Smettila di crescere e leggi questa intervista con i Beach Slang

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Musica

Smettila di crescere e leggi questa intervista con i Beach Slang

James Alex Snyder non ha mai superato l'adolescenza e ci ha spiegato come ha fatto a non impazzire, facendo nel frattempo dell'ottimo college rock.

Cerchiamo di mettere subito in chiaro una cosa: l'adolescenza è una cosa terribilmente seria. Mi preme specificarlo dopo aver letto la recensione al disco di una delle band italiane più in voga del momento, i Thegiornalisti, pubblicata da una delle poche riviste di settore sopravvissute a queste latitudini—il Mucchio Selvaggio—che si apriva con la seguente frase: "una delle piaghe dilaganti di questo secondo decennio di anni 2000 è la tendenza di dimenticarsi che prima o poi bisognerebbe abbandonare l'adolescenza".

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Ecco, la prima cosa che ho provato ad immaginarmi, subito dopo aver esclamato dentro di me "che razza di cazzata è questa!", è stata come sarebbe stata la musica di una delle band indie rock più fighe del momento, i Beach Slang, se questa avesse rinunciato ad attingere a piene mani all'immaginario adolescenziale. Formatosi nel 2013 per volontà di James Alex Snyder—quarantaduenne affetto da sindrome di Peter Pan in precedenza leader di gruppi gravitanti attorno alla scena punk-rock di Philadelphia (Weston, Bethlehem,  Cordova Academy Glee Club)—i Beach Slang hanno incarnato fin dal loro debutto lo spirito selvaggio che contraddistingue i turbolenti anni della pubertà. Per darvi un'idea della sua trasparenza emotiva: quando eravamo andati a vedere i Beach Slang al Primavera, Snyder aveva dato il suo numero di cellulare dal palco offrendo il suo aiuto a chiunque si sentisse triste. Facendo leva sul motto Do It For the Kids e saccheggiando dall'eredità artistica lasciata ai posteri da band come Replacements, Goo Goo Dolls e Jawbreaker, la band di Philadelphia ha fatto del college rock dinamitardo un habitat per testi imbevuti in un'iconografia underground—romantica per quanto ribelle—capace di proiettare l'ascoltatore nella scena di un qualsiasi film di Larry Clark, o in certi scatti in bianco e nero di Ed Templeton.

Ecco quindi che, per tornare al discorso iniziale, se un bel giorno James Alex avesse deciso di "abbandonare l'adolescenza"  la scorsa settimana la sua band non sarebbe passata in Italia per presentare il suo ultimo album in studio, A Loud Bash of Teenage Feelings e, di conseguenza, questa intervista non sarebbe mai stata realizzata. Invece fortuna vuole che James di crescere e di rinunciare all'immaginario adolescenziale che permea tutta l'opera targata Beach Slang, dai testi agli artwork passando per i video, sembra non voglia proprio saperne. Così, cogliendo l'occasione dei due concerti italiani, siamo stati in grado di raggiungerlo per farci raccontare un attimo la sua esperienza finora, e come si fa a essere così dannatamente senza filtri nel tirar fuori le proprie fragilità.

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James, iniziamo dalla frase che apre l'ultimo album: "Play it tough, play it quiet, play me something that might save my life". Si riferisce a una canzone o a una band in particolare che ha veramente "salvato" o cambiato la tua vita?
Non saprei, direi che è semplicemente un messaggio d'amore nei confronti del rock'n'roll e della scena a cui ha dato forma. Per molto tempo ho fatto fatica ad adattarmi e ad accettare la realtà che mi circondava. Tutto a un tratto però, quando ho scoperto il rock'n'roll, tutto si è fatto più chiaro e ho capito a cosa appartenevo veramente. I testi hanno un ruolo fondamentale nella musica dei Beach Slang. Quando hai capito che la scrittura sarebbe stato lo strumento con il quale comunicare i tuoi pensieri?
La mia gioventù è stata caratterizzata da alti e bassi. Penso che la cosa che mi abbia aiutato a venirne fuori sia stata la scrittura. Sin da ragazzino scrivevo di tutto e di niente, ma nei miei scritti c'era sempre comunque qualcosa. Qualcosa da strappare da me stesso per poi ri-attaccare di nuovo insieme. Band come i Jawbreaker mi hanno fatto capire che la poesia poteva avere un senso anche se accompagnata da chitarre assordanti e violente. L'idea che ciò potesse essere al tempo stesso morbido e duro ha cambiato tutto. Per il tuo modo di scrivere, squisitamente iconografico, ti paragonerei a Larry Clark. Ti ritrovi in questa comparazione?
Cazzo amico, è un paragone che mi lusinga. Direi che narriamo lo stesso soggetto, e attingiamo alle stesse influenze, tra cui l'alienazione, la lussuria e la salvezza, questo sì. Quando scrivo, però, ad influenzarmi sono soprattutto certe fotografie di Joseph Szabo o i film di John Hughes. Da qualche parte, nel mezzo di tutto questo, trovo ciò che riesce davvero ad ispirarmi.

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Passiamo al tema principale delle vostre canzoni: l'adolescenza. Di recente ho letto una recensione che si apriva dicendo: "una delle piaghe dilaganti di questo secondo decennio degli anni 2000 è la tendenza a dimenticarsi che prima o poi bisognerebbe abbandonare l'adolescenza". Ho subito pensato a come sarebbe potuta essere la musica dei Beach Slang senza di essa. Che ci dici a riguardo?
Uno dei doni più belli che riceviamo come esseri umani è quello di essere capaci di modellare le proprie opinioni e prospettive. C'è libertà, nell'adolescenza. C'è meraviglia. C'è emozione. Non devi avere 17 anni per provare quel fervore. Hai presente quella frase di Bukowski sul vivere le nostre vite così bene al punto che la morte esiterà a prenderci? Beh, è proprio questo il punto. Vedi, la piaga più grande di questo secolo non è dimenticare come si esce dall'adolescenza, è essere convinti che si debba farlo. È dimenticare quanto sia importante rimanere attaccati alle cose che per la prima volta ti hanno fatto sentire vivo, che ti hanno agitato, che sembravano pericolose, che ti hanno scosso dall'emozione, che ti sfidavano ad andare avanti. La grande piaga di questo secolo è ascoltare coloro che sono giunti a compromessi con il proprio cuore e che ti hanno detto che avresti sbagliato seguendo il tuo.

Fotografia di Jessica Flynn.

A questo punto, ci dici come è stata la tua adolescenza?
Ero insopportabilmente introverso. Ho passato un sacco di tempo a cercare di trovare la mia strada, qualcosa a cui appartenere. Poi ho scoperto il punk rock e boom! Voglio dire, quando ho iniziato a fare i primi concerti, quella è diventata la mia vita. Tutto ciò che ho fatto dopo aveva a che fare con la musica. Se non erano concerti, era suonare la chitarra, fotocopiare zines o andare sullo skateboard. Sapevo di essere diventato un militare al servizio del punk. Penso che la forza dei Beach Slang sia quella di essere potenzialmente in grado di arrivare a tutti, dall'adolescente al quarantenne nostalgico.
Ti dirò, come prefazione a tutte le canzoni io scrivo: "For us, all of us". E lo intendo ogni volta. L'ego, la personalità, è una cosa strana. Personalmente non riesco mai ad essere in sintonia con loro. Posso però dire che tutto quello che il rock'n'roll mi ha regalato, tutte le stranezze, e le meravigliose persone che ho incontrato grazie ad esso lungo la strada hanno letteralmente salvato la mia vita. Spero possa essere così anche per chi ci ascolta. Mi parli degli artwork che accompagnano le vostre uscite, dato che te ne occupi personalmente? Quanto è importante la componente visuale per la vostra musica?
Prima di mettere su i Beach Slang volevo fare il graphic designer, e ad oggi continuo ad avere la passione per la grafica. Mi permette di staccare la spina dalla musica senza allontanarmi dalla creatività e, insieme al progetto Beach Slang, mi consente di completare la mia narrazione. La mia opera non si limita alle sole canzoni—comprende artwork, fotografie e poesie. Credo che tutto questo sia necessario, che tutto possa essere fonte di ispirazione., da Mary Ellen Mark a Craig Stecyk, passando per la California degli anni settanta agli Smiths.

Non pensi mai che i Beach Slang siano arrivati nel momento sbagliato? La vostra musica sembra strettamente legata agli anni 80-90, a band come Jawbreakers, Replacements, i primi Green Day, Weezer.
Se solo sapessi quante volte ho provato questa sensazione. Ma si deve andare avanti, d'altronde mi sono sempre sentito un outsider. Vivere e sentirmi fuori luogo per me è un bene. Che dire, a band come Replacements e ai Jawbreaker devo tutto. Paul Westerberg mi ha insegnato a comporre canzoni, Blake Schwarzenbach a scrivere i testi. Ed entrambe le loro band mi hanno fatto capire il motivo per cui questi due elementi sono così importanti. Come puoi immaginare il rock'n'roll mi ha aiutato a tornare a galla un sacco di volte. Ora che l'incubo è diventato realtà ci puoi dire, da americano, come ci si sente a vivere all'interno di questo mondo Trumpiano?
È terrificante. Non riuscirò mai a scusarmi abbastanza con il resto del mondo. Vi prego di capire che lui e tutto il suo pensiero assurdo e odioso non rappresentano gli Stati Uniti e le brave persone che ci vivono. Sappiate che noi continueremo a lottare finché la sua arroganza non sarà sconfitta. Non lasceremo che ci rovini.

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