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Il dottor Lambrettone, ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare lo sgombero

Perché lo sgombero del Lambretta a Milano potrebbe essere una cosa positiva.

A Milano questa settimana un’altra occupazione è finita con uno sgombero. Partiamo dal presupposto che, indipendentemente dal ripieno culturale con cui viene di volta in volta farcita, ogni occupazione di stabili vuole essere innanzitutto una denuncia dello strato di guano su cui viviamo, in questo caso a Milano, in Lombardia, e in secondo luogo una presa di posizione politica nei confronti del sistema che ci sta distanziando.

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La particolarità del caso Lambretta, però, è che ci siamo trovati in maniera lampante di fronte allo scontro diretto tra il dominio pubblico del territorio e il potere nascosto—non c’è nemmeno bisogno che vi racconti chi ha vinto, su carta. Solo che stavolta “vincere” contro i ragazzi del Lambretta non è convenuto alla Regione. Mi spiego meglio.

Per cominciare è abbastanza grottesco che, proprio ora che la giunta regionale si è sciolta e ricomposta in modo ridicolo, ora che i riflettori dovrebbero essere puntati sulla merda di cui si è circondato Formigoni, sui miliardi che i suoi collaboratori hanno speso in “voto di scambio” (ci ricordiamo che se la Regione Lombardia fosse un comune calabrese sarebbe sciolta, vero?), bene, proprio ora, magicamente, si ribaltano le carte in tavola e si inizia a puntare il dito sullo scandalo di illegalità del Lambretta.

Questo tempismo perfetto fa ridere, perché il provvedimento di Zambetti sembra un po’ il canto del cigno con cui lanciare le ultime disposizioni di "LEGALITÀ" prima di essere condannato. Io me lo immagino, mentre viene risucchiato nelle bolge infernali e con le forze rimastegli allunga la mano e scaglia il suo anatema contro un piccolo palazzo di via Apollodoro: "Voi cadrete con meeee". Al caro Zambetti si accodano le richieste disperate dell’azienda proprietaria delle villette occupate, l’Aler, che ha sollecitato più volte lo sgombero come se avesse già sottomano un piano di riqualificazione degli stabili e non vedesse l’ora di iniziare a lavorarci.

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Quello che non hanno calcolato è che sollevando la piccola pietra del Lambretta—che non dava veramente fastidio a nessuno, e anzi raccoglieva i favori di tutto il quartiere (il mio quartiere)—sono usciti allo scoperto diversi scheletri che stavano nell’armadio di Zambetti e di tutti i suoi compari di onestà, e che riguardano il triangolo amoroso tra la Regione, l’Aler e, tu guarda, la ‘ndrangheta.

A questa fortunata serie di coincidenze aggiungiamo l’arrivo del nuovo questore, Luigi Savina, che, appena insediatosi, ha colto la palla al balzo. Come ogni volta che il legislativo inciampa su se stesso, la bilancia è dal lato dell’esecutivo: così, Savina ha preso in mano la situazione rispondendo seccamente alla lettera aperta che il comune di Milano gli aveva inviato richiedendo di non procedere allo sgombero, proprio perché tale sgombero era stato ordinato da Zambetti, il quale si appigliava alla necessità di “ripristino della legalità” mentre poggiava il culo su un bel po’ di soldoni sporchi. Uno poi non se la deve prendere.

Detto ciò, a mio avviso lo sgombero ha anche un lato positivo. Non certo perché credo che altri sappiano fare migliore uso di quelle villette, quanto perché sembra che ci si accorga dell’utilità di uno spazio sociale come il Lambretta solo quando ne vengono lamierate le porte e divelti i sanitari. E in questo caso, l’atto dello sgombero è anche e sopratutto una bella zappata sui piedi che la regione si è tirata da sola, evidenziando le proprie contraddizioni e il modo paradossale con cui utilizza il termine “legalità”. Così facendo, ha portato alla luce alcune crepe tra la stessa e il comune di Milano, che pur contando diversi politici realmente illuminati e storicamente in grado di dialogare con altri tipi di forze politiche, soccombe ancora a giochi di potere maggiori.

E certo, è ovvio che occupare gli stabili è illegale, non servono molti giri di parole, ma probabilmente questa modalità di riacquisizione degli spazi arriva anche dall’esigenza di tornare alle basi della vita politica, iniziare dal basso, dal gesto materiale: scegliere un luogo, pulire, cucinare, lavorare, scoprire una convivenza con altre persone senza l'intermediazione intellettualistico-culturale che ha creato un vuoto fra la politica della polis e la politica dei politici. L’esigenza così forte di prendere e difendere spazi fisici è una richiesta perché ciò che è pubblico torni ad esserlo per davvero, in un modo quotidiano, semplice, personale. E questa è la piccola rivoluzione in cui ogni tanto credo. A quelle grandi non ci credo più. Penso che l’unica soluzione per non soccombere a quel vuoto sia agire, piantandola di scimmiottare vecchi modi logori di fare politica o idealistici di fare protesta, smetterla di distruggere col martello (ma pure coi fumogeni e con i cassonetti incendiati, su) e iniziare a raccogliere i pezzi e metterli al loro posto.
Poi, voilà, arrivati a quel punto, qualcuno ordina lo sgombero, ma io lo prendo come un allenamento. Quando saremo veramente pronti forse riusciremo a passare alla fase successiva, quella in cui hai la casa tutta in ordine e puoi iniziare a partorire nuove idee.

E credo anche che la sinistra italiana (non sono sicura che esista davvero, forse è solo una leggenda) dovrebbe rendersi conto del messaggio che viene lanciato da episodi come questo, e riconquistare un contatto con le basi che per ora c’è solo a singhiozzi e sbuffi sulla guancia. Altrimenti il rischio è che il rapporto fisico con le piazze diventi appannaggio di persone di questo genere.

Segui Virginia su Twitter: @Virginia_W_