Cultura

La seconda stagione di The End of the F*** ing World è inutile, ma anche meglio della prima

Salute mentale, responsabilità e coming of age. La trama della seconda stagione è un po’ ridicola, ma i temi trattati e i momenti d’introspezione bastano per passarci sopra?
Vincenzo Ligresti
Milan, IT
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Attenzione: il pezzo contiene spoiler su The End of the F***ing World.

“Perché più devi dire e più è difficile parlare?” “A volte sono così stanca che sento di non avere contorni netti.” “A volte puoi scegliere di non fare la stronza.” Questi sono solo alcuni dei mille pensieri che balenano in testa ad Alyssa (Jessica Barden) durante la seconda stagione di The End of the F*** ing World, uscita lo scorso cinque novembre su Netflix.

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La prima stagione era stata trasmessa inizialmente su Channel 4, si basava sulla graphic novel di Charles Forsman, e a critica e pubblico era piaciuta parecchio: la commedia nera era talmente assurda da riuscire a raccontare i disagi di un certo tipo di adolescenza—sfigata, introspettiva, avvilente—in maniera tangibile. Senza fighi della scuola, con humor britannico, molte inquadrature alla Wes Anderson, ma senza colori pastello.

Riassumendo molto, per chi non ricorda a che punto fossimo arrivati: l’Alyssa di cui sopra e James (Alex Lawther), lo psicopatico che non lo era, partono alla ricerca del padre di lei, un egoista che vive in una casa-roulotte di fronte all’oceano. Prima di giungere alla meta, James ammazza un viscido professore universitario che sta tentando di stuprare Alyssa; poco dopo essere arrivati alla meta, James viene colpito da un proiettile mentre cerca di scappare dalla polizia. Sarà morto, oppure no? Sipario.

Sarebbe stato bello rimanere col "dubbio." E invece no, perché quando un prodotto seriale ha successo—anche se il testo su cui ti basavi è finito, anche se a livello narrativo non è affatto necessario—di questi tempi la tendenza è portarlo avanti finché si può. E così, irrimediabilmente, pur migliorando alcuni punti di forza (che vedremo in seguito), la seconda stagione di The End of the F*** ing World risulta straniante, soprattutto a livello di trama.

Innanzitutto, colgo l’occasione per sottoscrivere l’intento di creare una petizione su change.org allo scopo di evitare, da ora in avanti, l’inserimento di personaggi a cazzo che giustifichino la prosecuzione di una serie. Nella terza stagione di Tredici è capitato con Ani, una ficcanaso piombata dall’alto e odiosa quanto Tokyo de La Casa di Carta; nella seconda stagione di The End of the F*** ing World c'è Bonnie (Naomi Ackie), che vuole a tutti i costi ammazzare i due protagonisti perché colpevoli di aver ucciso l’amore della sua vita.

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Sì, perché ovviamente James è vivo, oddio-non-me-lo-aspettavo, vive nella sua macchina e dopo quasi due anni, e senza più il padre, continua a inseguire Alyssa, che nel frattempo si è trasferita in un posto dimenticato da Dio e passa le sue giornate a lavorare nella tavola calda di sua zia—senza però tutta quella verve di Myss Keta prestata al video promozionale (dal risultato un po’ cringe) lanciato sui social di Netflix Italia.

Tutto questo per dire che lo sviluppo narrativo della seconda stagione risulta piuttosto prevedibile, ma dato che un po' da sempre quello che succede ai personaggi in questa serie è più un escamotage per trattare tematiche importanti—di solito accennate nei voice over, scritti dall'autrice Charlie Covell—la serie in questo senso diventa ancor più interessante.

Alyssa è l’indiscussa protagonista della seconda stagione, e la sua nuova storia introduce ufficialmente un argomento delicato come quello della salute mentale, raccontando esattamente cosa sia l’anedonia, uno dei sintomi più comuni dei disturbi dell’umore.

La protagonista di base ha un brutto carattere, il contesto in cui è cresciuta non ha aiutato e all’età di 19 anni ne ha passate un bel po’, al punto di sperimentare “l’incapacità di provare appagamento o interesse per attività comunemente ritenute piacevoli.” C’è un momento in cui ricorda tra sé e sé che prima il cibo le piaceva; o un altro in cui crede di essere un “fantasma.” Per cercare di provare qualcosa, si sposa pure con un ragazzotto del paese.

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L’importanza del personaggio di Bonnie, pur risultando forzato, sta invece nel rappresentare uno dei più grandi temi in cui molti ragazzi possono ritrovarsi: la solitudine. È una sorta di promemoria ambulante del fatto che il senso di esclusione possa farti ingabbiare da una madre troppo rigida, fregare dall’uomo sbagliato, incappare in una relazione tossica, fino a trasformarsi in ossessione per qualcosa che non esiste. “Il problema di una persona a cui manca l’amore è che non lo riconosce,” dice Alyssa, da antieroina, sulla storia della finta antagonista.

Insomma, se la prima stagione trattava la tematica dell’adolescenza, la seconda è più un’accennata allegoria del coming of age, del passaggio all’età adulta. Tocca temi come l’ansia per il futuro, il voler sottostare o meno alle aspettative sociali, se avremo mai una posto in cui vivere decente. Proponendo un racconto di finzione in cui ci sono dei personaggi che cercano di capire “qual è il punto di tutto” questo fot**** mondo al posto nostro, con l’aggiunta di qualche momento splatter che non guasta mai.

Mettendo in conto tutti questi aspetti, l’esistenza della seconda stagione trova, volendo, una sua giustificazione. Non è affatto perfetta. È carina e a tratti fastidiosa, come la prima, ma in un modo completamente diverso—paradossalmente molto meno sensato e più profondo.

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