I Gazebo Penguins non sono più quelli di prima, e neanch'io

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Musica

I Gazebo Penguins non sono più quelli di prima, e neanch'io

Nebbia, il nuovo album dei Gazebo Penguins, pone domande a cui forse non mi interessa più rispondere.

Confessioni è la rubrica di Noisey in cui scriviamo perché ad alcuni di noi piacciono le cose che non vi piacciono. 

La prima volta che ho visto i Gazebo Penguins è stato il 3 luglio 2011 a Bussero, un paese a nord di Milano esattamente a metà tra Gorgonzola e Cernusco sul Naviglio. Il posto in cui suonavano si chiamava ReggheRocche Festival, e aprivano ai Fine Before You Came. Era il classico ambiente da festivalino di provincia nel campo sportivo, con le panche e i tavoli da festa della birra e il palchetto su un prato mezzo verde mezzo sterrato. Non ricordo quanto avessi già ascoltato Legna, il loro album del botto, prima di allora—era uscito solo un paio di mesi prima, a maggio. Non fu un concerto di quelli clamorosamente pesanti, c'erano poche persone, ma devo dire che quando Jacopo Lietti salì sul palco per fare "Senza di te" e si buttò dal palco mi sentii sinceramente conquistato.  La seconda volta che ho visto i Gazebo Penguins è stato all'ultimo AntiMTVDay, all'XM24 di Bologna, sabato 17 settembre 2011. In una delle sale più sudate in cui mi sia mai trovato, nel tardo pomeriggio, i Gazebo suonarono di fronte a una stanza foderata di gente. Erano passati solo una sessantina di giorni, ma già la percentuale di gente che sapeva i loro testi era aumentata enormemente. A un certo punto mi trovai sul palco, a cantare, ancora, "Senza di te" e a passare il microfono al pubblico—vedi la foto qua sotto, sono quello felicissimo con gli occhiali e meno barba di oggi. Quella sera avrei visto anche i Raein e La Quiete back to back, e un pezzo dell'ultimo concerto dei Laghetto (che suonarono tipo alle quattro del mattino dopo che, a quanto ricordo, un tizio era stato accoltellato sul marciapiede appena fuori).

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L'autore sul palco con i Gazebo Penguins. Fotografia di Achille Filipponi.

Insomma, mi ero preso bene con l'emo e il post-HC e il punx e il DIY e quelle cose lì. E sono cose che mi prendono bene tuttora, pesantemente. I Gazebo Penguins li ho poi visti un sacco di altre volte, e da allora quasi sempre c'era qualcuno che davvero era venuto lì per loro, e sapeva le loro canzoni, e le cantava tutto felice. Erano gli anni dell'esplosione della scena, con i FBYC che avevano alzato l'asticella del genere con Sfortuna, l'anno successivo avrebbero bissato con Ormai e, in tutto questo, si erano ritrovati senza volerlo nell'occhio del ciclone di una relativa fama nazionale. Nel 2011 non scrivevo ancora di musica; quindi non so bene approcciarmi criticamente a Legna, e credo non abbia senso farlo col senno di poi dato che è stato parte di me e della mia crescita personale. Sono sempre stato una persona molto attenta ai testi delle canzoni, dato che ci ho imparato l'inglese traducendoli e mi è sempre piaciuto memorizzarli. E la scrittura di Capra, così come quelle di molti altri liricisti della scena, mi arrivava dritta allo stomaco.

In generale, i miei amici mi considerano quello tranquillo, lucido e in pace col mondo che riesce a gestire bene le cose ed è bravo a non incazzarsi e non buttarsi mai giù. Ma non è chiaramente sempre stato così, e ci è voluto un pochetto prima che il mio cervello mi risparmiasse anni di dolore e paranoia convincendosi che, per dire, anche se la ragazza che amavo non mi amava e amava un altro era davvero tutto ok e potevamo addirittura non mandarci affanculo. In tutto questo, fino a oggi, trovo un potere empatico in un certo modo di scrittura emotivo e confessionale. Al contempo, però, non mi viene più da utilizzarlo in prima persona: cosa che, invece, mi aveva avvicinato tantissimo alle modalità di espressione tipiche dell'emo anni prima. Certo, i Gazebo avevano dalla loro anche quel-qualcosa-in-più: c'erano sì i momenti in cui Capra si lasciava andare all'emozione ("È facile, è troppo facile sorridere d'estate / È facile, è troppo facile non scegliere per niente"), ma anche i momenti strambo-creativi. Vedi "Dettato", due parole in croce che però saltano efficacemente da una tematica anti-lirica come l'editing a una considerazione personale di quelle che ti fan pensare. Parole che, tra l'altro, contengono un dissing a una delle questioni che più mi stanno a cuore nella vita: quella piaga dell'editing contemporaneo italiano che sono le "e" maiuscole accentate con l'apostrofo.

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"Odio i refusi nei libri nuovi, e quando abusi di esclamativi. Gli accenti storti sui perché, gli apostrofi sul verbo È. Mi fermo sempre sui dettagli. Ti sbagli, ma lo sai: mi fermo sempre sui dettagli. Un punto che non c'è è un vuoto a perdere."

Poi è successo che l'emo italiano è diventato sempre più grosso e famoso, i Gazebo hanno fatto un secondo album che è andato molto bene, hanno collaborato con I Cani, si sono presi i complimenti da chiunque, l'Igloo di Sollo è diventato uno degli studi in cui andare se volevi registrare un disco e Capra ha fatto un album solista a cui ha contribuito anche una realtà teoricamente molto lontana dalle loro origini come Garrincha. Insomma, sono esplosi, e facendolo hanno—come capita a tutti—perso qualcuno lungo la strada, ma guadagnato molte, molte altre orecchie pronte a sentire quello che hanno da dire.  E qua arrivo a un punto: se scrivi di musica in Italia, bene o male, conosci le persone di cui stai scrivendo. E anche se non le conosci, comunque magari ce le hai amiche su Facebook. E anche se non ce le hai amiche su Facebook, qualcuno che conosci sicuramente le conosce. Il che rende—almeno per me—molto difficile parlare dei Gazebo Penguins oggi. Non conosco bene Capra, Sollo e Piter, ma li ho visti dal vivo dieci volte, ci ho chiacchierato un sacco, una volta sono venuti a casa dei miei a Cremona per un'intervista e grazie ai social più o meno so che cosa fanno nelle loro vite e come stanno. Quindi, per parlare del loro nuovo album, che si chiama Nebbia ed esce domani per To Lose La Track, l'unica cosa che posso fare è abbandonare le regole della critica per vedere che cosa esce.

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Inizierei col dire che la cosa che mi è piaciuta di più di Nebbia sono le sue parti più quiete. Non sono particolarmente complesse o innovative, ma non c'è n'è bisogno dato che creano una sorta di tensione davvero godibile e liberatoria—vedi l'inizio di "Febbre", qua sopra, che mette due accordini di acustica su un drone e un po' di feedback con le voci tutte prese. O quando "Bismantova" smette di schiaffeggiare e inizia a saltellare, con delle percussioni incalzanti e il resto della strumentazione che scende e ricresce pian pianino fino a riesplodere, giocando con maestria di saliscendi. O ancora "Pioggia", che resta un po' a metà tra dirompenza e riservatezza: intensa come i migliori FBYC nella sua prima parte distorta, tutta distesa di chitarrini rifratti nel finale. Le parti più classicamente chitarrose, invece, sono in classico stile Gazebo: non mi hanno fatto gridare al miracolo, ma mi sembra funzionino bene in un contesto di continuum musicale con Raudo. Ci sono quelle tipo bordate in faccia ("Fuoriporta"), quelle a mezza velocità che fanno i muri di suono ("Atlantide"), quelle stridenti ("Scomparire"). Insomma, tornano tutte le modalità delle sei corde che i Gazebo hanno adottato per creare il loro suono. Potete giudicare in base al vostro gusto se è un bene o un male.  La cosa che più mi ha fatto pensare è la seguente: le parole dei Gazebo Penguins non mi fanno più tremare come in passato. Ora come ora non mi viene voglia di impararle a memoria, anche se un po' da sole nei pensieri ci entrano. Resta che non mi viene affatto voglia di ironizzarci sopra, o di tacciarle di qualche difetto, perché i Gazebo non parlano di società, di etica, di massimi sistemi; non si inventano mondi per costruirci dentro narrazioni. Non giocano su un terreno di discussione ma di confessione. Parlano dei cazzi loro cercando di trovargli un senso, credo. E i cazzi di qualcun altro non si possono davvero discutere.

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Posso però dire che cosa mi fanno passare dentro. Come dicevo: con l'emo italiano sono cresciuto, e ho spesso usato le parole dei Gazebo come ricettacoli delle mie sfighe e felicità personali. Ma con il passare del tempo la mia vita mi ha portato in un luogo della mente più pacifico, positivamente fatalista. Ascoltando Nebbia mi rendo conto, per la prima volta, che non cerco di cucirmi le sue parole addosso. Le vedo però riflettersi sulle persone che amo e ancora affrontano ansie, depressioni e sbattimenti immeritati.

"Non c'è notifica che ti salvi / Quando niente ti fa stare bene" è una frase che mi fa sorridere e, al contempo, mi lascia l'amaro in bocca—perché non so se vi è capitato di provare quell'impotenza terribile che ti pervade quando cerchi di far stare meglio una persona a cui vuoi bene, e dall'altra parte ti arrivano solo singhiozzi o silenzio. "A volte consola sentirsi scemi a piangere", canta Capra in "Soffrire non è utile," e io mi sento al contempo fortunato per non aver mai provato nulla di simile e spezzato in due a pensare a come, invece, ci si possa sentire a concepire un pensiero come quello.

Un'altra fonte di brividi, per me, è stata "Bismantova", con il suo parlare di scomparse internettiane: "È ancora attivo / Il tuo profilo / Un vuoto aperto sul vuoto." Non so se Capra si riferisca alla morte o a qualcosa di meno definitivo, ma è quello a cui mi fa pensare. "Resta ancora," dice, e tutti ci siamo visti portar via dal tempo o dal caso una persona di cui ormai ci resta poco di tangibile: qualche fotografia, qualche messaggio, un profilo Facebook inutilizzato.  Il caso, ecco: quelli che mi sembrano essere i temi portanti dell'album sono la casualità e la permanenza. La prima la concepisco come regola fondamentale dell'esistenza e quindi innocua per il mio benessere, tendo a guardare al passato col sorriso e non col magone. La seconda mi sembra invece abbastanza evidente: se una persona se ne va, o se resta, ha sicuramente i suoi motivi—per quanto possano sembrare assurdi se visti da una prospettiva diversa. In entrambi i casi si tratta, in fondo, di accettazione.

È per questo che mi viene difficile fare mie molte delle parole di Nebbia—un album che non accetta gli avvenimenti che contiene ma se li passa tra le mani, li osserva, cerca di arrivarne all'origine. E intanto fantastica scenari paralleli in cui i suddetti non si sono manifestati. "Scomparire" contiene frasi come "Ti chiederei di ripartir da capo" e "Cambiare idea non cambierà quello che è già successo"; "Febbre" si immagina che cosa potrebbe accadere se, chiudendo gli occhi e riaprendoli, potessimo cambiare la realtà. Il comunicato stampa del disco si chiede, "Quanto dipende il nostro star bene dalle altre persone?" Boh, non lo so. Tanto, credo. Non è una domanda che mi pongo, ma non c'è niente di male a farsela. L'unico problema, penso, è che la risposta potrebbe non esistere, o non essere particolarmente piacevole.  Che poi anch'io vorrei cambiarla, la realtà. Certe cose del mondo (principalmente sociali e politiche) mi impediscono di vivere sempre col sorriso, e farei qualsiasi cosa per far sì che le persone che amo smettessero di star male, trovassero il lavoro dei loro sogni, facessero pace coi loro parenti stronzi. Ma la mia mente ha sviluppato una sorta di meccanismo di autodifesa che la accetta, questa realtà, e cerca di depotenziarla ridimensionando il mio ruolo all'interno dei processi che la governano. E allora ho meno bisogno di buttar fuori emozioni traslandole nella musica che ascolto; ma non per questo credo si possa attaccare o criticare chi continua a farlo, tra l'altro dando una mano a chi condivide la stessa visione del mondo a sentirsi meno solo. È solo questione di soggettività espressiva, e quella dei Gazebo resterà sempre valida tanto quanto la mia.  Elia è su Twitter: @elia_alovisi
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