Kamasi Washington ci ha spiegato come non diventare un gangster

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Musica

Kamasi Washington ci ha spiegato come non diventare un gangster

Abbiamo parlato con Kamasi Washington di come Malcolm X gli ha cambiato la vita e di come fare musica e coltivare un seme siano la stessa cosa.

Kamasi Washington mi viene incontro a passo lento, il suo corpo supportato da un bastone di legno intagliato con la figura di un leone. "Me l'ha fatto un ragazzo in Ghana", mi dice, quando gli chiedo come si è fatto male e perché non sta usando una stampella. "Ero in Svezia e sono scivolato giù per una collina innevata!" Me ne parla col sorriso, come se una gamba quasi spaccata in tour non fosse che una minore inconvenienza. Ma probabilmente è esattamente così—dato tutto quello che gli è successo nell'ultimo anno e mezzo, un dolore alla gamba non può certo rovinargli la giornata. Washington si è infatti trovato al centro di una congiunzione di pianeti che ha portato il suo ambizioso debutto The Epic a diventare uno dei dischi più celebrati e discussi del 2015 nonostante fosse un triplo LP di jazz principalmente strumentale. Ma andiamo con ordine.

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Washington nasce a Los Angeles nel 1981, all'incrocio tra la settantaquattresima strada e Figueroa nello specifico—nel pieno di South Central, cuore pulsante della scena hip-hop della West Coast e, al contempo, della gang culture che ha sì alimentato l'immaginario musicale di una generazione di afroamericani impedendole però di smarcarsi dalla ghettizzazione impostale dalla società americana. A tre anni si trasferisce ad Inglewood, una parte leggermente più sicura della città dove però i colpi di pistola erano tutto tranne che un evento fuori dal comune, come lui stesso ha dichiarato al New York Times. Suo padre Rickey, sassofonista e flautista, è un musicista locale piuttosto affermato che aveva scelto di restare in una Los Angeles la cui scena jazz aveva sempre vissuto all'ombra della sua più trattata e celebrata controparte newyorkese. Avere un padre musicista è certamente un'opportunità rara in un contesto in cui mediamente il pater familias cerca di arrivare a fine mese come capita: Kamasi si distingue fin da piccolo al sassofono, convincendo il padre a comprargliene uno cantando l'assolo di "Blues for Alice" di Charlie Parker.

Washington inizia la sua carriera suonando in una chiesa locale e, grazie a una passione per le materie scientifiche, vince una borsa di studio per frequentare la Hamilton High School—un liceo decisamente più pettinato rispetto a quello a cui era stato abituato fino a quel momento—e l'accademia di musica ad esso legata. È lì che Washington si unisce alla Multi-School Jazz Band, un collettivo tramite cui conoscerà l'amico Terrace Martin,che più avanti negli anni lo porterà a suonare nel gruppo di Snoop Dogg prima e a comporre gli archi su To Pimp a Butterfly di Kendrick Lamar poi. Nel mezzo, parti nelle band di Lauryn Hill, Raphael Saadiq, Chaka Khan e molti altri. In questi anni, Kamasi mette assieme un gruppo di musicisti che lo accompagna in parte ancora oggi: i West Coast Get Down, un mega-gruppo con il quale si chiude in studio di registrazione per un mese nel 2011 lavorando 16 ore al giorno. Tra i terabyte di musica usciti da quelle sessioni ci sono anche i pezzi di The Epic, che la Brainfeeder—etichetta gestita da Flying Lotus (che, per darvi un'idea, è nipote della seconda moglie di John Coltrane)—si offre di pubblicare senza imporgli alcun vincolo creativo.

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Il risultato, di cui abbiamo già parlato ampiamente qua, è stato un improbabile ritorno del jazz nel discorso che anima i media alternativi: invece di essere seppellito nel palinsesto di Radio3, The Epic è stato portato in giro per il mondo in un generale trionfo di critica e pubblico, sospinto oltretutto dall'enorme successo sia commerciale che ideologico di To Pimp a Butterfly (ne avevo parlato brevemente in questo pezzo). The Epic è stato percepito come un album politico, un commento muto di orgoglio nero che ha fatto rendere conto a orecchie abituate ai Roland 808 più che agli assoli di sassofono l'importanza del messaggio di libertà ed emancipazione che ha sempre animato il jazz afro-americano. Invece di farmi raccontare la sua autobiografia, sulla quale trovate tanti ottimi articoli in giro, ho fatto a Kamasi un po' di domande che andassero a cercare di toccare punti più dettagliati e sottili della sua persona e della sua esperienza di vita. Mi ha raccontato, tra le tante cose, del suo rapporto con Dio, di come sia convinto che la musica sia un fatto subconscio, e dei motivi per cui Malcolm X gli ha cambiato la vita.

VICE: In che modo il tempo passato dalla pubblicazione di The Epic—poco più di un anno, ormai—ti ha cambiato come persona e come musicista?
Kamasi Washington: Sicuramente ho avuto tante nuove esperienze, e sicuramente ho una concezione più ampia di quello che posso fare con la mia musica. Penso in un modo diverso, in un certo senso. Mentre scrivevo The Epic non avevo idea se l'avrei suonato dal vivo di fronte a due o duemila persone, adesso sono sicuro che il mio nuovo album sarà ascoltato da un sacco di gente. E posso pensare più in grande, esplorare nuove possibilità. Non che non pensassi in grande con il mio primo album, ma era più questione di pensare fuori dagli schemi. Non me ne fregava niente di quello che la gente avrebbe pensato e detto, mentre ora posso semplicemente fare quello che mi pare e non pensare neanche a tutto il resto. È una differenza piccola ma significativa.

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Una curiosità: The Epic era già pronto quando iniziasti a lavorare su To Pimp a Butterfly?
The Epic era finito a marzo 2014, quindi molto prima che conoscessi Kendrick. Ma non ho aspettato di proposito a farlo uscire, è che la Brainfeeder è un'etichetta piuttosto piccola e perché riuscissero a buttare fuori un album così imponente hanno dovuto rimandare un po' di volte. È stato il destino a decidere di farlo uscire al momento giusto!

In che modo pensi To Pimp a Butterfly abbia spostato il discorso sull'identità afro-americana dalla sua uscita in poi? Vedere gente per le strade gridare "Alright" come canto di protesta è da brividi, almeno da questa parte dell'Atlantico.
Sicuramente ha toccato le menti di molte persone. Dietro a ogni vero cambiamento c'è un processo molto lento, sai? La cosa importante è l'energia e l'ispirazione che ha dato a chi ha una mentalità basata sull'uguaglianza, a chi considera il mondo un posto incredibile popolato da eguali. Tutto bellissimo, ma la realtà è che il mondo non cambierà finché non cambieremo la mentalità di chi non la pensa così. Insomma, è bello avere musica che ci rende felici e ci fa sentire parte di qualcosa di più grande di noi, ma il succo della questione è che viviamo nel mondo in cui viviamo perché esistono persone che hanno pregiudizi e non considerano gli esseri umani tutti uguali, persone che vogliono fare male ad altri, buttare a terra altri. E tutto resterà uguale finché non agiremo a questo livello.

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Washington e la sua band (via)

Sei sempre stato consapevole della tua identità afro-americana e dei problemi più ampi della tua comunità o ci sei arrivato con il passare degli anni?
Ci è voluto decisamente un po' di tempo. Quando ero un ragazzo non andavo da nessuna parte, restavo sempre nel mio quartiere. Onestamente, non ho conosciuto una persona bianca europea fino a qualche anno fa! Crescendo, imparando, viaggiando e conoscendo persone inizi a capire meglio il mondo in cui vivi. Ed è una delle chiavi per risolvere il problema, molti dei mali del mondo nascono dall'ignoranza. Fare esperienze significa aprire la propria mente, e nella maggior parte dei casi porta la gente ad abbandonare quel tipo di mentalità.

Da ragazzo provavi e studiavi anche nove, dodici ore al giorno. Era una cosa che facevi con gioia o è stato più un sacrificio?
Suonare si portava via praticamente tutto il mio tempo, quando stavo studiando. Penso sia una parte cruciale e molto difficile nella vita di un musicista, ti richiede un certo livello di connessione con lo strumento… poi certo, invecchiando la vita è iniziata a capitarmi e ho dovuto necessariamente guardarmi attorno. Conoscere ragazze, sviluppare interessi! Ma sono entrambe parti fondamentali, una vita passata solo sullo strumento non ha senso.

Hai dichiarato che un momento fondamentale nella tua crescita artistica è stato suonare nella band di Snoop Dogg, ma in che modo si è evoluto prima di allora il tuo rapporto con il sassofono?
Appena ne presi in mano uno sentii subito una connessione istantanea, sai? Ma avevo tredici, quattordici anni quando decisi di prenderlo veramente sul serio. Dovevo suonare al Playboy Jazz Festival con la Multi School Jazz Band, in cui c'erano praticamente tutti i musicisti più talentuosi di Los Angeles dell'epoca. Io ero uno dei più piccoli, e gli accordi erano che il mio ruolo nel concerto sarebbe dovuto essere solo di supporto. Arriviamo sul palco, e ci sono ventimila persone nel pubblico. Il direttore della band, a un certo punto, mi indica chiedendomi di fare un assolo—su una canzone sulla quale non avevo mai provato a fare un assolo prima di allora. Non ero pronto, e non rimasi soddisfatto del risultato. E fu allora che scelsi di prendere la musica seriamente, dedicarmici completamente, e fuggire la mediocrità.

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Terrace Martin è stata una delle figure chiave nella tua carriera, dato che oltre a suonare con te ti ha trovato un aggancio per suonare prima con Snoop e per comporre le parti di archi nell'album di Kendrick poi. Ma come vi siete conosciuti?
Avevo tredici anni, e il Thelonious Monk Institute aveva organizzato una masterclass a cui mi ero iscritto. Alla fine, chiesero a tutti gli studenti di suonare assieme un blues. E c'era anche Terrace! Iniziammo a parlare di Coltrane, Cannonball Adderley, Eric Dolphy e così via, e ci rendemmo conto di avere qualcosa in comune. Poi Reggie Andrews, che era il direttore della Multi School Jazz Band, chiese a Terrace di unirsi al gruppo, e diventammo amici. Lui aveva qualche anno in più di me e lo avevo già intravisto a Leimert Park, che avevo iniziato a frequentare da poco. All'epoca suonava in questo gruppo incredibile, i World Stage All-Stars… andavamo sempre a sentirli suonare.

Ecco, Leimert Park [una comunità per soli bianchi diventata un importante centro culturale afro-americano dopo le rivolte di Watts del 1965]: ho letto che è stato un luogo fondamentale per te. In che senso?
Leimert Park era il principale centro artistico di Los Angeles, in un certo senso. Era nel mezzo di South Central, la nostra parte della città, e fortunatamente era l'unico posto in cui potevamo andare—per darti un'idea, allora non ero mai stato nemmeno neanche a Hollywood. Era un po' come la nostra seconda casa, tutti i ragazzi che facevano musica e arte della zona si ritrovavano lì. E potevi incontrare tranquillamente gente del calibro di Billy Higgins, Horace Tapscott, Gerald Wilson… Se non avessimo avuto Leimert Park non saremmo riusciti a suonare dal vivo da nessuna parte, era un luogo vitale.

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Com'è che Terrace conobbe Kendrick?
Non ricordo esattamente, sai? Ma ricordo che me ne parlava già nel 2007, 2008, come di un genio che avrebbe cambiato la musica. Se n'era accorto prima di chiunque altro.

Hai fatto i tuoi primi passi da musicista suonando in chiesa. C'era anche un elemento di spiritualità nella cosa o era solo un luogo in cui fare musica, per te?
Sono decisamente una persona spirituale, e suono ancora in chiesa quando torno a casa. È un'esperienza che ha certamente cambiato il modo in cui mi approccio alla musica. Ti dirò, la musica è un atto sia fisico che spirituale, e la cosa vale anche se non sei un credente. Te ne rendi conto dal modo in cui vieni toccato dal suono, e la chiesa gioca un po' con questo processo. Da musicista, ti concentri sul lato più fisico del suonare—su accordi, toni e così via. Ma quando sei lì, stai suonando per un motivo diverso: stai provando a far sì che la gente abbandoni la propria fisicità e tocchi con mano il proprio spirito. Ed è quello che proviamo a fare, quando suoniamo. La mia prima esperienza musicale è stata di questo tipo. Non ho suonato in un'orchestra, o in un gruppo jazz. E nella chiesa in cui suonavo ti veniva lasciata molta libertà: non sai che pezzo stai suonando, in che chiave, quanto durerà. Niente di tutto questo! Devi solo trovare una connessione, e seguire. Essere lì, nel momento, senza sovrastrutture. Certo, poi più avanti ho imparato a leggere la musica, a suonare all'interno di strutture definite, ad organizzarmi. Ma quello è ancora il mio approccio.

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È bello, dalla mia prospettiva, sentir parlare dell'esperienza-chiesa in questo modo. Per gli italiani della mia generazione andare in chiesa è qualcosa di molto più istituzionale, austero, manca totalmente questo elemento di comunanza di cui mi parli. Che tra l'altro si sta sentendo molto nell'hip-hop contemporaneo—penso anche solo all'enorme elemento gospel delle ultime cose di Chance the Rapper. Insomma, sentire un rapper americano parlare di Dio ti lascia una sensazione di unità, speranza. Ed è una cosa che da noi non è praticamente mai successa.
È che per noi afro-americani la chiesa era l'unica speranza, sai? Quando sei in una situazione disperata non hai altra speranza che Dio. E hai un certo bisogno di sfogare quello che hai dentro, il dolore e l'angoscia della tua vita. In chiesa non puoi trattenerti, non puoi non aprirti. Altrimenti esploderesti e basta.

(via)

Come mai, tra le varie figure che hanno incarnato la lotta per i diritti degli afro-americani negli anni, hai scelto di celebrare Malcolm X in "Malcolm's Theme"?
Martin Luther King lavorava all'interno del sistema per cambiarlo, per cambiare le leggi che lo governavano e aiutare la gente. Insomma, prima della nascita del Civil Right Movement il razzismo era legale a tutti gli effetti. Malcolm X, invece, voleva cambiare il mondo nel senso più fisico del termine. Dove potevamo vivere, dove potevamo andare a scuola, quello che poteva e non poteva venirci fatto. Malcolm X si rese conto che il mondo si era spezzato. Che, in quattrocento anni, la nostra umanità ci era stata strappata, e che a forza di sentircelo dire avevamo iniziato a considerarci persino noi stessi meno che umani. La sua era una sfida contro chi voleva continuare a spezzarci. Ma quel gesto, quella spinta alla disumanizzazione degli afro-americani, non si è mai interrotta del tutto. Nemmeno adesso.

Come hai vissuto la questione, crescendo? E come hai scoperto i suoi insegnamenti?
Da piccolo ero vittima di quella mentalità. C'era un'enorme pressione perché ti considerassi da solo qualcosa di negativo. Avrò avuto sette, otto anni quando ho pensato, "Sono un gangster. Penso di essere un criminale." Ogni tua immagine riflessa aderisce a quelle figure. Se sei un uomo afro-americano, sei un gangster o un pappone o un ladro. Da bambino, ancor prima di aver commesso qualsiasi crimine e di aver compiuto qualsiasi passo che ti porti effettivamente su quella via, ti fanno pensare che tu lo sia già. E se sei una donna sei una troia, una puttana. Malcolm X disse, "No! Siete splendidi. Siete figli di Re. Create cose bellissime. Avete un potere, e chi vi dice il contrario è cattivo. Difendetevi. Rendetevi conto di non essere quello che vi dicono siete." E questo non significa promuovere la violenza: se tuo fratello tornasse a casa e ti dicesse che un tizio sta per arrivare a provare a pestarlo, gli diresti di difendersi. Non ti difenderesti, di fronte alla morte? Perché di questo si tratta. Ti pesterebbero a morte. Ti appenderebbero a un albero e ti darebbero fuoco. Ti strangolerebbero e ti taglierebbero i genitali. Difendersi da tutto questo non è promuovere violenza.
Malcolm X promuoveva un'idea positiva della personalità afro-americana. L'idea che ognuno di noi fosse una persona con un valore intrinseco. Quando ero piccolo la mia scuola organizzò un incontro con un'organizzazione che diffondeva il suo messaggio. Si trovavano di fronte questi ragazzini, come me, con un'immagine distorta di sé, e gli insegnavano a vedersi per quelli che erano realmente. La prima cosa che fecero fu darci una copia dell'Autobiografia di Malcolm X. Ne leggemmo un paio di capitoli assieme, e la lessi per intero a scuola. Alla fine del libro, avevamo tutti una nuova concezione di noi stessi. Quel libro mi ha cambiato la vita. Anche se arrivato a quel punto non avevo ancora iniziato a fare davvero le cose che mi avrebbero reso un gangster, un criminale, mi vedevo su un sentiero che mi ci avrebbe portato. Alcuni dei miei amici non seguivano quel programma e, arrivati al liceo, stavano già rubando macchine, vendendo droga, avevano armi e tutto il resto. Ero sul loro stesso sentiero. Ma sono stato fortunato, ed è grazie a Malcolm X se è così. Il pezzo poi è nato un po' a caso, io e Terrace eravamo su YouTube e ci siamo trovati di fronte l'elogio funebre che Ossie Davis recitò al suo funerale. E quelle parole hanno risuonato in modo così forte con quello che avevamo sempre provato che abbiamo deciso di scriverci una canzone.

Dato che ti sei laureato in etnomusicologia, mi piacerebbe sapere quali sono alcune delle culture che più ti hanno colpito a livello musicale nei tuoi studi.
Cazzo, ce ne sono tante… tra tutte quelle che ho studiato ad UCLA mi è rimasto molto della musica indiana, dei raga, delle loro forme e delle loro scale. Il modo in cui si approcciano alla musica era ovviamente qualcosa di nuovo per me, ma lo sentivo vicino in molti sensi. Insomma, è normale in India suonare un pezzo per tre ore! È un processo lento e graduale in cui la canzone è un entità in costante mutamento. Ed è così che io sento la musica. Lo stesso vale per il gamelan indonesiano. Prendi delle figure e le assembli, ne metti una sull'altra fino a creare qualcosa di interamente nuovo. Come dei LEGO musicali! Una piccola parte si connette a un'altra piccola parte e così via, e l'insieme finale è incredibile.

Hai dichiarato a The Quietus che due delle figure che hanno influenzato i tuoi fraseggi sono Billie Holiday e Busta Rhymes. Ti va di approfondire un po' la cosa?
Di Billie Holiday mi è rimasta l'abilità di collegare le note l'una all'altra. [Canticchia:]"What is this thing…" il modo in cui rallenta una nota per avvicinarla alla successiva. Snoop fa la stessa cosa, ma è dalla Holiday che l'ho imparata. Nelle sue melodie, ogni nota è quasi un dipinto, una canzone indipendente. Ognuna ha la stessa dignità, e viene trattata con cura. Si prende il suo tempo, a costruire un fraseggio, senza fretta. Busta, invece, usa il ritmo in un modo incredibile. Continua a passare da ritmi doppi a ritmi tripli, e il risultato è simile a quello di Billie. Ma mentre lei rallenta tutto, lui va il più veloce possibile.

Come hai spiegato più volte, l'ispirazione dietro alla storia che The Epic racconta viene da un sogno che hai fatto. Ma che valore dai al subconscio come ispirazione in un contesto sociale, invece, così crudo e "reale"?
I semi da cui nasce la musica arrivano dal subconscio, credo. Se chiedi a qualcuno quali siano le vere origini di una canzone, da dove sia loro nato il pensiero alla sua base, non riusciranno davvero a risponderti. È il mistero della musica: non so se nasce da noi o se ci viene "mandata" da qualcosa d'altro. Scrivere musica è come prendersi cura di uno di questi semi, farlo crescere con la cura che ti viene data dalle tue abilità e dalle tue conoscenze.

Elia avrebbe voluto toccare i riccioli di Kamasi ma non ha avuto il cuore di farlo. Seguilo su Twitter.