Tutta fortuna: come gli Shame stanno resuscitando il rock'n'roll a Londra

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Musica

Tutta fortuna: come gli Shame stanno resuscitando il rock'n'roll a Londra

Quando passi l'adolescenza tra i tavoli del pub preferito dai Fat White Family, possono succedere molte cose strane.
Leon Benz
traduzione di Leon Benz

È un mercoledì pomeriggio e tutti e cinque i membri degli Shame si sono appollaiati su un letto in una casa a East London—chiamata Mercurio in onore di un gatto. È la casa del loro tour manager Kiko, e Mercurio—che non è più tra noi—era il suo animale domestico. Le foto di Mercurio sono appese su tutti i muri, Kiko ha un tatuaggio che ritrae Mercurio sul braccio destro e le sue scarpe, ma anche la cover del suo cellulare, mostrano il musino peloso di Mercurio. "Fin da quando abbiamo messo su la band, siamo stati circondati da persone che…" dice il cantante Charlie Steen, che poi si ferma. "Persone che non ti immagini. Peculiari ma adorabili". Persone come Kiko che, come può confermare una rapida occhiata a casa sua, è sicuramente un personaggio.

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La vicinanza degli Shame agli eccentrici gli ha garantito una delle più fortunose scalate ad un contratto discografico da quando Kelly Osbourne finì magicamente nella stessa etichetta di suo padre nei primi Duemila. Il quintetto di South London, tutti poco più che ventenni, ha avuto talmente tanti vantaggi gratuiti—fra sale prove e consigli da esperti del settore—che hanno già "superato la quota" di buona fortuna, come dice il chitarrista Sean Coyle Smith. Il Queen's Head pub di Brixton, che al piano superiore ospitava lo squat che faceva da base ai Fat White Family, era un po' il loro traballante "paradiso" (parola di Steen) doposcuola. Lì, musicisti che erano già stati fregati offrivano loro consigli e strumentazione. "Abbiamo potuto osservare l’industria musicale prima ancora di entrarci dentro", dice il batterista Charlie Forbes, il cui padre era il migliore amico del proprietario del Queen's Head. Passavano le giornate a scuola prima di scoprire il sound muscoloso, cazzuto e politicamente sfacciato che avrebbero poi messo in atto. In "One Rizla", il testo di Steen riflette l'impertinenza selvaggia di quei primi mesi: "Le mie unghie non sono curate, la mia voce non è la migliore che tu abbia mai sentito / e puoi scegliere di odiare le mie parole, ma non me ne frega un cazzo".

Quel pub mezzo distrutto, che ha chiuso nel 2015 per dar spazio ad una sua versione gentrificata e orientata verso le birre artigianali, non aveva un vero orario di apertura, tantomeno di chiusura. Ha ospitato chiusoni, persone strane e visitatori casuali che non sarebbero tornati mai più. "Una volta finito il college, camminare per quelle strade sembrava un po' come essere in una distopia", ricorda Forbes. Come un genitore preoccupato, chiedo se il Queen's Head abbia avuto una pessima influenza su cinque teenager impressionabili che frequentavano la stessa scuola del sud di Londra.

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Si mettono a ridere fragorosamente. Steen, appollaiato in fondo al materasso di Kiko in una tuta blu scuro, stava quasi per cadere. "È una domanda molto sensata!" risponde il bassista Josh Finerty, il membro più rilassato ma spumeggiante, ridendo sotto i baffi. Il chitarrista Eddie Green, un po' più serio, ammette che "se fossimo stati leggermente più grandi, sarebbe andato tutto diversamente. Saremmo stati risucchiati". L'ignoranza è stata la loro benedizione, afferma Forbes. Osservavano gli sconosciuti "e ci dicevamo: 'Oh, staranno facendo una bella chiacchierata! Un tagliere e una lama, chissà cosa staranno facendo?'" Alcuni dei residenti dello squat ripetevano ai ragazzi, come un mantra, di "non provare l'eroina", ricorda Green spalancando gli occhi come se stesse dispensando lo stesso consiglio ad un gruppo di ragazzetti. "'Non dovete neanche pensare minimamente di farlo, cazzo.' E questo veniva da gente che poi sarebbe andata in un'altra stanza a fumarsene un po'". Stranamente Rumer, la pop star che una volta aveva un contratto con la Atlantic e due album in top 5, è stata una delle prime fan. Ha sentito una demo incompleta di "One Rizla" al Queen's Head e ha deciso di regalar loro un microfono e una batteria. Prima di allora utilizzavano un kit tenuto insieme con il nastro adesivo, preso in prestito dai Fat White. In fondo alla strada, il proprietario dei Dropout Studios di Camberwell gli permetteva di provare gratis. Un altro gesto di benevolenza per la vostra lista, se state tenendo il conto. Forbes, ridendo, ammette che le band sarebbero fottute se iniziassero sperando di poter contare sullo stesso tipo di generosità che hanno trovato gli Shame. Steen è d'accordo. "La fiducia che queste persone hanno riposto in noi non sembra esistere per altre band".

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Inquadrano sempre questi atti di gentilezza come colpi di fortuna, scollegandoli dal loro talento, ma chiunque li abbia visti suonare dal vivo la penserà diversamente. Steen, molto pacato nelle conversazioni, perde tutte le sue inibizioni sul palco: poga con se stesso e fissa negli occhi ogni spettatore disinteressato, spogliandosi dai suoi vestiti sudati mentre i suoi compagni di avventura saltano sui muri, dietro di lui. Diversamente dai Fat White, non si è mai trattato di provocare rabbia e disgusto. Steen non si spoglia per avere una reazione. I vecchi potrebbero vedere negli Shame un ritorno ai "bei vecchi tempi", ma c'è di più di un omaggio diretto e incazzoso al punk. E se non fosse evidente dai loro concerti, lo è invece nel loro album di debutto, Songs of Praise.

Il disco, infatti, è destinato ad andare oltre alle aspettative di "cinque ragazzi arrabbiati di Londra". Steen esprime tutta la sua rabbia, ma suona anche emozionale e di cuore. E anche quando è arrabbiato, lo si percepisce sempre fare l'occhiolino. L'artwork dell'album - la band che culla tre piccoli maialini – rende tutto ciò in forma visiva. "Abbiamo scattato la foto più inoffensiva possibile", dice sorridendo Steen. Per quanto riguarda la musica, ogni svolta è contraddistinta da dinamismo e sfumature. Angie, che dura sette minuti e chiude il disco, cresce da una chitarra ariosa e solitaria parlando una tragica storia d'amore non ricambiata e suicida, trovando una strana euforia in questo tema così dark. Dan Float, produttore del disco, ha pianto. Con questo pezzo, Steen ammette che voleva fare qualcosa come "Where the Wild Rivers Glow" di Nick Cave, o "In Every Dream Home a Heartache" dei Roxy Music, e ci è riuscito alla grande

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Nelle altre parti dell'album, le chitarre hanno spazio per vagare, invece di essere bloccate ad una rigidità spaccatimpani, come nell'irrequieta "Lampoon", la voce di Steen, che non è mai immobile, tiene tutto insieme. È sarcastico e pieno di cattiveria in "The Lick", ruota gli occhi e ripete un coro secondo cui sarebbe "affidabile, non discutibile". È il suono di una band giovane che brilla e fa rumore, che non ha paura di sbagliare.

Se l'album rappresenta un momento spartiacque, in cui possiamo finalmente mettere a dormire le uscite tipo "la musica con le chitarre fa schifo", ciò si riflette anche nelle altre parti della capitale. Nel sud di Londra c'è il pop ansioso e cupo dei Sorry, la furia sarcastica dei Goat Girl e le ambizioni glam degli HMLTD. Queste band hanno suonato alla club night degli Shame, chiamata Chimney Shitters. Sta di fatto che quando i concerti degli Shame hanno cominciato a diventare famigerati, Shane ammette di aver provato una certa ansia: "sei entusiasta, ma anche preoccupato. Perché vuoi presentare qualcosa e pensi che rischi di sprecare l'occasione". Per fortuna, i clienti abituali del Queen's Head li hanno messi in guardia. "I Fat Whites avevano un manager, e circa a metà del nostro soggiorno, ha cercato di fotterli alla grande", ricorda Coyle Smith. "L'abbiamo visto coi nostri occhi".

Questo non significa che gli Shame siano dei veterani. Nemmeno per sogno. Hanno ancora lo sguardo ingenuo e il portamento goffo dei novellini, e stanno anche pensando che la loro fortuna stia svanendo. Erano partiti per il loro primo tour da dieci minuti quando la portiera del furgone si è staccata. Più recentemente, un rapace gigantesco si è schiantato contro il loro parabrezza lungo l'autostrada in Germania, mandando in fumo 600 sterline di caparra. "Ero seduto in mezzo quando ho visto questo punto nero all'orizzonte", ricorda Forbes, "che diventava sempre più grosso". Strizza gli occhi come se stesse mettendo a fuoco l'oggetto misterioso. "'Che cazzo è quello?' BOOM, un'aquila gigantesca. Sangue e piume ovunque!". "Con noi non c'è limite al peggio", scherza Steen.

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Sembra anche che non si sentano proprio a loro agio nel parlare di politica, o del fatto che potrebbero essere etichettati come una band meramente politica. Non è che non condividano gli stessi ideali di molti altri ventenni squattrinati, ma il modo in cui esprimono la loro politica può a volte sembrare un po' maldestro, un po' come quando Billy Bragg predicava ai convertiti. Prendiamo per esempio l'artwork del singolo "Visa Vulture", con quella versione vampira di Theresa May: "avevamo solo un'ora per inventarci qualcosa, Spotify aveva qualche problema legale con l'artwork precedente", racconta Steen. Anche se intrinsecamente politico, Coyle Smith sostiene che per le band non è possibile riflettere ciò che le circonda. Senza fare nomi, dimostra di essere disgustato dalle "band indie che vengono dalla strada e suonano show immensi senza mostrare il minimo supporto per i loro ideali". Steen è d'accordo. "Non puoi evitare la politica. Come persona, devi avere per forza un'opinione politica. Si tratta solo di capire se la condividi con gli altri o meno".

"Alcune persone ci hanno twittato cose come "adoravo la vostra musica finché non ho visto che siete degli scemi piagnoni di sinistra, fottetevi", racconta Green, ridendo. Forbes fa un'imitazione sarcastica e astuta del tipo di commenti ignoranti che vedono: "non sei un membro del parlamento! Suoni la chitarra!", al quale Green aggiunge, sogghignando sprezzante: "Quelle sono le persone alle quali non vuoi che piaccia la tua musica. Quelli vogliono una fottuta tabula rasa di melma. Chiunque dovrebbe avere la possibilità di parlarne, al di là del fatto che tu ne sappia qualcosa o un cazzo. Le persone dicono che dovremmo stare al nostro posto, andatevene affanculo. Davvero, andatevene affanculo".

Songs of Praise non è privo di osservazioni sulla società, ma è più un riflesso degli ultimi tre folli anni degli Shame. C'è la consapevolezza e il disgusto per il fatto che il più debole venga sempre fregato, e i benestanti invece facciano i loro comodi, ma è tutto legato alle cose che hanno visto e imparato al Queen's Head. "Abbiamo vissuto cose che non credo qualcun altro a Londra potrà vivere", afferma Steen. Probabilmente ha ragione. Come può una nuova band permettersi di provare senza sosta per due anni senza pagare nulla? "Se Eddie mi avesse chiamato e detto tipo, 'Josh, stiamo mettendo su una band! Devi solo mettere 20 sterline' io avrei risposto 'Vaffanculo'", scherza Finerty. Avviare una band implica "pagare un botto di soldi per finanziare un sogno irrealizzabile", dice Coyle Smith. Invece, questi cinque sono finiti nello stesso posto, circondati da opportunità buttate là, ai loro piedi, e hanno trovato il modo di scrivere e suonare con quello che gli è stato regalato. Quando gli è stato chiesto cosa farebbero se essere negli Shame smettesse di essere divertente, sono quasi tutti d'accordo: "se smettesse di essere divertente manderemmo affanculo tutto. Metteremmo su una nuova band". A parte Steen, che scuote un po' la testa e dice: "Oh, no, non penso proprio. Non si avvia mai una nuova band". Troppo sbattimento. Ed è difficile che siano di nuovo così fortunati.

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