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L'autrice. Foto per sua gentile concessione.
Attualità

'Troppo marocchina per essere italiana, troppo italiana per essere marocchina'

Come molti figli “misti” non sono bianca, non sono nera: so soltanto quello che non sono.

Mi chiamo Emanuela. Sono nata in Italia da padre marocchino e madre italiana. Ho un cognome maghrebino che la gente si rifiuta di imparare a pronunciare. A volte per educazione mi chiede come si dice e poi lascia perdere in fretta, anche se non è poi così difficile. A volte va a tentativi guardandomi di sottecchi per vedere se ci ha beccato. Io, a seconda del loro grado di autorità, decido se correggerli o meno. Di solito sto zitta.

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Anch’io, come molti, in questo periodo mi sono trovata a riflettere su razzismo e privilegio—mossa principalmente dall'attenzione per le proteste per l'omicidio di George Floyd e il tema delle discriminazioni contro le persone nere in primis, e di colore più in generale, nella società occidentale. Ma l’ho fatto da una prospettiva che torna ciclicamente a galla, e che come me tocca molti figli “misti”: non sono bianca, non sono nera—so soltanto quello che non sono.

I miei genitori hanno fatto tutto ciò che era in loro potere per proteggermi da qualsiasi forma di discriminazione, e per lo più sono riusciti nel loro intento—sacrificando però un cuore pulsante di senso che da che ho memoria bussa alla porta della mia consapevolezza: per essere accettata dalla comunità della nostra piccola punta calabra, la mia famiglia ha sacrificato una parte della mia, nostra, identità.

Mio padre si chiama Alì, è nato a Casablanca ed è musulmano. È arrivato in Italia nel 1985: Salvini andava alle scuole medie e non poteva farci niente. Erano bei tempi, ricchi, spensierati, e approdato in Calabria papà pensò che fosse proprio uguale al Marocco. Si mimetizzava piuttosto bene.

Nonostante la differenza sostanziale di religione, lingua e cultura, il calore della gente era simile, le calde giornate estive familiari, la semplicità del quotidiano una confortante routine nella quale si sentì presto a suo agio. Il suo primo lavoro fu in un maneggio. Non parliamo spesso di cosa siano stati per lui i primi anni da immigrato in Italia, prima che conoscesse e sposasse mia madre, che mia madre convincesse mio nonno ad assumerlo nel suo negozio, e che lentamente raccogliessero i soldi per aprire una loro attività; prima, insomma, che la sua diversità divenisse solo una carta da parati sullo sfondo di chi lo conosceva.

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Quando io e mia sorella eravamo piccole siamo usciti tutti e quattro sul giornale locale in un articolo sulle coppie “interetniche.” La nostra foto di famiglia rappresentava l’ideale dell’integrazione multiculturale di un mondo ormai globalizzato. L’articolo ci contrapponeva, nel bene e nel male, alla “norma.” Eravamo speciali. Eravamo la success story di un nuovo tipo di self-made man: Reggio Calabria come New York.

Nessuno aveva detto al giornalista delle scelte, delle rinunce, dei silenzi, delle strade percorse da mio padre per conquistarsi il suo posto in quel mondo a cui evidentemente non sentiva di avere il diritto di appartenere a priori. Lui stesso, quando gli chiedo se abbia mai subito discriminazioni per essere arabo e musulmano, scoppia a ridere. Probabilmente pensa che, qualsiasi cosa abbia subito o sacrificato, ne sia valsa la pena.

La pretesa nei confronti dei “bravi immigrati,” del resto, è generalmente che se vuoi integrarti devi adattarti alle usanze del paese in cui sei; papà non voleva dare fastidio e non voleva infastidirsi. La sua fede, i suoi riti, le sue tradizioni, li coltiva dentro di sé. A Natale gli regalano il capocollo e lui ringrazia. Nel mese di Ramadan, se è inverno e il sole tramonta mentre lui è a lavoro, si chiude nello sgabuzzino e interrompe il digiuno mangiando un panino in fretta. Si veste sempre in tuta e quando prega prega seduto, a occhi chiusi e senza muoversi.

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Quando ero piccola smise di frequentare la moschea perché, dice, finiva sempre per litigare. Una volta mi disse anche che alcuni marocchini che conosceva lo avevano criticato perché non aveva imposto a me e mia sorella di portare il velo. A lui non importava. Rinunciò presto anche a insegnarci l’arabo: non ce n’era il tempo, dice, io ero lenta a imparare, e lui era stato scoraggiato a insistere.

Nel frattempo c’era stato l’11 settembre e i miei compagni di classe mi chiedevano se mio padre fosse un terrorista. La prima e ultima volta che papà ci lesse il Corano fu qualche giorno dopo l’attentato alle Torri Gemelle, per spiegarci che quello che dicevano al telegiornale sui musulmani non era vero.

Nel frattempo la maestra di religione, quando dichiarai che non ero convinta di voler fare la comunione, fece alzare tutta la classe, li posizionò in cerchio attorno a me e li fece pregare per la mia anima. Mi fu anche precluso di andare agli scout con mio cugino e i miei amici perché non ero cattolica.

Nel frattempo, dopo essere tornata da un viaggio in Marocco che per me aveva significato tantissimo—avevo 13 anni e sentivo di aver finalmente incastrato un pezzo del mio intimo puzzle identitario, anche se non conoscere la lingua significava non poter comunicare direttamente con metà della mia famiglia, non poter realmente conoscere mia nonna, non poter approfondire in modo autonomo le mie origini—i miei amici mi chiedevano se avevo la lebbra perché le mie mani erano dipinte di henna.

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Nel frattempo, la barzelletta “un musulmano entra in un caffè…” faceva sogghignare un po’ tutti. Non aiutò l’infelice coincidenza del mio cognome, che fa rima con bum. Al liceo il mio soprannome fra i compagni era Marocco—“Rocco,” per ridere. Amici di una vita ripetutamente mi chiamavano “ne*ra,” e tutti giù a sganasciarsi. A me non faceva ridere per niente, ma se osavo prendermela era perché non sapevo stare allo scherzo, dicevano; e poi, perché me la prendevo, se non ero nera? Facevano la stessa battuta a un altro ragazzo calabrese, che era più scuro di me. Lui non ci vedeva niente di male. Perché a me dava così fastidio?

 Emanuela Anechoum

L'autrice coi genitori e la sorella. Foto per sua gentile concessione.

Non riuscivo a distinguere se fossi più arrabbiata per come gli altri mi avevano fatta sentire diversa, o per il fatto che in fondo non lo ero. Su quali basi potevo definirmi africana, araba o berbera, non condividendone la lingua, la religione, il colore della pelle e neppure la cultura, e su quali basi potevo affermare di non sentirmi e non volermi sentire bianca?

Vivevo nel privilegio. Tutte le porte mi erano aperte (tranne quelle degli scout cattolici, e forse meglio così). Nonostante i nomignoli e le domande insistenti su alcuni aspetti della mia identità, non ero mai stata vittima del razzismo sistemico della società occidentale. Che diritto avevo di non definirmi bianca, solo perché avrebbe significato rinunciare a metà della mia identità, e in qualche modo rinnegare mio padre e il suo passato? Mi aggrappavo alla verità del sangue: c’era un po’ di Africa in me, e quando sarei stata pronta avrei potuto imparare tutto quello che c’era da sapere.

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Anche per questo fuggii a Londra appena finita l’università. Lì fui facilmente identificata come mixed e mi sentii vista in tutta la complessità del mio retaggio genetico e culturale. Detto questo—come spiega Reni Eddo-Lodge in Why I’m no Longer Talking to White People About Race—persino una città come Londra, che fa del multiculturalismo un brand, in realtà succhia linfa vitale dalle proprie minoranze. Le usa per le pubblicità progresso, ma di fatto le ghettizza in zone sempre più limitrofe della città per far spazio a una rapida gentrificazione, in cui la vera inclusione delle POC riguarda solo chi è riuscito a raggiungere un reddito alto a dispetto del razzismo che permea il sistema scolastico, l’accademia e la ricerca di un impiego.

Nel 2015 a Londra guadagnavo meno del minimum living wage, ma avevo un lavoro in un settore prettamente bianco, ossia quello editoriale. E nonostante il mio reddito basso non ero considerata un’immigrata: ero un’expat. Ero italiana e altamente istruita, quindi considerata intellettuale, quindi chic, quindi posh—e il mio cognome arabo era come la ciliegina sulla torta che mi rendeva ancora più interessante alle cene in cui fingevo sempre di volere solo un’insalata per risparmiare.

Era tutto un nuovo modo di concepire la mia identità, un modo forse tokenistico, ma che mi lusingava. Oggi mi interrogo sul reale significato del multiculturalismo in una città in cui è comunque l’uomo bianco a comandare, e gli immigrati should fake it till they make it.

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Tornata in Italia, tuttavia, quella dimensione mi mancava. Trasferendoci a Roma io e il mio compagno cercammo casa nella zona più multietnica della città, nella speranza che il passaggio in quel modo sarebbe stato meno traumatico; in pochi giorni affittammo un bell’appartamentino fra Esquilino e Pigneto. Qualche settimana dopo la mia vicina di casa, una signora anziana, mi chiese in ascensore se ero italiana. Le risposi di sì, ma qualcosa mi frenò dallo specificare di essere anche “mezza marocchina.” Quel dettaglio, che a Londra sbrigavo con un veloce “half Italian, half Moroccan,” mi sembrava in qualche modo forzato, intimo. Me ne pentii subito, perché la signora rispose “Ah menomale, di ‘sti tempi non si sa mai.”

Mi indignai, ma la verità è che se avevo preferito in quel contesto essere “solo italiana” era perché quella della mia identità era tornata a essere una questione irrisolta—e più esploravo le mie origini nel tentativo di costruire un senso di appartenenza, più mi rendevo conto di essere ancora una volta straniera in terra straniera.

Ammettere a se stessi di avere dei bias nei confronti di una cultura alla quale vuoi e non vuoi appartenere rappresenta tutto un nuovo livello di distruzione e ricostruzione di identità e consapevolezze apparenti: erano queste le conseguenze più evidenti del sistematico appiattimento della complessità multietnica e multiculturale della mia bellissima, coraggiosa famiglia.

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Un esempio di cui mi vergogno parecchio è avvenuto al matrimonio di una  cugina, a Casablanca. Durante quell’occasione di festa, alla quale ero felicissima e commossa di poter partecipare, mi ero resa conto di stare giudicando come misogini molti dei riti a cui stavo assistendo. Il marito e il padre firmano un contratto mentre la sposa sta seduta, bellissima e inerme, su un piccolo trono dall’altra parte della sala? Sentivo il mio femminismo indignarsi da qualche parte sotto il kaftan. Mi ero mai posta lo stesso problema quando la sposa vestita di bianco veniva accompagnata all’altare dal padre e “consegnata” al futuro marito? Ovviamente no. Ero succube degli stessi pregiudizi di tutti gli altri. Non ero diversa, peggio: ero ipocrita.

Qualche settimana dopo il matrimonio, mia cugina mi disse che le era stato negato il visto per la luna di miele in Europa. Tenevano i soldi da parte da anni. Il marito di mia cugina è medico, lei è laureata in marketing e lavora per un’azienda di comunicazioni a Dakar, in Senegal. Ancora una volta mi ruppi il naso contro la parete di vetro del mio privilegio, dietro la quale osservavo vite che non erano la mia.

Non posso ignorare, a questo punto, che se mai a mia cugina e suo marito fosse miracolosamente concesso di trasferirsi in Italia, e avessero un figlio, quel figlio ad oggi non sarebbe italiano e vivrebbe in un limbo identitario fino ai 18 anni, per poi dimostrare di meritarsi l’appartenenza a un luogo in cui è nato e cresciuto.

In queste settimane mi sono imbarcata in lunghe conversazioni con gli amici sul razzismo. Io e mia sorella cerchiamo di introdurre il concetto di white privilege, e improvvisamente siamo tutti sulla difensiva. Una parte di me si chiede: da che pulpito sto facendo questa predica? A chi lo sto spiegando, a loro o a me? Io sono parte del problema? Da che lato della barricata mi devo porre? Torna a galla l’eterna domanda: sono anch’io una bianca privilegiata? Probabilmente, dolorosamente, sì.

Ma forse, mi dico, la differenza è che noi ci confrontiamo continuamente con il nostro privilegio, perché per quel privilegio ognuno di noi, mio padre, mia madre, mia sorella, e io, abbiamo pagato un prezzo. Lo stesso prezzo pagato da molte altre famiglie, che camminano per l’Italia in punta di piedi, con le loro tradizioni sottovoce, per non farsi notare, per non urtare la sensibilità di nessuno. Un prezzo individuale, intimo, che ha a che fare con la costante ricerca di un tempo e di uno spazio al quale appartenere senza rinunciare a pezzi fondamentali di noi.

La consapevolezza ha un prezzo. Ogni giorno lo paghiamo un po’ per uno. Rinuncerei a una parte, o a tutto il mio privilegio per poter tornare indietro e parlare con mia nonna? Probabilmente questa domanda è il prezzo che pago oggi.

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