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Musica

Wag, il locale che ha creato la club culture nel Regno Unito

La storia del nightclub di Soho, frequentato da celebrità e operai, che ha reso popolare la musica dance in UK.

Chris Sullivan aprì il Wag Club nel 1982, quando quei due chilometri quadrati di città che stavano ai confini del quartiere di Soho, a Londra, erano ancora il cuore artistico della capitale. Il Wag era un circolo per soli soci al 33 di Wardour Street (oggi al suo posto c'è un bar del franchise finto-irlandese O'Neils) e rivoluzionò la nightlife di tutto il Paese, definendo la club culture UK così come la conosciamo. La sua miscela eclettica di latin jazz, funk vintage, northern soul, hip-hop e house era anni luce dalla musica da classifica del mondo da VIP del clubbing nel West End, un paio di vie più in là. "Quello che facemmo al Wag divenne un richiamo per tutto il mondo", mi racconta Sullivan uno splendido pomeriggio primaverile, bevendo un caffè. "Aprì le porte alla musica dance! Ecco cosa fece. Non si sentiva quella musica prima del Wag. Se entravi in un locale di questa zona sentivi Bucks Fizz del cazzo!"

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Ho preso appuntamento con Sullivan in un locale di Dean Street, Grouchos, per parlare della raccolta di Wag classics in uscita in quadruplo CD, che comprende tutto quello che sta tra il sunshine-soul di "Right On" di Clarence Wheeler & the Enforcer e il punk-funk-proto-dreamhouse mutante di "Genius" dei Quando Quango, beniamini della Factory, passando per Mandrill, Joyce Simms, James Brown e il progetto Dinosaur L di Arthur Russell. È una raccolta varia e stupefacente, che traccia a grandi linee la traiettoria del club tra il 1982 e il 1987. "Il mio metodo al Wag era che ogni sera dovevamo fare contenti tutti i presenti", dice Sullivan, precisando: "Se venivi il venerdì per la serata rare groove, poteva piacerti anche la serata latin jazz, e se ti piaceva quella potevi anche andare alla serata northern soul". E questa è la sintesi perfetta del Wag: innovativo, vitale e senza paura di correre rischi. Anche se qualche paletto c'era: "Non abbiamo mai messo una serata goth vicino a una serata dub. Mai", spiega. "Devi conoscere i tuoi limiti".

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Soho ai bei tempi.

La conversazione si sposta sulla nostalgia, il che è inevitabile quando si parla con un figlio di Soho come Sullivan. Citando la presenza di artisti come Francis Bacon e scrittori come Thomas de Quincey, etichetta senza troppi giri di parole la zona come "la culla di ogni attività artistica britannica per secoli". La centralità di Soho nella storia culturale della città è innegabile—è il cuore pulsante scapigliato, alticcio e bohémien di Londra—ma è anche innegabile che abbia subito una trasformazione radicale negli ultimi anni.

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Soho, l'ultimo bastione del baccanale per amore del baccanale, un posto dove papponi e prostitute si mescolavano con soldati e skinhead, da qualche anno a questa parte è diventata un'altra sezione sterilizzata del centro di Londra senza spigoli, senza denti, sponsorizzata. Soltanto un'altra collezione di mercati e bakery multinazionali. Sullivan, come molti di noi, dà la colpa senza indecisione ai poteri forti. "Il consiglio di Westminster ha deciso di distruggere sistematicamente le attrattive della zona", dice Sullivan. "E questo succede perché il governo conservatore insieme ai municipi conservatori sono così corrotti che le licenze vanno solo a gente poco onesta".

Quando aprì il Wag, a ventidue anni, Sullivan era deciso a creare uno spazio notturno che, al di là dello schema della tessera soci e le ondate di celebrità che passavano per di lì—da Martin Scorsese a Madonna—, fosse inclusivo. Un locale dove, dice, "un uomo potesse indossare vestito da sposa e corona da reginetta senza scatenare una rissa". Una delle soluzioni adottate fu di far sì che le bevande al bar costassero soltanto dieci penny in più che al pub dietro l'angolo. Sembra una cosa da poco, ma, nelle parole di Sullivan, "è meglio che la gente si faccia dieci drink a cinque sterline che due a venti". È l'avidità, sostiene, ad aver messo in pericolo i locali in tutto il Paese, è l'avidità che impedisce ai più giovani—la linfa vitale di ogni città—di uscire come si faceva una volta.

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"Le licenze vengono affidate a ricchi magnati che non sanno nulla della working class", dice. "Conoscono solo i ragazzini ricchi per cui dieci sterline per un drink non sono nulla. Ed è a loro che puntano con i loro locali. Di conseguenza poi ci si ritrova con i tavoli da cinquemila sterline."

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Steve Strange e Chris Sullivan al Wag.

Che cosa rese il Wag così popolare? Come fece un club da 300 persone di capienza, dove era altrettanto comune vedere zoot suit e tute di acetato Adidas, a diventare un emblema delle possibilità radicali offerte dal clubbing? Chris Sullivan pensa la risposta sia semplice: il Wag era un nightclub, non una discoteca.

La distinzione è altrettanto semplice. "Noi, il Wag, eravamo un nightclub. Un posto tipo Fabric è una discoteca. Le discoteche sono spazi bui, cavernosi, dove non c'è molto spazio per sedersi. Sono ispirate al modello Studio 54 o Paradise Garage". Stranamente, Sullivan si ispirava a una cosa leggermente più ordinaria: la sitcom da bar con Ted Danson Cheers. Comunità e comunicazione erano fondamentali. Il nightclub, per Sullivan, è un posto dove la socializzazione è importante quanto l'ebbrezza. "La tua generazione sta perdendo la capacità di comunicare", constata, attribuendo alla disposizione del locale, con le zone bar e tavoli ben definite oltre alla pista da ballo, il conferimento di un piacere più alto. Un piacere che oggi secondo lui è andato perduto. "Non ti limiti a ballare in un nightclub. Devi affilare la tua tecnica comunicativa, il tuo senso dell'umorismo. Vieni lanciato nella fossa dei leoni quando devi parlare con una ragazza sconosciuta. È come lottare per il titolo mondiale. Devi farla ridere. E non puoi farlo su Tinder. L'interazione umana si sta perdendo."

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Ballare, comunque, rimaneva l'obiettivo principale. L'esaltante miscuglio di generi mai sentiti prima a Soho e nell'area circostante, insieme al senso di esclusività creato dalla severa politica del locale—una politica che Sullivan considera "più un espediente che elitismo"—fece sì che i frequentatori del locale ci si recassero con fervore quasi religioso per ballare e farsi notare. "Il Wag era un locale da ballo. Non c'erano i cellulari a quei tempi. Se avessi un locale oggi li vieterei. Avevamo vietato le macchine fotograiche al Wag, e non era per proteggere le celebrità o robe del genere. Non era permesso filmare", dice. "Nessuno stava a fissare il DJ come un allocco. Nessuno si fermava a guardare Paul Weller o Todd Terry. Quando ospitavamo delle band c'era un limite di 45 minuti per il concerto. Usavo le band per far entrare la gente, ma poi volevo che ballasse."

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Con i suoi duecento clienti abituali—una cricca composta da artisti laureati e fashionisti—e un'atmosfera sfacciatamente glamour, il Wag si fece un certo nome a metà anni Ottanta. "La nostra piccola industria fu raccolta al volo da The Face e i-D che mi chiesero di scrivere articoli su James Brown e Tito Puente, perché nessuno sapeva nulla di quella roba a quei tempi, a meno che non avesse sessant'anni", dice Sullivan. "E questo rese famoso il club a livello nazionale. Da qui partì l'idea della musica dance come formula".

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Per quanto possa sembrare strano adesso, questo locale nel cuore della grigia ed eccentrica Soho, dove si poteva trovare gente vestita come "Rita Hayworth o Little Bo Peep o Robin Hood" che ballava su dischi di Art Blakey, è stato fondamentale per la storia della club culture in UK. Naturalmente c'erano stati altri locali prima dell'apertura del Wag, e già da un decennio o due i giovani avevano scoperto il piacere di abbandonarsi alla musica alta dentro a stanze buie e calde. C'erano state le feste sperimentali degli hippy e le notti bianche Northern Soul, ma il Wag sostiene Sullivan, fu dove le cose presero davvero forma. "Eravamo un club veramente altrernativo. Eravamo ottusi. Cercammo di creare una piccola bolla solo per noi fuori dal West End. Perché il West End allora era già simile a com'è adesso. Grandi locali di proprietà di aziende turistiche con prezzi proibitivi e giganteschi buttafuori stronzi dappertutto, che suonavano solo musica da classifica. Esattamente come fanno oggi. Per cui noi creammo una nicchia". Quella nicchia, che fu di fatto uno spazio in cui la musica nera di varie forme era totalmente integrata, è, in gran parte, diventata la norma. Era un posto per evadere.

Altri locali seguirono l'esempio e l'house e l'hip-hop divennero pilastri culturali, e arrivarono le estati dell'amore e i DJ superstar. E ora siamo qui, a Soho, a guardarla sbiadirsi, a guardare la vitalità tramutarsi in vacuità e banalità. Il Wag chiuse nel 2001. Da allora, innumerevoli altri locali hanno fatto la stessa fine. I club, mi viene in mente parlando con Sullivan, non sono nulla senza clubber. Il nostro club è la nostra vita, un luogo di riposo e di devozione. Porteremo sempre con noi i ricordi. Per migliaia di persone, il Wag era quel club, e quei ricordi rimarranno in circolazione finché l'ultimo membro non si porterà la tessera nella tomba.

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Subito prima che Chris Sullivan s'infili il cappello e si reimmerga nel caldo cocente del pomeriggio, gli faccio un'ultima domanda. C'è mai stato un momento in cui ti sei sentito intimidito da tutte le celebrità che entravano dalla porta? Sullivan sorride. "Soltanto una volta", dice. "Brad Pitt venne al Wag con Tom Cruise una sera. E tornò a casa con la sorella di un mio amico! Ma nessuno se ne curò. L'unica persona a cui tutti prestarono veramente attenzione era Prince. Arrivò con quattro guardie del corpo enormi, io gliene lasciai portare dentro due, lui chiese dell'area VIP e poi rimase tutto il tempo al bar. Tutti lo guardavano. Perché era davvero molto basso".

Ride, paga il suo caffè, e se ne va.

Chris Sullivan Presents the Wag uscirà il 10 giugno per Harmless Records.