Mango, il Re Mida del pop italiano

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Musica

Mango, il Re Mida del pop italiano

A due anni dalla sua scomparsa, ricordiamo uno degli autori e interpreti più complessi e raffinati della nostra storia.

A volte quando viene a mancare un artista la sua assenza si fa sentire, altre volte invece no, perché la sua figura rimane per sempre, quasi fosse un simbolo, un santino: in alcuni casi invece capita che le due cose si fondano e confondano in maniera contrastante. Ed è forse questo il caso di Mango.  Nonostante la sua innegabile popolarità che l'ha reso quasi un'icona, di Pino Mango si parla forse poco: si parla più di Dalla, di Pino Daniele, nomi storici dell'italica canzone che hanno lasciato questa Terra da poco e soprattutto hanno regalato una bella eredità, sì, pesante, ma niente che quella che il lascito dell'artista di Potenza non possa eguagliare. Mango probabilmente paga il fatto di essere uno dei personaggi e degli artisti musicalmente più difficili del pop italiano. Com'è possibile? È possibile perché il suo segreto, fondamentalmente, è sempre stato da una parte quello di essere particolarmente conosciuto grazie alle hit che ha disseminato nella sua carriera (e chi non si ricorda "Bella d'Estate" a quattro mani con Dalla, "Lei Verrà", "Oro" con i testi di Mogol ecc ecc?), ma nel frattempo anche quello di aver contaminato quest'apparente lato easy listening con strutture musicalmente complicate. In qualche modo il suo percorso è simile a quello che è riuscito a fare Pino Daniele col blues, con la fusion: mescolarli alla melodia italiana e trasformare il tutto in un perfetto prodotto pop, fruibile anche da gente che non avrebbe mai masticato prodotti più complessi, da un pubblico che al massimo si fermava al rock.

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L'obiettivo di Mango virava nel senso inverso: portare il pop italiano a confrontarsi con livelli di eccellenza e di ricerca internazionali costruendo basi che probabilmente mancavano in Italia, proprio per la loro peculiarità. Appunto, essendo un personaggio isolato a livello di capacità e poesia, quando lo ascoltavi alla radio non ti arrivava il genere, ma dicevi direttamente: "questo è Mango." Non molti artisti sono in grado di essere individuati alla prima nota, se non i veri maestri. Mango era uno scorpione, di partenza un personaggio particolarissimo, con una forza espressiva ambigua (ricordiamo i suoi semifalsetti tipici, la sua voce personalissima e facile alle acrobazie) e dirompente (i suoi arrangiamenti erano sempre ricchi ma andavano comunque dritti al sodo, cercando di scremare il più possibile i tempi morti dell'orecchio). Paradossalmente muore l'8 dicembre del 2014, e ora siamo qui a ricordarlo dopo il ponte correlato, quasi come se l'immacolata concezione e la sua festa assortita sia una specie di giornata di silenzio alla sua memoria (sarebbe meglio, piuttosto che festeggiare una che ha partorito da vergine… Proporrei un referendum a questo proposito). A parte questo, la santità di Mango si esprime con la sua pratica compositiva esemplare: uno di quelli cui è stato attribuito di tutto a livello musicale. A turno era quello che aveva portato in Italia la world music, un certo tipo di folk elettronico, suddivisioni ritmiche inusuali, spezzate, dispari, quello che aveva riportato le arie d'opera nel pop contemporaneo molto prima della volgarizzazione Bocelliana, quindi indicato come innovatore anche inserendosi in una tradizione più ampia anche a causa della sua prolificità che ricordava quella di un compositore classico. Ma probabilmente, fra tutte queste cose, ci si è dimenticati che nella canzone d'autore italiana è stato uno di quelli che possono essere considerati a tutti gli effetti i veri rivoluzionari della "new wave cantautorale". Roba atta a contrapporsi in qualche modo allo strapotere anglosassone, facendogli direttamente concorrenza, ma anche a seppellire il cantautorato standard italiano degli anni Settanta di cui non se ne poteva più. Abbiamo esempi lampanti di questi pionieri quali Faust'O, Garbo (un altro personaggio sul quale si dice tanto e nulla), Liberovici (anche lui ingiustamente sottovalutato), ma raramente si sente parlare di Mango come uno dei principi di questa rinascita musicale. Questo perché, ahimè, ci si ricorda quasi esclusivamente il suo periodo con Mogol e al massimo il post-Mogol. Al contrario, il nostro è un prime mover: oltre a La mia Ragazza è un Gran Caldo (RCA 1976), ottimo biglietto da visita che non passerà inosservato ai padiglioni auricolari di Patty Pravo e Mia Martini, il secondo disco ufficiale già si pone in maniera atipica: un disco chiamato Arlecchino, uscito nel 1979, con una copertina straniante e un certo tipo di andazzo che ricorda molto da vicino il concept romantico del Camerini che verrà.

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Ricordiamo infatti che all'inizio il nostro, più che un arlecchino elettronico, era un cyber clown, nelle fattezze della maschera Neurox. Solo nel 1980, appunto, Camerini svilupperà quello che farà la sua fortuna. Che Alberto si sia ispirato direttamente a Mango? Chi lo sa. Ad ogni modo a un certo momento Mango, che musicalmente è ancora abbastanza lontano dalle piuttosto contemporanee influenze rock/wave di Camerini, si riprende la rivincita a livello musicale. E nell'82 fa uscire questo disco meraviglioso, ovvero È Pericoloso Sporgersi, il terzo della sua discografia, dal quale si apre uno spiraglio di ricerca notevole. Le influenze evidentissime in questo lavoro sono quelle che possiamo trovare nei migliori album new wave del periodo: suoni gonfi di chorus, spigolosità e così via, ma forse addirittura meglio, perché c'è quest'aspetto tipicamente italiano che invece di rendere il tutto pacchiano e tipico della provincia dell'impero che prova a stare al passo, risulta perfettamente sfamato dal cibo musicale ingerito ed è un linguaggio decodificato e decodificabile, in perfetto equilibrio sulla fune. Difficile trovare una simile luce nei dischi italiani dell'era: i riferimenti sono chiaramente quelli al Peter Gabriel solista più sperimentale pre Real World, ai Japan con i loro nervosi melting pot fra oriente e occidente (qui probabilmente spostati alle varie influenze dei Paesi mediterranei, isole comprese), alle intuizioni di Peter Hammill, al new romantic più roccioso e intellettuale quale quello dei primi Talk Talk. Non che Mango sia l'unico a confrontarsi con certe sonorità, chiaro, ma rispetto ai colleghi il nostro trova un dosaggio perfetto della pozione che impedisce l'avvelenamento da Perfida Albione. La verità dei fatti è che questo disco è una specie di punto fermo perché si parla di droga, di suicidio, di emarginazione. Insomma, tramite le parole del fratello e, diciamolo, grande poeta Armando Mango si toccano temi scottanti e universali: certo, il periodo in cui l'album fu inciso era nero pece per l'Italietta nostra, ma proprio per questo ancora oggi possiamo trovare catarsi nell'ascolto di questa gemma. Ogni cosa è trattata con una leggerezza tale che è evidente il tentativo di creare un classico senza tempo. Questo mix fra larghi paesaggi al pianoforte, orchestrazioni particolari e stranezze varie, in effetti, poi sarà uno spartiacque per altri artisti nostrani, come ad esempio Scialpi, che deciderà di reinterpretare "Nero e blu", la prima traccia di È Pericoloso Sporgersi, nel suo primo lavoro, Estensioni, in una versione da far impallidire le tracce dei coevi Depeche Mode (di cui Scialpi forse può essere considerato l'unico vero rivale italiano del periodo, a livello di sperimentazione commerciale, anagrafico e di popolarità fra i giovanissimi).

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"Nero e blu" è un saliscendi di emozioni. Parte sottovoce e poi, come sulle montagne russe, rende didascalico il suono dell'osservare di uno spaventapasseri. Guarda intorno a se con occhi vuoti ed è ovviamente il simbolo di un uomo privo della propria coscienza, l'uomo comune che è schiacciato dal sistema e non rischia più, Ma l'amore è nero e blu, come i famosi lividi già cantati dai Rolling Stones che si fa solo chi vive davvero e mette in gioco la sua pellaccia, seppure fatta di paglia. Grandi bassi slap, chitarrone e sax che i Duran Duran potrebbero prendere in prestito. Mango studiava sociologia e probabilmente l'influenza di tale disciplina va a confluire nella costruzione della musica, piena di suddivisioni ritmiche quasi simili a grafici statistici. Un grande inizio che subito mette in chiaro come la pensa Pino sulla vita.

Il secondo pezzo è "Il figlio": parte a colpi di pianoforte preparato, di scuola John Cage e un pattern metronomico di synth con grandi momenti space dei sintetizzatori che volano verso l'alto e sono quasi proto era digitale. E poi sempre a colpi di fruste fatte di chitarre distorte e chorusate una batteria squisitamente punk introduce un rock all'italiana che mantiene però un'ibridazione quasi con la scrittura di un Elvis Costello, per poi subito cambiare suono e diventare simil Devo con tanto di drumpads a impreziosire. Un grande finale elettronico quasi disco wave per un viaggio esistenziale verso la ricerca dell'identità, che poi è la metafora del figlio: va fatta nascere e poi lasciata andare senza bandiera. Lo spaventapasseri è sceso dal palo.

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Proseguiamo con la title track, "È pericoloso sporgersi": ballata al piano al bivio tra la più classica delle canzoni italiane (che però in futuro molto dovrà a queste formule) e gli stranianti saliscendi di Ivan Graziani. Prevede alcune armonizzazioni dissonanti ma piazzate talmente bene da non essere notate, e uno stacco di fiati che non sfigurerebbe negli arrangiamenti di Blackstar dell'ultimo Bowie. Poi parte una cavalcata new wave erede di Battiato, ma anche di alcuni missili disco "mentre senti strusciare più forte le sottane della morte". Brano sul suicidio, infatti, sonda le motivazioni contrastanti di una decisione estrema mentre anche il giorno nasce e muore, come a dire: tutto ha una sua dignità, anche questo, poiché espressione pura del libero arbitrio umano.

"Il mago" invece inizia con un arrangiamento di piano e orchestra incredibile, fra il jazz di Jarrett e i deliri morriconiani contenuti nelle sue colonne sonore più estreme. Poi uno stacco improvviso ci porta a un momento completamente intricato, quasi no wave, scollegato, nervoso, che sembra uscito dal repertorio dei Cardiacs: ma che dico… Poi però sembra Branduardi, poi sembra citare la musica popolare italiana, poi ancora boh. Uno dei pezzi più difficili del disco, in cui Mango sfodera tutta la sua cultura musicale. Il tema è quello dei Maghi, nel senso degli unti personaggi che ingannano il popolo. E quindi ovviamente stoccate ai preti, alla religione, alla superstizione, al potere che plagia le menti di tutti noi, e col senno di ora anche quel noi figlio del social network.

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Il Mango intricato del precedente brano lascia il posto a layers di chitarre d'ispirazione Queen per poi sciogliersi in una ballad. "Che cosa mi hai lasciato" è il brano più vicino alla produzione radio friendly di Mango, anche se sembra avere molti punti in comune con la canzone francese d'autore e con quelle che erano le passioni di Ruggeri con i Decibel… Un caso forse?

"Fuori gioco" sfoggia un ostinato di chitarra memore della lezione dei Roxy Music di Manifesto e, con una bordata di rumore bianco, si sposta verso un white funk particolarmente centrato sul basso con spruzzate di chitarroni gelidi. La sua "Polvere" (tornando a Ruggeri che tra l'altro era suo grande fan), parla di un chiaro momento di dissociazione e di crisi personale, con la lampante frase "fumerò quel poco che ho e un'ora fuori gioco resterò" che suggerisce un annullamento del protagonista nelle caverne dell'essere e della droga.

Piano elettrico e pad, ritorna il Mango prettamente chansonnier con "Punto a capo", ma dura poco. Una cassa dritta in 4 e una cavalcata quasi hard rock infilata ovviamente in tutt'altro (come se Umberto Tozzi suonasse i Kiss, ma new wave). Brano in cui la confusione mentale la fa da regina, è forse quello più adult rock oriented del lotto ma mantiene comunque una costruzione che lo rende coerente con i brani precedenti.

Con "Chi sei tu chi sono io" Mango sperimenta gli spazi vuoti tra gli strumenti. Sincopi quasi afro funk in territorio wave prettamente bianco, è un pezzo costruito in maniera formidabile con un ritornello in cui le chitarre e la batteria si aggrappano l'uno all'altro come serpenti su un baobab. Una canzone d'amore di profondo impatto, in cui Mango si prende anche il lusso di cantare a voce sola sulla batteria e di arrangiare un finale con armonica a bocca chiaramente ispirato a Stevie Wonder, messo a dialogare con un sax in solo. La questione esistenziale sembra essere il tema centrale del disco, anche se non un vero e proprio concept, però ci stiamo vicino e anche questo pezzo lo ribadisce.

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E veniamo alla chiusura. "Lascia che tu sia" inizia con un pianoforte che sembra una citazione del Baglioni di "Piccolo grande amore", solo che in questo caso i carpiati vocali di Mango fanno più pensare a un Alan Sorrenti che ha capito come evitare i "figli delle stelle" e in un certo senso si appoggia agli standard jazz. E appunto il brano sembra scritto proprio a uso e consumo dell'ugola di Mango che inneggia alla libertà di essere quello che si è e basta "lascia che tu sia una musica senza una nota di logica", e con questo anche Cacciapaglia è sistemato.

Non avevamo dubbi che Mango avesse delle tendenze radicali: lo vediamo chiaramente nel look tra l'allucinato il trasandato e il waver fra Vasco Rossi e John Foxx mentre canta in un programma Rai alcuni brani proprio tratti da "E' pericoloso sporgersi". E come va a finire quindi?

Ovviamente va a finire che il disco non ha successo: Mango decide quindi di gettare la spugna, ma come sempre accade nella vita nel momento in cui meno te lo aspetti e ti sei arreso, ritorna l'interesse da parte della buona sorte. Mogol si mette in testa che Mango ha delle potenzialità micidiali (strano che non se ne fosse accorto già da Arlecchino, quando il nostro Pino era sotto l'egida della Numero Uno, etichetta gestita dallo stesso Mogol fino al 1974) e dopo numerose insistenze riesce a collaborarci e ad aprire una nuova fase della carriera del cantante, quella del successo commerciale e degli innumerevoli Sanremo. Quelli che ha sfornato Mango dopo il patrocinio di Mogol sono certamente dischi interessantissimi: uno fra tutti Adesso, magistralmente composto, quasi una sinfonia pop che sfiora l'ambient / new age e appunto s'infila di diritto nel campo della world music in cui molti italiani ambivano a entrare, Baglioni compreso, con sforzi sovrumani. Mango invece materializzava questo primato col semplice battito di delle ciglia, ma il tutto è lontano dal suono quasi post punk, più aggressivo, del lavoro di cui stiamo parlando. Diciamo che tutto punta nella direzione della "gran classe", ma comunque strizzando l'occhio alla radio. Un po' come nelle atmosfere alla Kate Bush di The Sensual World: con le ovvie differenze l'atteggiamento è quello, voltare le spalle al pubblico solo nel senso che possano guardarti sul vetro dello specchio mentre ti ci guardi tu. Grazie a ciò, Mango rimane un outsider dentro il sistema. Ma questo gli fa onore: è stato uno dei pochi che sono riusciti ad abbattere quel fastidioso confine tra musica di ricerca e musica commerciale. E non ha assolutamente abbassato la testa, come dimostra l'evidenza della sua musica, che è rimasta quella che era: un esperimento che stranamente riusciva a passare le maglie censoree dell'industria e delle classifiche asfaltando la critica e andando semplicemente al sodo senza tanti cazzi. Tant'è che l'ultimo tour lo organizzò in maniera spontanea, senza i grandi carrozzoni promozionali e senza l'aiuto dei meschini booker, ma partendo dalla gente che lo amava e soprattutto amava la sua musica. Mango era il Re Mida del pop italiano, trasformava anche la più grande difficoltà in "Oro", la canzone che, paradossalmente, lo accompagnerà verso i campi elisi e che è la sintesi della sua vita. D'altronde "lo spaventapasseri non può che guardare il campo intorno a sé e dondolare quando il vento c'è…." Vale quindi la pena mettersi in gioco fino alla fine, fino all'ultimo accordo. Alla faccia di chi ha venduto la sua morte in diretta, il grande Pino Mango vivrà per sempre. Segui Demented su Twitter — @DementedThement Leggi tutti i capitoli di ITALIAN FOLGORATI qui.