Salute

"Non so se mi ha salvato o condannato" - com'è ricevere un Tso in Italia

Abbiamo parlato con tre persone che hanno ricevuto il Tso in Italia, e con chi crede che la legge 180 andrebbe rivista. 
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La procedura del Trattamento Sanitario Obbligatorio, regolata dalla legge 180 del 1978 (la cosiddetta “Legge Basaglia”), consiste in una serie di interventi sanitari che possono essere applicati coattivamente in casi di necessità e urgenza, per una durata limitata nel tempo. 

In pratica il paziente che rifiuta le cure viene prelevato—di solito dalla sua abitazione—e ricoverato per sette giorni, rinnovabili. I Tso possono essere disposti per qualsiasi causa sanitaria, come ad esempio per le malattie infettive o per femori rotti, ma di fatto la quasi totalità riguarda le patologie psichiatriche. 

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Da anni diverse associazioni e attivisti chiedono l'abolizione del Tso—o comunque una sua profonda revisione—convinti si tratti di un sistema obsoleto e dannoso che, oltre a non fornire una soluzione, aggraverebbe le situazioni di persone in condizioni fragili. 

Per questo, anche dopo l’uscita della serie Tutto chiede Salvezza di Netflix, tratta dall’omonimo libro di Daniele Mancarelli candidato allo Strega 2020, ho deciso di parlare con tre persone che hanno ricevuto uno o più Tso (i loro cognomi sono stati omessi per questioni di privacy) e persone esperte che pensano che il trattamento sia altamente fallibile o andrebbe rivisto.  

Come funziona il Tso: le criticità

Anzitutto, un po’ di dati: secondo l’ultimo Rapporto salute mentale del ministero della Salute, riferito al 2020 e aggiornato al settembre del 2022, sono stati oltre cinquemila i trattamenti sanitari obbligatori registrati nei Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc) degli ospedali. In tutto, parliamo del 7 percento dei ricoveri nei reparti psichiatrici pubblici italiani. 

Ma questi numeri “non tengono conto di tutti i trattamenti fatti e non registrati: sono molti di più,” mi spiega Anna Grazia Stammati, presidente del Telefono Viola, un’associazione contro abusi, coercizioni e violenze della psichiatria. In realtà, mi dice, “in Italia vi è sottoposta una persona ogni 10mila, con differenze regionali.” 

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A ogni modo, per attuare un Tso serve un provvedimento del sindaco del comune in cui si trova il soggetto, su proposta di due medici, di cui uno della Asl territoriale. Tutto deve essere poi convalidato dal giudice tutelare entro 48 ore.

E questo è uno dei punti che, secondo diversi attivisti e associazioni, andrebbe rivisto.

“Il decreto del giudice può essere impugnato in tribunale, senza alcuna previsione di contraddittorio o di partecipazione del soggetto coinvolto,” evidenzia Michele Capano, avvocato e attivista dell’associazione radicale Diritti alla Follia che promuove la riforma e il superamento del Tso.

“Si pensa di fare qualcosa a favore della persona,” continua, “ma le garanzie della persona coinvolta in questo trattamento non esistono, per esempio a differenza di chi viene arrestato per un reato.” 

In generale si tratta di una procedura molto delicata, visto che sospende in modo temporaneo la libertà e la capacità di autodeterminazione dell’individuo. E in passato, si sono verificati gravi casi di abuso.

Come quello che ha riguardato Andrea Soldi, un 45enne di Torino deceduto in seguito a un Tso nel 2015. Per quell’episodio, la Corte di Cassazione ha confermato nel luglio del 2022 le condanne a 18 mesi di reclusione per omicidio colposo nei confronti di uno psichiatra e tre agenti della polizia municipale.

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Ricevere un Tso: le testimonianze

Ma al di là di casi estremi come questo, come funziona un Tso? Cosa succede quando effettivamente ti vengono a prelevare per portarti in ospedale?

Me lo racconta Gabriele, un attore di 32 anni diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Psichiatri differenti gli hanno diagnosticato schizofrenia e il disturbo bipolare.

“Ero in una camera d’albergo, volevo starci due notti. Ero solo e lavoravo al computer, quando tre agenti di polizia sono entrati e mi hanno detto che mi avrebbero fatto un Tso,” ricorda. “Gli operatori della croce gialla aspettavano nel corridoio dell’albergo. Impaurito ho chiamato i carabinieri.”

I militari hanno chiesto di passargli un agente di polizia “ma loro non volevano, anzi dicevano che se non avessi attaccato il telefono mi avrebbero denunciato per procurato allarme. Ho avuto paura e ho attaccato,” continua. “Non sono stato violento, ma poi uno mi ha messo le mani al collo, mi hanno buttato sul letto e mi hanno fermato con un ginocchio. Un operatore mi ha sedato. Mi sono svegliato all’Ospedale Santo Spirito legato a un letto. Ecco cos’è stato per me l’inizio del Tso.”

Solitamente le segnalazioni che conducono poi a questa pratica sono fatte dai familiari stessi, preoccupati.

Anche se il termine massimo è di una settimana, il trattamento è rinnovabile. Inoltre, c’è chi lo subisce una sola volta, alcuni due, ma ci sono anche casi in cui i pazienti tornano ciclicamente in Tso.

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Un’altra persona con cui parlo è Marco, che ha 55 anni e ha subito il Tso ben 13 volte. “Il primo quando mi sono tagliato le vene. L’ultimo quando ho imbrattato una macchina della Asl con una bomboletta.” La sua schizofrenia si manifesta sotto forma di paranoia che per anni gli ha fatto credere di essere vittima della camorra. 

“Presentavo esposti alla Procura della Repubblica, contattavo i carabinieri. Ma la camorra non c’è mai stata,” continua. “Il primo Tso me l’hanno fatto fare i miei familiari. Avevo deciso di suicidarmi, così da salvare me e la mia famiglia da queste minacce mafiose. Mi hanno trovato la mattina in casa con i polsi insanguinati. Il secondo Tso l’ho subito mentre stavo in camera alla scrivania: arrivano medico, forze dell’ordine e con un calcio sfondano la porta. Io mi volto e me li vedo addosso. Respiravo a malapena.” 

Oltre al Tso, la legislazione italiana prevede poi il Trattamento Sanitario Volontario (Tsv). Andrea, che ha 50 anni e ha ricevuto la diagnosi di un disturbo schizoaffettivo, è stato 40 giorni in Tsv; ma per lui, non ci sono grosse differenze nella sostanza con il Tso.

“Cambia solamente l’inizio, al posto di prenderti loro, vai tu,” racconta. “Per il resto è uguale al Tso. Ero andato all’Asl per farmi diminuire le dosi di farmaci che mi dava lo psichiatra, convinto e ‘accompagnato’ da mia sorella. Io credevo di fare una normale visita, invece da quel momento gli ho dato la possibilità di ricoverarmi nel reparto psichiatrico del Sant’Andrea di Roma per 20 giorni e da lì in clinica privata per altri 20.”

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Anna Grazia Stammati del Telefono Viola sostiene che nel Tsv “di volontario spesso c’è poco, e i pazienti vengono minacciati di Tso nel caso vogliano terminare il loro trattamento in queste case di cura.” 

E anche Gabriele lo conferma: “la V sta per volontario, ma per modo di dire. Sono stato trattenuto per 15 mesi. È stata una prigione,” chiarisce. 

“Un incubo”: le condizioni dei reparti psichiatrici degli ospedali

È importante ricordare che la legge 180 è stata approvata sulla spinta del movimento rivoluzionario del professor Franco Basaglia, che chiedeva l’abolizione dei manicomi—ormai diventati strutture di soprusi e privazioni, in cui finivano non solo pazienti psichiatrici ma chiunque fosse ritenuto “pericoloso” per la società.

I già menzionati Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc), previsti per l’appunto dalla legge Basaglia, sono nati proprio con l’obiettivo di essere reparti integrati con il resto dell’ospedale, e non repliche in scala minore dei vecchi manicomi.

Ma in base a quello che mi hanno raccontato, non sempre è così. Spesso, se non sempre, il paziente diventa un corpo che occupa un lettino e l’essere umano lentamente scompare.

“Non facevo nulla. Mi svegliavo sul lettino, mi davano da mangiare, a fine pasto mi imbottivano di psicofarmaci. Tutto senza che potessi uscire dalla stanza e dal corridoio dell’ospedale, che stava al piano -1: un incubo,” ricorda Gabriele.

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“Una volta [sono stato in stanza] per più due mesi stordito dalle medicine, di cui una mi ha fatto reazione,” prosegue. “Avevo un versamento pleurico e febbre altissima, gli occhi neri per una virosi, ma non mi curavano e non mi facevano tornare a casa. Sono svenuto e mi hanno salvato in cardiologia. Stavo per morire.” 

Nel reparto, mi spiega Marco, la giornata è scandita soltanto da tre momenti, cioè i pasti: “Per il resto nessuna attività ludica o impegnativa. Niente specchi, per evitare gesti autolesionistici. Finestre sbarrate per non farti buttare giù. La sorveglianza è di infermieri che ti controllano come una galera. Non ascoltano se protesti, chiedi aiuto, ti senti male o vuoi scambiarci due parole.” 

La vita “diventa dormire,” aggiunge. “È terribile, i peggiori momenti della mia vita li ho passati in ospedale. 13 Tso sono 13 violenze inaudite, ma non si conosce altro metodo valido, attualmente. Sicuramente dovrebbe essere meno cruento e più rispettoso.” 

E che le condizioni dei reparti sul territorio italiano siano problematiche lo confermano anche gli esperti, oltre che i pazienti.

Alessia De Stefano, psichiatra specializzata nei trattamenti sanitari in Europa, mi spiega al telefono che “purtroppo nella mentalità di alcuni operatori c’è ancora una visione manicomiale: lavorare con i pazienti psichiatrici dovrebbe voler dire prendersi cura delle persone; invece, si è trasformato tutto in difesa personale, in controllo sociale. Più che curare chi soffre, si preferisce controllare e chiudere le porte.” 

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Dopo il Tso: tra stigma e difficoltà di reinserimento

In generale, prosegue De Stefano, i Spdc dovrebbero essere rivisti per renderli più umani. La dottoressa cita come esempio virtuoso quello di Trieste, dove “fanno anche interventi di 24 ore e trattano i pazienti sul territorio. Il tutto senza porte chiuse e con attività riabilitative: ma è l’unico in Italia.”

Certo, il modello di Trieste funziona perché la città ha dimensioni relativamente limitate. Replicarlo in grandi centri “sarebbe complicato, ma non impossibile,” precisa De Stefano. Che conclude: “Non sono d’accordo con la riforma della legge del Tso. Piuttosto andrebbe applicata in maniera giusta. La pratica è corretta, ma bisognerebbe lavorare sulla cultura psichiatrica e trovare dei sistemi affinché venga seguita con correttezza dagli operatori in gioco. Anche la politica si dovrebbe far sentire”.

Di sicuro chi subisce un Tso ne rimane segnato a lungo, tra difficoltà di reinserimento, stigma e la paura di dover passare di nuovo per la procedura.

Gabriele ora vive da solo e ha in mente alcuni progetti lavorativi. “Vorrei anche ricominciare a fare sport, tornare in forma, spero che tutto questo sia finito,” mi dice. 

Andrea, invece, quando è uscito ha provato un enorme senso di libertà: “Ho rivisto le persone care, gli amici, anche se a molti non l’ho detto, per timore dello stigma sociale.”

Marco vive attualmente con la compagna e assume con costanza i suoi farmaci. Trovare lavoro però è difficile: “Quando subisci il Tso sei additato come folle e ottenere un impiego è praticamente impossibile. Ora ho una vita mediocre: faccio la spesa, cucino, mangio,” chiosa. “Potevo essere ingegnere elettronico, non lo saprò mai. La patologia ce l’ho e non so ancora se la psichiatria mi ha salvato o condannato.”