La storia della trilogia del dolore di Neil Young
Neil Young nel 1971, fotografia di Henry Diltz.

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La storia della trilogia del dolore di Neil Young

Con l'avvento degli anni Settanta, Neil Young pubblicò tre album intrisi di eroina, morte e disillusione per la fine del sogno hippie.

Ho paura che un giorno o l'altro mi possa arrivare la notizia della morte di Neil Young. È da qualche mese che mi capita di rifletterci, e ogni volta non riesco a non essere triste al pensiero. Troppo lungo e personale sarebbe provare a spiegarvi i vari motivi di tutto questo. Mettiamola così: Neil Young per me è un fedele amico. C'è sempre stato e per questo una sua eventuale dipartita aprirebbe in me un vuoto cosmico.

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Recentemente il cantautore canadese ha rilasciato un'intervista in cui ha dichiarato, scorbutico come da copione per la sua età avanzata, che il giorno in cui apprenderemo del suo ritiro vorrà dire che sarà morto. Ecco, questa affermazione (che probabilmente nelle intenzioni di Young avrebbe dovuto avere un effetto rassicurante), insieme a un'età che fisiologicamente si avvicina al giorno x, mi ha ulteriormente fatto pensare a quanto siamo destinati a perdere.

È vero, non ci sono particolari segnali che farebbero pensare a una fine che si avvicina, anzi. In questi giorni su Netflix è andato online il film Paradox, diretto dall'attrice e attivista americana nonché compagna del cantautore canadese Daryl Hannah, mentre ad aprile uscirà un suo nuovo, ennesimo album dal vivo intitolato Roxy: Tonight's the Night Live. Inoltre Young continua a dar sfoggio di una prolificità artistica che molte nuove leve non possono che invidiargli. Pensiamo alle tournée, alla continua produzione di album. Ma anche all'ultimo progetto degli Archives, o al fallimentare lettore mp3 ad alta qualità Pono, entrambi argomenti di cui ha parlato recentemente con Noisey US.

Eppure occorre cominciare a razionalizzare il fatto che un giorno dovremo affrontare questo mondo che va sgretolandosi senza poter far riferimento sulla sua presenza rassicurante. Pensare che avremmo a che fare con il dolore della sua assenza. Il dolore, appunto: se penso a un artista che è stato potenzialmente capace di alleviare il dolore sentimentale e umano di ognuno di noi, penso a Neil Young prima che a molti altri. Ecco perché nelle ultime settimane ho passato ore e ore ad ascoltare quella che viene definita la sua Trilogia del dolore (The Ditch Trilogy), pubblicata tra il 1973 e il 1975.

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Per molti Neil Young è e resta il tizio di Harvest, quello delle ballatone d’amore da tirar fuori durante i falò estivi . Per altri ancora è quello della lettera d’addio con cui Kurt Cobain mandò a fanculo tutti, una volta per tutte. Per chi scrive, Neil Young è quello degli assoli lunghi una Quaresima, della voce spezzata e delle crisi schizofreniche. È quel tipo che entrò negli anni Settanta barcollante con la morte nel cuore e ne uscì integro, nonostante tutto.

Young era entrato nel decennio abbastanza lanciato. Dopo la parentesi nei Buffalo Springfield e la partecipazione al supergruppo Crosby, Stills, Nash & Young, esperienze che gli spalancarono le porte di una carriera solista, aveva pubblicato ben quattro album in altrettanti anni tra cui il capolavoro Harvest, che divenne presto disco di platino. Il passo successivo sarebbe dovuto essere, nelle opinioni dell'epoca, un grande successo commerciale. Ma se ricordate bene, e i fan più attenti lo ricorderanno, in esso era soprattutto contenuto quello che sarebbe diventato l'archetipo youngiano di un certo modello di canzone decadente impregnato dal tema degli abusi: "The Needle and the Damage Done".

È proprio nella traccia numero nove di Harvest che affondano le radici della Trilogia del Dolore di Young. Il brano, registrato dal vivo durante un'esibizione a Los Angeles nel 1971, raccontava della caduta nell'eroina di alcuni musicisti che gravitavano attorno a lui. In particolare il testo faceva riferimento a Danny Whitten, chitarrista dei Crazy Horse, cioè la band che accompagnava Young dal vivo: "Sono arrivato in città e ho perso la mia band / Ho visto l'ago prendersi un altro uomo / Via, via, il danno è fatto". Da lì a qualche mese, Whitten sarebbe morto di overdose. The Needle and the Demage Done rappresentava quindi l’avvisaglia che qualcosa di oscuro andava profilandosi all'orizzonte.

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Tra il '72 e il '73 l'innocenza del ragazzo di provincia aveva lasciato spazio al cinismo del mondo rock'n'roll. Nella versione contenuta in Live at Massey Hall, l'esecuzione del brano veniva infatti preceduta dal seguente sermone di Young: "Da quando ho lasciato il Canada spostandomi giù al sud ho scoperto tante cose che prima non conoscevo. Alcune di queste sono buone, altre cattive. Sono andato a vedere grandi musicisti prima che diventassero famosi, quando ancora non erano nessuno […] e ho ascoltato anche un sacco di grandi musicisti che poi, per un motivo o per l'altro nessuno avrebbe mai più ascoltato. Ma la cosa più strana è che quelli veramente bravi non li potrete ascoltare mai più, per colpa… dell'eroina. E continua a succedere ancora. Per questo ci ho scritto su una piccola canzone”.

Fu poi il momento di Time Fades Away, On the Beach e Tonight's the Night. Tre album. Una fotografia perfetta, per quanto fuori fuoco e allucinata, di quello che è stato il triennio più nero dell'intera carriera artistica del cantautore canadese. Un viaggio segnato dall'atroce urlo di rabbia di Neil in seguito alle scomparse per overdose, avvenute nell'arco di pochissimi mesi, del sopracitato Danny Whitten (18 novembre 1972) e del roadie Bruce Berry (4 giugno 1973).

La reazione di Young ai due tragici eventi fu violenta. Anziché chiudersi in se stesso reagì furiosamente come un pugile ferito, stordito da litri e litri di tequila. Su Rolling Stone, il giornalista Paul Nelson scriveva: “Come i migliori cantanti blues tradizionali, Neil Young sembra totalmente solo sul palco, in un modo che non appartiene a nessun altro interprete contemporaneo […] testa bassa, mento piegato sulle spalle come un pugile, ti scruta con quegli occhi onniscienti, pieni di umorismo e che trasmettono bagliori estatici e sorrisi sornioni. Come Muhammad Ali, potrebbe essere il più grande”.

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Pubblicato il 15 ottobre 1973, Time Fades Away fu il primo capitolo della trilogia. Un disco live, contenente brani mai incisi prima, in cui si percepiva tutto l'umore negativo del momento. Il tour partì infatti solo due mesi dopo la morte di Danny Whitten, che avrebbe dovuto fare parte della band di supporto ma che, non essendo in grado di ricordarsi un solo assolo, venne rispedito a Los Angeles: aneddoto-riflesso del clima assurdo che per oltre sessanta concerti (spalmate su novanta giorni) avrebbe circondato Young e la sua band.

Un uragano turbolento in cui chitarre soft-rock ("Don’t De Denied", "L.A.", "Yonder Stands the Sinner") si alternavano a suite acide ("Last Dance") ma anche alla dolcezza di ballate malinconiche ("Journey Through the Past", "The Bridge" e "Love In Mind"), e in cui l’imperfetta e stridente voce di un Neil Young emotivamente a pezzi finiva per farla da padrone ("Era un tour scomodo, nient'altro. Mi sentivo un prodotto, e avevo questa band di musicisti superstar che non riuscivano neanche a guardarsi negli occhi"). A far da contorno alla schizofrenia del live vi era poi un pubblico scioccato di fronte a un artista che, una volta salito sul palco, cercava di demolire ogni convenzione a colpi di deliranti sferragliate. Lui stesso anni dopo avrebbe definito Time Fades Away “il peggiore album che abbia mai fatto, ma visto che l’intento era quello di documentare quel periodo è comunque un bel disco”.

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Terminata quella che in molti definirono la fallimentare tournée di Time Fades Away, Young decise di spostarsi dall'abbagliante luce dei riflettori. Non troppo a lungo, però. Quattro mesi dopo tornò in studio per incidere quello che sarebbe diventato Tonight’s the Night, l’album più pessimista della sua intera discografia. Al fardello della morte di Whitten nel frattempo si era aggiunto quello della scomparsa del roadie Bruce Berry. Accompagnato dai Santa Monica Flyers, nell’agosto '73 Young si chiuse ai Sunset Sound di Los Angeles, dove registrò la traccia che da il titolo al disco, un country-blues stonato dedicato a Berry:

“Bruce Berry era un lavoratore / Caricava quel furgone dell'Econoline / Aveva una scintilla negli occhi / Ma il fegato in mano".

E ancora: "Di notte, quando non c'era più nessuno / Prendeva la mia chitarra / E cantava una canzone con una voce tremante / Vera tanto quanto il giorno era lungo". Strascichi di delirio convinsero però Young che uno studio non era il luogo adatto per registrare quell'album, così spostò baracca e burattini in una piccola sala prove di Los Angeles. Qui, con i Santa Monica Flyers, passò intere nottate a farsi, bere, giocare a biliardo e registrare in presa diretta.

Ne uscì fuori un album buio e deprimente. Una sorta di concept sulla perdita e sulla distruzione. Ma nonostante il clima tetro, come riassunto da Pitchfork, Tonight’s the Night suonava "come una festa chiassosa organizzata da un gruppo di adorabili zucconi che si stavano divertendo come mai nella loro vita". Una festa malinconica che scivolava sulle note desolanti di "Tired Eyes" e "Mellow My Mind", in cui gli acuti del canadese enfatizzavano in maniera agghiacciante dolore e lutto; una seduta pagana in cui Young decise di fare i conti con i propri demoni (ripescando una registrazione di "Come on Baby Let's Go Downtown" con Whitten alla voce), sensi di colpa e con il peso della celebrità (manifestato aspramente in "World on a String" e "Albuquerque"). Per volontà dell'etichetta, la Reprise, il disco venne messo in stand-by e pubblicato solo due anni dopo, nel 1975.

Evidentemente l’etichetta si aspettava che un filo di luce tornasse a illuminare il buio interiore di Young il quale, dopo una serie di concerti, rispose con un altro disco piuttosto tetro, nonostante il titolo: On the Beach. Nel terzo capitolo della trilogia (o il secondo, se si considera l'ordine di pubblicazione), Young direzionò la propria rabbia verso ciò che lo circondava. I testi di OTB erano infatti incentrati più sullo stato delle cose politico-sociali ("Ambulance Blues", "Vampire Blues", "For the Turnstiles"), sulla fine di ogni barlume di speranza hippie ("Walk On", "Revolution Blues") e sul rapporto giunto al capolinea con la moglie Carrie Snodgress ("Motion Pictures (for Carrie)", "See the Sky About to Rain"). Il mood generale del disco alternava uno strano umorismo al solito dolore con il quale Neil Young sembrava non riuscire venire a capo. Suonava però, seppur intinto in una cruda e lacerante malinconia, molto più compassato di Tonight's the Night (secondo molti a causa degli intrugli culinari a base di hashish preparati durante le registrazioni dal violinista Rusty Kershaw).

"Ci sono periodi di depressione, di euforia, di ottimismo e scetticismo. Vanno e vengono come onde. Vai in spiaggia e guardi sempre la stessa cosa, come se ogni onda fosse un diverso insieme di emozioni. E continueranno ad essere sempre uguali, finché deciderai di non ignorarle", ha spiegato Young. Molti dei brani di On the Beach davano l'impressione di essere solo abbozzati, scarni e nervosi. Come se, inerme davanti alle più cupe emozioni, non avesse sentito il motivo di portarli a compimento. Deve essere proprio quella incompiutezza di fondo che ancora oggi porta chi li ascolta a cercarvi rifugio. Devo ammettere che calarmi per settimane in questi tre anni della vita artistica di Young non ha allontanato quei pensieri di cui parlavo all'inizio. Anzi, ne sono uscito ancora più angosciato. Forse dovevo seguire il consiglio del vecchio Neil: "Non mi aspetto che la gente ascolti sempre la mia musica. A volte è troppo intensa. Se sono le undici di mattina e vuoi ascoltare un disco, non mettere Tonight's the Night. Metti i Doobie Brothers". Puoi trovare Marco su Twitter: @frattweet. Segui Noisey su Instagram e Facebook.