Il medioevo digitale di Angelo Branduardi
Angelo Branduardi in concerto a Trento. Foto di Niccolò Caranti, via Wikimedia Commons.

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Musica

Il medioevo digitale di Angelo Branduardi

Artisti come Oneohtrix Point Never raccontano l'oggi come una nuova età buia, ma il nostro Angelo Branduardi ci era già arrivato nell'81 con un punto di vista forse ancora più attuale.

"Going Backwards", ci dicevano i Depeche Mode nel loro ultimo disco dipingendo un quadro a tinte amare su un mondo che tende a diventare sempre più brutale e fideistico, se non proprio bestiale. Non navighiamo in buone acque è vero, ma è anche difficile sapere quali saranno le possibili evoluzioni di questa devoluzione. Nel frattempo però capita spesso che vengano tirati in ballo paragoni scomodi con epoche passate, della serie “siamo tornati all’età della pietra, al medioevo".

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Ecco, il medioevo. Ultimamente gli stiamo accollando un po’ troppe responsabilità. In musica poi non ne parliamo. Basti citare il nuovo concept album di Oneohtrix Point Never, Age Of, che analizza il periodo storico in cui stiamo vivendo come fosse un medioevo digitale che non meglio identificate intelligenze artificiali un giorno guarderanno con curiosità, idealizzazione e finanche sberleffo, come facciamo noi con il medioevo originale.

Age Of ha subito trovato una serie di adepti, alcuni dei quali hanno visto nell’uso del clavicembalo MIDI una specie di metafora estetico-narrativa. Un'idea a cui dobbiamo anteporre dei però. Innanzitutto il clavicembalo è uno strumento barocco, e col medioevo c’entra ben poco. Poi, molti prima di OPN hanno sperimentato queste sonorità: dai Beatles di "Piggies" ai Genesis di "Watcher of the Skies", un brano che parla di alieni che immaginano come potessero essere gli abitanti estinti della Terra su cui sono appena atterrati. Infine il folktronic ha già rivisitato l’antico, con o senza autotune. Ma senza entrare nel merito della validità o meno di questo lavoro e della sua trama, è proprio il giudizio sul medioevo che è a nostro avviso discutibile.

Scrive il compagno Valerio Mattioli, indefesso fan di OPN, parlando di Age Of su Il Tascabile: “se, per riprendere Jacques Le Goff, il medioevo era a sua volta il tempo 'delle citazioni, dei passi scelti, dei digesti' non verificabili (post-verità?), del 'libro che soccombe sotto l’esegesi' (i commenti sui social?), della 'confusione temporale [che] unisce passato, avvenire e futuro' (il castellsiano 'tempo acrono' della Rete?), della cultura antiscientifica, del sentito dire, delle cospirazioni diaboliche e delle teorie di seconda mano, insomma, se il medioevo era tutto questo, allora viene fin troppo facile ipotizzare discendenze tanto storicamente discutibili quanto emotivamente illuminanti”.

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È vero, la storia si ripete: saggiamente però il nostro Valerio, seppur credo in linea con Le Goff, mette davanti un se; esiste infatti, tra le tante, anche una corrente di pensiero che ha smesso da un pezzo di dare addosso al medioevo come periodo disastrato. Una corrente che vede il medioevo come quello della fiducia nella ragione, di Tommaso D’Aquino, per cui tutto quello di negativo che noi comuni mortali scarichiamo su questo periodo storico, influenzati dalle teorie di Flavio Biondo, sarebbe invece da attribuire alla crisi del medioevo stesso, iniziata nel XIV secolo, che poi porterà al pensiero moderno.

Questo buco nero sarebbe in pratica una cosa a parte: volendo fare un serio paragone con l’era pre social, il nostro medioevo va individuato nel periodo in cui si pensava che l'internet nascente avrebbe cambiato la vita in positivo a tutto il mondo. C’era fiducia nella ragione, fiducia nella scienza e nella tecnologia: ora invece viviamo una fase di stallo che di quel medioevo rappresenta la crisi se non essenzialmente la fine e che, appunto, ci permette di confondere il suono del barocco con quello del medioevo senza timore che ci tirino un calcio nel culo. Questa fase confusionaria è forse ben evidenziata dal fatto che lo stesso fautore di un certo tipo di manifesto digitale, ovvero OPN, adesso ci va praticamente contro.

Invece, mettendo da parte Lopatin, in Italia abbiamo una certa tradizione di personaggi che hanno musicalmente tentato di “digitalizzare il medioevo” o “medioevalizzare il digitale” con accezione positiva, riconoscendo varie età di mezzo, anzi, microetà di mezzo anche nel pieno del cosiddetto progresso. Eredi di quanto già teorizzato in era squisitamente analogica, con il progressive italiano che si interrogava spesso sulle stesse tematiche politico/sonore (Banco del Mutuo Soccorso, Premiata Forneria Marconi), abbiamo argomenti pratici più che teorici. Senza scomodare il periodo new age, in cui abbondano le imitazioni digitali degli strumenti antichi, troviamo numerosi esempi nelle libraries (i vari Giombini, Alessandro Alessandroni col suo curioso disco medieval-barocco Baroque Mandolin del 1985); nelle arlecchinate elettroniche di Alberto Camerini e Roberto Colombo (basti pensare alla grandissima e super elettronicamente medioevale “Morgana e il Re”); in quel grandioso esperimento di “new wave medievale” che è Ann Steel Album di Roberto Cacciapaglia, veramente peculiare nel descrivere il medioevo anni Ottanta, procedendo in modo inverso, con un suono che imita il digitale usando strumenti rococò e una cantante specializzata nel madrigale che si cimenta in canzoni pop. Come non citare poi Battiato, teorizzatore del “medioevo rinascimentale“ nel testo della straniante “Personal Computer”, concetto condensato poi nei Novanta attraverso i suoi strumenti acustici pilotati via MIDI in "Medievale" dentro a Fleurs e il concept dell'età buia in Gommalacca. Un altro esempio più recente l'ho prodotto proprio io, ma non vorrei passare per megalomane.

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Ma quello che ci sta più a cuore e che ha davvero incarnato l’idea di medioevo perenne è Angelo Branduardi. E a lui va riconosciuto di essere stato tra i primi a ipotizzare un medioevo digitale musicale col suo disco dell’81, chiamato, come il suo esordio del 1974, Angelo Branduardi.

Branduardi lo conoscono anche i sassi a causa de "La Fiera dell'Est", una versione riveduta e corretta di un antico canto pasquale ebraico. Ed è proprio la specialità del nostro bardo moderno flirtare con l’inattuale. La sua missione è recuperare la tradizione barocca, madrigalistica, celtica, e popolare, insomma quella del folk “vetusto”, e sbatterla in un pentolone che ribolle di suoni moderni. Gli stessi testi, nonostante riprendano spesso gli originali, sono comunque metafore dell’oggi. Come volesse dire che quei tempi non sono mai passati, che si ripetono in altre forme ma la sostanza è la stessa e che quando idealizziamo il medioevo stiamo in realtà idealizzando noi medesimi, la nostra epoca, la nostra stessa essenza di uomini. La cosa fondamentale che dà all’operazione-Branduardi quel tocco di predigitalizzazione tanto geniale quanto paracula è quella di prendere di peso interi brani antichi con i diritti d’autore oramai scaduti e registrarli a proprio nome in SIAE.

Ma non è un caso isolato: nei Settanta il folk era un po’ ovunque, anche nel pop sinfonico dei Pooh (forse tra i maggiori fan del clavicembalo e della spinetta, per essere precisi, strumenti che usati in una canzone come “1966” diventano un modo per criticare la decadenza politica e di costume del 1975), o nel canzoniere di De André (anche qui usato per rievocare un'epoca di repressione, come in “Il re fa rullare i tamburi”), e perfino negli excursus del geniale Jannacci quando, coadiuvato da Dario Fo, si rifaceva a ballate medievali o giù di lì. Nella maggior parte dei casi erano però discorsi più estetici che di sostanza, e a volte duravano anche solo un battito di ciglia. Branduardi sembra invece giungere a noi da una macchina del tempo, un cervellone elettronico che legge il moderno, lo vede con distacco e poi lo fa dialogare col passato. Ascoltandolo sembra davvero di vivere in mezzo a un periodo storico trasfigurato, che diventa finalmente tutt’altra cosa, probabilmente il vero suono di sempre, oscillante tra paura e sicurezza.

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Il progetto Branduardi, c’è da dirlo, non è un entità singola. È in realtà sostanzialmente un duo: importantissimo è infatti il lavoro della moglie Luisa Zappa, la quale, oltre ad essere un’esperta di letteratura inglese, è stata quella che più l’ha incitato a recuperare la storia dei madrigali in maniera massiccia, affiancandolo nella stesura dei testi, fondamentali, arricchendoli di una sostanziosa e importante visione femminile del mondo. Visione, quella delle canzoni del duo Branduardi, che il più delle volte è inquietante, in cui il medioevo e la sua crisi più che un’epoca storica sono uno stato della mente, una roba cui non si può sfuggire, nel bene e nel male.

L’esordio omonimo di Branduardi è quello più acclamato dalla critica, per la partecipazione attiva del grande Paul Buckmaster, meglio conosciuto per il suo lavoro con Elton John, ma anche tra gli artefici di cose incredibili quali On the Corner di Miles Davis. Buckmaster produce e influisce pesantemente su Angelo Branduardi, suonando di tutto e caratterizzandolo in momenti di grande apertura psichedelica. Branduardi ricorda questa collaborazione così: “Paul in quel momento era il più grande e non solo per me: era l’arrangiatore che aveva inventato il suono del primo Elton John, stravolgendo in senso ritmico l’uso degli archi. Mi procurai l’annuario di Billboard, trovai il contatto, gli scrissi e lui venne a Milano. […] Quando era stato respinto il mio disco di prova [quello prodotto da Maurizio Fabrizio], senza nemmeno conoscerlo, scrissi a Paul e con mia grande sorpresa lui arrivò in Italia e cominciò a insegnarmi. Mi insegnava tutto, giorno e notte in quanto lui per sua abitudine non dormiva mai”. A tutti gli effetti, Branduardi diventa l’allievo prediletto di Paul: “Era come se lui sapesse più di me che cosa sentivo io. Così fra me e lui si era creato un rapporto da bottega artigianale, da sacerdote e allievo. Di fatto se la mia musica è quella che è lo devo in buona parte a Paul”.

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L’allievo, quindi, se non supererà il maestro, troverà però quella via per diventare maestro lui stesso: tanto che il successo conferito da critica e pubblico ai successivi dischi di Branduardi, con l’apoteosi (mettendo da parte "Alla fiera dell’Est") nel '78-'79 de La pulce d’acqua e Cogli la prima mela, non ci fa venire dubbi in tal senso.

Nell’81 però Branduardi vuole resettare tutto, trovare un nuovo modo di esplorare la sua idea di folk. Nasce Branduardi '81, conosciuto con questo nome per non confonderlo con il disco omonimo d’inizio carriera. Angelo agogna una vera e propria tabula rasa delle precedenti esperienze, un passo avanti rispetto al suo modo di intendere la musica. Più che di tabula rasa bisognerebbe parlare però di nuovo esordio. Infatti ai comandi c’è di nuovo Paul Buckmaster, che si ripresenta come produttore e polistrumentista, ma in un rapporto di forze diverso, quasi alla pari, come a sottolineare che col passato bisogna fare i conti se si vuole evolvere davvero.

L’innovazione principale è che questo lavoro è il primo disco registrato in digitale da Branduardi: i suoni quindi risultano più definiti, più “scolpiti”. Sebbene gli esperimenti con la registrazione digitale Branduardi li avesse iniziati in sordina già nel 1979, ora finalmente ha il coraggio di andare al sodo, di rischiare, e questa scelta comporta un nuovo modo di valorizzare i suoni, più aperto e cristallino, lontano dalle passate tentazioni valvolari.

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Angelo abbandona gli arrangiamenti sostanziosi e a volte ingombranti dei precedenti LP, ancora in qualche modo intrisi d’influenze progressive e procede per sottrazione, asciugando ed esprimendosi in maniera minimale. È qui che scatta il paragone con OPN. Branduardi infatti non abbandona il discorso medioevale, che è comunque musicalmente presente, ma lo usa soprattutto in maniera straniante e post-storica. Proprio come le intelligenze artificiali di Age Of, Branduardi prende gli anni Ottanta musicali e li interpreta come fossero neo-medievali.

La maggior parte dei brani sono basati sul loop, sulla reiterazione, sull’ipnosi intorno a figure semplici, anticipando di molto un'idea che poi diventerà di uso comune con le moderne sorgenti di suono. Per la prima volta troviamo brani totalmente reggae come “Musica”, che di medievale non hanno nulla ma sembrano credibilissimi come colonna sonora doc di una età di mezzo nuova di pacca. La stessa copertina ricorda un linguaggio criptico, totalmente computerizzato, un gioco di nove serie di nove quadrati rosa che simboleggia gli altrettanti album fino ad allora registrati dal nostro e il numero di brani dell’album (anche visivamente una previsione del medioevo digitale). All'interno del disco troviamo anche un sintetizzatore ARP (in parte digitale) suonato personalmente dal bardo. I testi del disco sono per la prima volta interamente opera di Luisa Zappa Branduardi e sono anche in questo caso cesellati come espressioni di una civiltà perennemente intrappolata nel passato. Tutta roba che il Branduardi degli anni Settanta non si sarebbe mai sognato. Insomma, un disco che, nella sua apparente linearità, è piuttosto difficile: andiamone a sezionare le parti, come fosse il libro (consigliatissimo) di Giovanni Tabacco Le ideologie politiche del medioevo.

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Apre il disco "L'Amico", ballata suadente in cui le chitarre suonano algide, come digitalizzate, con archi sintetizzati mescolati all’orchestra, che però è filtrata in modo da dare un’idea di design sonoro ben preciso. La storia di un uomo che fa visita a un amico che l’ha dimenticato e si autoinvita praticamente a casa sua, è una specie d’intro a sé stante che supera di poco il minuto, minimale, vuota, diretta. Un piccolo gioiellino in cui Angelo ci entra nel cuore senza chiedere il permesso.

In "Girotondo" c’è il primo guizzo di loop, solo due accordi due, un andazzo medieval-rinascimentale futurizzato (e volendo anche un rock'n'roll stile Bo Diddley) con delay sparsi e un breve stacco disco che è una citazione straniante. Gli strumenti si sovrappongono gerarchicamente mentre un drone di ARP, quasi un coro sintetico, sembra mangiarsi il paesaggio, poi sbuffi di archi appaiono e scompaiono come filtrati da un vocoder. Manate di sintetizzatore e campane tubolari fanno il resto sorretti da un basso minimale e leggermente afro sui quali Branduardi svisa col violino. Il testo è un quadretto squisitamente female power, in cui una bambina diventa velocemente donna con ogni giro di girotondo: nel suo giocare troviamo un atto inconsciamente rituale che nutre l'immaginazione con la libertà. Il tempo scorre inesorabile: la sua accelerazione, simboleggiata dal girotondo, a volte è il solo modo per rompere le catene del destino.

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"La cagna" è la conseguenza naturale del brano precedente: traduzione di Luisa da una poesia di Esenin. SI apre con un flauto andino effettato con dei delay digitali e frenati da un gate, sospeso sopra un drone sempre di flauto. Solo chitarra e sfrugugliare di wind chimes, effetti freddi e svisate rumoriste tra sintetizzatori e colpi di psichedelia alla ricerca del vuoto. “Nell’acqua nera sette cuccioli d’oro” spariscono, portati via dalle mani dell’uomo mentre la madre cagna rimane scioccata a guardare la luna specchiarsi sul luogo del delitto. Un testo di violenza e sopraffazione che rimane attualissimo e applicabile a molte delle situazioni di oggi che non hanno bisogno di essere ricordate a voi lettori.

"I tre mercanti" prosegue sulla linea del vuoto, con piccole sovrapposizioni di strumenti. Un basso educatamente funk si scioglie in un dialogo fra chitarre slide e pianoforte. Il pezzo è un brano pop nel senso classico del termine, ma interpretato e arrangiato con l’idea di un brano antico, ipnotico, sospeso nell’eterno. ”In silenzio noi ci siamo ritrovati / Nel deserto abbiamo ripreso a navigare / Inseguendo una luce sconosciuta / Proprio come un tempo si partiva per mercati più lontani”. Un elogio a ritrovarsi stranieri, nomadi, in cerca di una nuova luce futura che non tiene conto di frontiere, dazi e nazioni. Ancora una volta l’attualità penetra nell’antico.

In "Barche di carta" ecco il neo-medioevo. È un reggae ripetitivo a proposito di bambini che giocano e “fanno piccole barche di carta per attraversare il mare”. Botte di synth gonfie per “fragili castelli di sabbia che poi distrugge il mare”, mare in cui grandi navi si perdono mentre ancora una volta la fantasia dei bambini resiste e raccoglie piccole conchiglie vuote: i resti di una civiltà in mano ai millennial? Forse. Un abile gioco fra effetti sonori sporadici e strumenti che appaiono e scompaiono in maniera preziosa e dosatissima.

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Ma l’incursione nel reggae non si arresta, riprende immediatamente, inaspettatamente, con il brano/manifesto "Musica". Anche qui nessuna concessione al medioevo nel classico dei termini, a parte piccoli accenni nei riff. Anzi, ci sono citazioni addirittura di “Crimson and Clover”. Stralci di castagnette che sembrano campionate, momenti afro-caraibici che anticipano di molto lo Sting di “Love is the Seventh Wave” nel riff del sintetizzatore, che imita delle steel drums. Ampio uso di giri simil-clavicembalo suonati dalla chitarra elettrica trattata, mallets a profusione. Un’ode alla musica come modo per annullare tutta la merda esistente nelle ere umane perché “sopra di noi le nuvole non si fermano mai/ è sempre musica”. Fu la sigla di Discoring nel 1981, scelta probabilmente, oltre per il titolo telefonato rispetto alla trasmissione, anche per la notevole qualità sonora, assolutamente innovativa per l’epoca. Una curiosità: Venditti prende appunti e trasforma la linea “non si fermano mai “ in “non si arrendono mai” per la sua hit dei novanta“in questo mondo di ladri”, chiaramente non rivelandolo. Ma si sa, se parliamo di Branduardi inutile vanneggiare di copyright e similia..

"La collina del sonno" è uno dei pezzi più trattati elettronicamente, i colpi di marimba sembrano passati attraverso un autotune ante litteram, così come il riff ostinato di sintetizzatore ricorda elettronicamente una kalimba. Qui le influenze, a dispetto degli strumenti usati, sono chiaramente orientali, da Sudest asiatico o Giappone. Un brano quasi vapor nella sua composizione stupefatta e oppiacea, un invito a lasciarsi andare tra le braccia di Morfeo e verso la cancellazione dei dati mentali, almeno per poco…

Perché a volte i desideri riempiono tanto la mente da, al contrario, impedirci di capire cosa è veramente importante. "Il disgelo" è una ballata che analizza il concetto di libertà, la voglia di avere “bianche vele per navigare”, forse è il brano più da “classico Branduardi”, è un invito a vedere l’amore come un trampolino di lancio verso una libertà tangibile, lontana da immaginarie “navi di ghiaccio” che non portano da nessuna parte: il virtuale lasciamolo dove sta, questa è la realtà, baby. L’andazzo lento ricorda le soluzioni oppiacee che in futuro Angelo adotterà con Branduardi canta Yeats (1986), un altro album misconosciuto ma di grandissima classe.

"Vola" è ancora una volta un brano sulla libertà, stavolta tangibile, senza inutili idealizzazioni. Su una struttura da ballata semi-rinascimentale, grandi numeri agli archi di Buckmaster, che passa dagli staccato disco a botte dinamiche che evocano sbuffi accelerazionisti, e flauti dinamici, anche qui inseriti a mo' d’inserti minimali di synth mentre il tutto s’interseca perfettamente, dipingendo mondi paralleli che manco l’ultima Björk.

Nonostante le indubbie innovazioni Branduardi '81 non sarà un disco particolarmente fortunato (solo al quarantacinquesimo posto tra i dischi più venduti del 1981) né particolarmente ricordato. Il motivo è essenzialmente la sua ricercata semplicità e la sua mancanza di fronzoli (sensibilità probabilmente anche figlia del sentimento “punk” dell’epoca) e per quella sensazione di “guardarsi dall’esterno” che permea tutta l’opera, riducendo le nuove tendenze musicali del periodo (tra le quali la minimal wave, la new wave) all’essenziale e proiettandole in una vera e propria “Age of Branduardi”. Da qui in poi Angelo comincerà a cambiare rotta verso un pop più codificato e meno sorprendente, a volte zoppicante nell’ispirazione, anche se nel successivo Cercando l’oro del 1983 ci regala esperimenti notevoli come "Ora che il giorno è finito", una piece elettronica con la E maiuscola, inedita per gli standard del nostro bardo, che da sola vale l’acquisto.

Oggi Branduardi potrebbe tornare tranquillmente a gamba tesa con un disco inedito, approfittando di questo rinnovato interesse per il confuso concetto di “medievale”, ma è perennemente in tour con il progetto Camminando Camminando, nel quale ripropone i suoi brani storici campando di rendita. Malgrado le apparenze, però, il nostro non ha mai perso interesse per le novità e la tecnologia. Proprio quest’anno ha prestato infatti la sua voce a un personaggio del videogioco fantasy Elsemir e i cinque doni magici. "L'amico che tu hai dimenticato” non si è dimenticato di noi, anzi, rimane suo malgrado un tendsetter. E che il folklore sia digitale o analogico, la "Musica" resta Musica.

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