lo devo fare. Non so se riuscirà l'esperimento. Io voglio fare pop, assolutamente, però voglio sempre più virarlo verso la cosa club… non so se riuscirò, appunto. Ma ci provo. Stavolta ci provo. Federico è su Twitter: @justthatsome
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