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Musica

La colonna sonora di Non aprite quella porta è il terrore fatto suono

Le musiche di questo capolavoro horror sono talmente inquietanti che sono state censurate più del film stesso.

"Girare [la scena del banchetto] è stato il momento peggiore della mia vita… e io sono stato in Vietnam, dove la gente mi voleva ammazzare."
Edwin Neal, l’autostoppista

Quando uno pensa ad agosto, pensa a un mese nel quale l’unico obiettivo è di evadere dalla realtà, divertirsi, viaggiare verso mete spensierate. Almeno questo è quello che uno si augura: poi però dietro a questa facciata si trova magari l’abisso di un vissuto che è davvero “tanto staccato” da risultare assurdamente vero, più che reale (due termini ben diversi). Guardiamo gli ultimi fatti di cronaca: pura follia. Sembra però che nulla impedisca alla gente di organizzare party tanto per farli, spendere i soldi per disperazione fingendo che sia un lusso, insomma di venire inghiottiti in un gorgo di brutale insensibilità mentre tutto intorno crolla consumandosi in contraddizioni irrisolte. Sì, magari vi apparirò incredibilmente pessimista ma è il pretesto per parlarvi di un film che anche oggi, a distanza di anni e anni, sembra inquietantemente profetico se non completamente attuale. Nessun regista di nuova generazione potrebbe carpire allo stesso modo il reale umore di un periodo storico come quello che stiamo vivendo.

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Non aprite quella porta ( The Texas Chainsaw Massacre, 1974) del compianto Tobe Hooper è senza dubbio il simbolo di una devastante idiozia mortifera che sembra non avere fine, ma soprattutto è la sua colonna sonora a portarci anche oggi degli elementi nuovi, che forse sono l’unico grimaldello per ritornare a sentire qualcosa, non solo con le orecchie ma proprio con tutto il nostro essere, separando gli occhi, oramai abituati a qualsiasi tipo di atrocità, dalle orecchie e dal suono. Che raramente ci può mentire.

Ma andiamo un passo per volta, magari attraversando le mie esperienze di bambino: agosto dei primi anni Ottanta, ci troviamo in una casa nel Pontino, una volta fattoria, piazzata in campagna accanto al cimitero cittadino. Sibilano le fronde, il vento ulula, rospi e grilli disseminano strani rumori nell’aria, non meglio identificate porte cigolano e i cani abbaiano in sequenze sparse. In città osservo le locandine dei film horror di Lucio Fulci, Dario Argento; immagino le trame dei film, già vedo gli zombi uscire dalle tombe e trascinarsi verso casa mia.

A dieci anni esatti, anno 1986, fui invece attratto dalla locandina di Non aprite quella porta 2, forse il sequel più sottovalutato della storia, una commedia horror sul filone di Un lupo mannaro americano a Londra, un esperimento crossover tra film comico, gore, d'azione e giovanilista. La locandina mi faceva cacare sotto per riflesso: nella mia testa comparivano ancora le immagini dei trailer del primo eccezionale capitolo, uscito nel 1974, il quale si svolgeva in un’ambientazione molto simile ai miei mitici luoghi di villeggiatura estiva. Case apparentemente abbandonate, fieno, sterpaglie incolte, fattorie inquietanti, un buio che incombe su una campagna che diventa un vero e proprio “mostro”: di mattina oasi meravigliosa, con le tenebre terrore desertico. E poi il caldo d’agosto, asfissiante, e le sue piogge tanto fresche quanto violente. Ricordo vere e proprie tempeste causare una carneficina di volatili letteralmente strappati via dagli alberi e dai loro nidi per sfracellarsi inermi sull’asfalto. Una realtà più horror di un film horror, insomma.

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Le riprese di Non aprite quella porta vengono completate il 14 agosto 1973 e narrano d’immaginari avvenimenti accaduti il 18 agosto dello stesso anno, quando un gruppetto di giovani in vacanza “on the road”, capitanati da Sally Hardesty e dal suo fratello paraplegico Franklin, vengono assaliti da una famiglia di cannibali impazziti, tra i quali la grandissima icona horror Leatherface, un uomo mentalmente disturbato, alto e grosso come un armadio a due ante e dedito alla brutale macellazione di esseri umani. Gli altri elementi della famiglia pure non scherzano, ma non farò certo spoiler in primis perché è inutile, e poi perché magari qualche individuo di primo pelo non ha ancora avuto il piacere di vedere questo film allucinante.

Nella mente di Tobe Hooper, il coraggioso regista, Non aprite quella porta rappresentava una critica spietata ai costumi americani del periodo, e non si salva nulla. Gli hippies dipinti nel film sono dei veri e propri cretini che vanno al macello non riuscendo neanche a cogliere i segnali che giungono dall’astronomia o dalla magia, ultima spiaggia della loro salvezza giacché la scienza non la calcolano proprio, né riescono a capire i palesi disastri che gli si dipanano sotto il naso caricando psicopatici a caso sul van nel segno del “peace and love”.

Non si risparmiano nemmeno i diversamente abili, dato che Franklin, come notato da Pierluca Zanda della 148 Produzioni in una nostra recente discussione, dalla sua sedia a rotelle porta tutti al massacro come un novello Caronte. Non solo per la sua fissazione per vedere la vecchia casa di suo nonno a tutti i costi, ma anche comportandosi proprio come l’autostoppista/maniaco sovracitato, facendo le stesse boccacce e in qualche modo condividendo anche i gusti di quelli che poi saranno i suoi assassini (l’alto gradimento per la carne e la macellazione delle bestie, ad esempio). In pratica è la versione speculare “in positivo” di Leateherface, una faccia della stessa medaglia d’emarginazione. Di contro, i cattivi sono dei personaggi oramai maciullati, digeriti e cacati, schiacciati e geneticamente modificati dal capitalismo americano, inanimati figli del Vietnam, dei deficienti all’ultimo stadio che oramai non hanno più niente in mano se non l’assassinio come unico modo per stare al mondo, ovviamente brutalizzando tutti e soprattutto se stessi in una specie di sadomasochismo infinito.

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Ovvio, poi, che l’eroina sia una donna, anche se Sally è una specie di amazzone inconsapevole che si salva solo arrivando alla follia pura, quasi accettandone l’inevitabilità. È questo l'unico modo per reagire alla lucida follia dei suoi aguzzini, che rappresenta a questo punto non solo l’America, ma tutte le situazioni politico-sociali in cui la depressione da provincia e la trasformazione da persona a oggetto, da lavoratore a numero, creano le de-espressioni di pura energia distruttiva reazionaria (che come in un disco dei Big Black vanno dall’antropofagia all’accoppiamento tra consanguinei). Insomma, più o meno quello che sta succedendo oggi negli USA e in Italia. Il voto come espressione di un rancore illogico verso la vita.

Se il film è stato bandito a corrente alternata fino al 2011 a causa della sua violenza emotiva, in cui chiaramente il torturato nel film e lo spettatore nelle sale sono la medesima persona (e pochi film sono così duramente empatici), la colonna sonora allo stesso modo non ha mai avuto un’edizione ufficiale, come se si volesse tenere nascosta. Solo bootleg, edizioni in cassetta fatte in casa, mai una ristampa. Sembra proprio che questo score desse più fastidio del film in sé.

E, in effetti, trattasi di una specie di catastrofe sonora buttata in faccia all’ascoltatore inerme, di una potenza micidiale, tanto che metà delle uscite noise degli ultimi tempi sembrano una cazzo di barzelletta sulla settimana enigmistica rispetto a questo capolavoro. Capolavoro studiato a posteriori da gente come i Wolf Eyes del periodo d’oro, perché si basa su un paio di elementi importantissimi: il disastro improvvisativo e l’editing. A questo proposito Wayne Bell, geniale coautore della colonna sonora e ingegnere del suono, ha detto a The Quietus: “Uno dei maggiori punti di forza di Tobe era come editor, e anch'io venivo da una storia di editing, quindi eravamo una coppia perfetta, con l'idea che avremmo raccolto una certa mole di lavoro e poi l'avremmo composta tramite l'editing invece di suonarla in ordine. Abbiamo fatto diverse sessioni e suonato varie cose che avrebbero avuto il suono giusto, essenzialmente abbiamo creato una biblioteca di cose, di performance. Non abbiamo sonorizzato direttamente il film, ma lavorato per idee: 'questa è tensione', 'questa è la stanza delle ossa', 'questo è l'inseguimento'".

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La cosa peculiare di questa colonna sonora, infatti, è che lo stesso regista fa parte del processo compositivo, spostando e applicando l’idea di montaggio anche alla musica, forse prendendo spunto anche da Teo Macero, produttore di Miles Davis. Profondi delay analogici che rovistano negli echi di un subconscio scisso in cui la malattia è abisso irrecuperabile, un ammasso di suoni cacofonici che creano un gomitolo di repressione attiva, quasi un’eruzione che non arriva mai al climax giusto, un bad trip di LSD descritto perfettamente in un certosino sound design ante litteram.

Il tema principale, infatti, è composto di un suono illogico e gracchiante che in teoria pare uno stretch digitale di uno strumento a corde elaborato col computer, in realtà all’epoca il procedimento era praticamente impossibile da realizzare. Al contrario sembra che lo stesso Bell sia anche oggi capace di riprodurlo dal vivo, senza nessun tipo di additivo effettistico, ma si è sempre rifiutato di rivelare come. Molti dicono che si trattasse di uno strumento a corde attaccato a un tamburello africano, chiaramente customizzato per l’occasione, mentre per anni è stato confuso con il suono di un animale condotto al macello. Rimane il mistero.

Lo score è comunque tagliato con il machete dell’editing, massacrato quasi come le vittime del film. È quello che fa la differenza, perché l’orecchio sembra veramente “attaccato da più parti”, all’improvviso, come se incombesse alle spalle il killer. Si respira un’atmosfera di perenne stato di vuoto pneumatico, una caduta verticale ben enucleata da sapienti maneggiamenti reel to reel che rievocano i pionieri della musica elettronica anni Sessanta, ma in caduta libera. La musica concreta viene presa di peso e “volgarizzata” nel senso più nobile e “pop” del termine, con tanto di piani preparati, strumenti giocattolo, una lap steel guitar, un contrabbasso, numerosi oggetti di metallo fatti letteralmente rantolare e, dulcis in fundo, la radio, che manda un notiziario inquietante che è il fulcro delle prime scene.

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Ma si va per sottrazione, per lente sovrapposizioni a scomparsa, un dinamismo che nasce per non far riposare l’udito, una sottrazione che vive nell’eccesso degli elementi sonori in gioco. Gran parte degli strumenti usati è letteralmente brutalizzata, come ad esempio un dulcimer di cui alla fine della fiera rimane pochissimo, solo le macerie. Sono inseriti anche veri grugniti di maiali (molto prima de "Le secche del delirio (per porci e pianoforte)" di Walter Marchetti, nonché di grilli e cicale, qualcosa di apparentemente innocuo che invece uccide il resto del soundscape grazie alla sua presunta innocenza. Opportunamente trattati, creano una scenografia sonica in cui lo stesso ascoltatore è complice del sacrificio generale. Il suono lo porta, infatti, a immedesimarsi sia nella vittima sia nel carnefice, in un fatalismo quasi da tragedia greca.

Si tratta di una voluta via di mezzo tra suono e rumore, come dalle parole di Bell, opportunamente mescolato per dare un’idea della realtà (il field recording) trasfigurata dall’incubo (il suono del massacro introiettato). Questa colonna sonora viaggia anche sui temi della predizione: l’allucinata nefandezza e amoralità del suo suono anticipa ogni azione criminosa presente nel film, ne fa una tana di topi, in cui ogni personaggio può disintegrarsi come preferisce, e decomporsi come la carne umana che vediamo abbondare nella casa della famiglia impazzita.

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La scena del banchetto a questo proposito parla chiaro. Infatti, alle lisergiche botte di echo e all’ammasso di cadaveri sonori corrisponde una pila “scenografica” di veri cadaveri di cani in putrefazione sul set, il cui olezzo incredibile portò gli attori a svenire e vomitare fuori dalla finestra. A causa del rifiuto di John Dugan di sottoporsi per più di una volta alle 5 ore di trucco richieste per applicargli la faccia del "nonno", la troupe finì a girare per 36 ore di fila, nel caldo asfissiante e in mezzo a carne in decomposizione. Fu talmente provante, psicologicamente, che Gunnar Hansen, che interpretava Leatherface, finì per pensare di dover davvero ammazzare la povera Sally (Marilyn Burns).

Nella scena del banchetto ci troviamo quindi di fronte alla riduzione sonora di quest’ambiente malsano, possiamo addirittura sentirne la puzza. È un incredibile assalto emotivo, in cui la steel guitar ricama onde anomale come fosse un sintetizzatore, esplodendo poi all’interno delle grida della protagonista mischiate a grugniti animaleschi, a urla umane modificate e alle risate maniacali della famiglia di pazzi: l’orecchio cerca dei punti di riferimento impossibili e viene disorientato come se il cervello esplodesse in mille pezzi, come se ogni fenomeno fosse già messo in conto dagli assassini che cercano di chiudere continuamente, appunto, porte che non dovevano essere aperte.

La violenza dei suoni del film è insomma, senza dubbio, proto-noise prima di Maurizio Bianchi e della sua musica bionica, e intuisce una linea di confine che più avanti diventerà la prassi nell’underground. Ma è anche proto-industriale, appena un anno prima della fondazione dei Throbbing Gristle e in contemporanea con gli esperimenti live “estremi” dei Grateful Dead, prima di qualsiasi provocazione anni Novanta sul tema (vedi ad esempio i NIN, ovviamente in linea con certi vissuti negativi), con solo qualche presagio white noise nella colonna sonora de La notte dei morti viventi di Romero o ne Gli uccelli di Hitchcock.

Il disgusto provato da Hooper e Bell è però forse il primo in assoluto a sintetizzare un sentimento che dal 1975 in poi sarà sviluppato su larga scala. Qualcosa che viene musicato, tra l’altro, con abbondanza di basse frequenze, una roba da subwoofer prima delle tendenze di oggidì, con un continuo sferragliare meccanico che sottintende una certa assenza di anima a favore invece di esseri umani macinati dagli ingranaggi del potere e ridotti a meri scheletri (non a caso Hooper incalzava Bell in questo modo: ”insomma, non stai componendo una fuga ma ricreando il suono delle ossa!”), una morte psichedelica che spappola qualsiasi cosa prima ancora di incontrare le sue vittime.

Lo scienziato cognitivo Domenico Parisi afferma: “Se una sequenza di suoni è totalmente impredicibile dal punto di vista della figurazione ritmica o della sostanza melodica, la musica può essere udita ma non ascoltata e non viene (di norma) apprezzata”. Ma possiamo dire che la colonna sonora di Non aprite quella porta, col suo estremismo, è riuscita invece nel miracolo di arrivare alle masse incolte della modernità senza compromessi, toccando naturalmente quelle corde che sono mille metri sotto la melodia, quella che è astutamente presente nella restante parte della colonna sonora: brani di autori country che costellano la pellicola in una specie di gioco stile Arancia Meccanica, musiche non meno importanti, ma accessorie rispetto al resto. È la melodia che bussa dalla bara, chiedendo vendetta? Niente affatto, anzi, la melodia stessa getta la maschera per rivelare quello che si nasconde davvero dietro di lei. Ovvero Leatherface nella scena finale, che dà vita a una dolorosa sinfonia per versi inconsulti e frustranti botte di sega elettrica random contro un cielo di brace, in un agosto disastrato. Siamo noi, siete voi, sono loro, siamo tutti, in un Texas da bruciare chiamato mondo.

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