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Musica

Cinque dischi (+1) per capire la New Wave Sinfonica italiana

Italian Folgorati ci racconta gli artisti che, decenni prima di 0PN, Björk e Arca, hanno portato il barocco settecentesco nel futuro.
Rondò Veneziano. Foto via Wikipedia.

Ho notato che, nella musica di oggi, nonostante l’artificio futuristico che pervade tutto, c’è una grande voglia di ritorno al “passato”. Classicismi, recupero di strumenti tradizionali, nostalgia dell'orchestrazione, seppur con la tensione di rinnovarla attraverso l’innesto di elementi sintetici. Già ne parlammo a proposito di Branduardi: quello che sta accadendo davanti alle nostre orecchie (vedi 0PN, Björk, Arca, Actress, Teho Teardo) è evidentemente sorto in risposta a un “horror vacui” musicale che in questo presente incerto porta direttamente a un futuro ancora più incerto.

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Ciò che si pone in modo “classico”, tutto sommato, rassicura e dà l’impressione di qualcosa di autentico; pone delle ideali fondamenta per delle costruzioni che ancora non si sa dove andranno a parare e che forse, in virtù di queste basi, potranno reggere all’urto del tempo. Anche per questo la commistione volontaria o involontaria di classicismi con i nuovi trend sonoro-elettronici e la conseguente spinta a produrre musica strumentale non è semplice azione conservatrice e reazionaria, anzi: sembra concepita come indolore passaggio di testimone, un confronto di linguaggi per capire chi la spunterà tra l’uomo e la macchina, nel loro eterno ciclo di amore/odio. La cosa interessante è che non è la prima volta che accade. Italian Folgorati oggi vuole esplorare un campo che proprio nella nostra penisola ha avuto un discreto sviluppo: quello, molto peculiare, che potremmo definire la "Nuova Onda Sinfonica".

Negli anni Settanta e Ottanta, infatti, l'Italia pullulava di dischi che cercavano di unire suoni moderni alle arie classiche più banalmente conosciute (e dico banalmente perché era davvero roba da ABC). A volte, addirittura, ci troviamo di fronte a vere e proprie versioni scolastiche di grandi brani strumentali del passato le cui principali linee melodiche sono sostituite al volo da sintetizzatori, per lo più Moog e affini. Un’idea che certo non nasce in Italia, ma prende piede un po’ ovunque sicuramente dopo l’exploit di Switched on Bach (1968) e poi della colonna sonora di Arancia Meccanica, entrambi per mano di Wendy Carlos. Ma mentre lì il recupero implicava una sperimentazione sonora strabiliante (Carlos usava esemplari unici di synth, customizzati da Bob Moog in persona), in questi casi ci troviamo invece di fronte a una “volgarizzazione” della faccenda, una semplificazione commerciale utile probabilmente a foraggiare una quantità di scapoli che per creare l’atmosfera giusta nelle loro "tane" utilizzavano questi LP al posto di quelli di Fausto Papetti.

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Inoltre, nel genere frettolosamente etichettato come “easy listening” o “new classical” (termini dei coevi movimenti esteri che però sono molto diversi rispetto alle espressioni della nostra penisola), s’incontravano affluenti che derivavano dal prog sinfonico italico, perlopiù sciolto in una melassa romantica a volte talmente estrema da risultare insopportabile. Insomma, la musica pop sinfonica e romantica aveva anche un ruolo sociale, gli amori e il relax dopo il lavoro nascevano anche grazie a queste registrazioni, perciò il fine giustificava i mezzi. Ma non per questo la sperimentazione musicale si arrestava.

Poi, a un certo punto, arriva la new wave. L’amore prende un altro colore, meno rassicurante, cambiano le regole dei giochi; anche la new classical internazionale deve farci i conti. E le cose prendono una piega tale che in Italia si diventa quasi dei capiscuola di commistione tra suoni algidi, chirurgici, e modelli classici che finalmente, più che rifatti di sana pianta, sono d’ispirazione per brani originali scritti per l’occasione e mescolati a rifacimenti di opere imperiture, perché non guasta mantenere un nesso col mercato generalista. È insomma un perenne mash up in cui vero e falso si confondono senza problemi e senza morale alcuna.

Abbiamo dunque deciso di proporvi cinque album del genere, in alcuni casi delle chicche che allieteranno e rinfrescheranno le vostre serate estive lontane dalla pazza calura cittadina, possibilmente, visto il tema romantico, in dolce compagnia.

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Rondò Veneziano, Odissea Veneziana (1984)

I Rondò Veneziano sono senza dubbio dei capiscuola del genere. Da un’idea di Freddy Naggiar, capoccia della Baby Records, la fantomatica band nasce nel 1979 durante una pausa pranzo con il succitato boss e il grande Gian Piero Reverberi, già collaboratore di Battisti, Dalla, New Trolls, De André nonché, più avanti, artefice del sound ”pornoromantico” di Albano e Romina. Freddy si rende conto che in campo internazionale manca un progetto di musica strumentale italiana che riesca a fondere il passato col presente per creare… il futuro.

All’inizio Reverberi pensa a una specie d’ibrido tra Branduardi e Stephen Schlaks, che nella musica strumentale più terribilmente commerciale era il capo dei capi, un bilanciamento fra qualità e musica di massa. Poi però decide di ispirarsi a un disco de Le Orme che aveva appena coprodotto, Florian, nel quale c’era un tentativo di rivisitare in chiave pop/prog la musica barocca e l’immaginario di Venezia, patria della band. Florian non ha il successo sperato, ma proprio in virtù di questo parziale fallimento Reverberi perfeziona l’idea e usa questo limitante “sentimento veneziano” per trasformarlo in un vero e proprio marchio imbattibile.

Mette su un gruppo fantasma con tanto di vestiti del XVIII secolo e parrucche d’epoca, componendo brani ispirati alle strutture del Rondò e saccheggiando però di volta in volta anche la classica di vari periodi storici. A questo, e a un’orchestrazione prettamente da camera, il nostro Reverberi aggiungeva massicce dosi di basso e batteria di estrazione disco/wave e di elettronica che proiettavano il tutto in una dimensione allo stesso tempo futuristica e atemporale.

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L'impatto mediatico fu fortissimo, non solo perché nel 1979 Venezia era tornata a celebrare il suo carnevale storico, ma anche perché nessuno sapeva chi fossero i musicisti coinvolti, tutti session man, metà dei quali completamente sconosciuti (si trovano delle liste in giro, ma sempre incomplete). La musica dei Rondò Veneziano da questo momento avrà una grandissima diffusione, non solo per le TV private che usavano i loro pezzi come sigle, ma per la forza dei brani stessi scritti a quattro mani da Reverberi e da sua moglie, la compositrice Laura Giordano.

Tracce che in qualche modo davano l’illusione di essere degli originali, sì, ma del Settecento. Molti, abituati ai rifacimenti, cadevano nella rete di una vera e propria illusione ascoltando questa perfezione formale fatta di formule ariose, a prova di ogni orecchio ma non per questo dozzinali, anzi a volte particolatamente complesse.

Il nostro consiglio è di ascoltare Odissea Veneziana del 1984, in cui si ritrae una Venezia oltre l’anno 2000. L’elettronica è usata per dialogare e abbracciare letteralmente gli strumenti classici, in una specie di misto tra Jean Michel Jarre e colonne sonore di fantascienza, come nei fenomenali brani “Cà D’Oro”, “Rosso Veneziano” e la title track “Odissea Veneziana” in cui Diego Farina, in quel frangente collaboratore di Reverberi, intuisce la necessità di rivedere Bach e portarlo alle masse filtrandolo con il synth pop.

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Nonostante per anni molti abbiano screditato il progetto come una baracconata per ascoltatori medi e passivi, i Rondò Veneziano, al contrario, sono stati d’esempio per molti esperimenti elettronici futuri. In Italia senza dubbio la ricerca di Reverberi viaggia, anche se in un senso più commerciale, parallela a quella di Franco Battiato (come vedremo più avanti) e nel campo estero l’influenza è stata a lungo raggio anticipando di poco quello che succedeva oltralpe con il new romantic: “Sounds Like a Melody” degli Alphaville ha molto in comune con i nostri, e gli Adam and the Ants settecenteschi di “Prince Charming” sembrano voler indossare le stesse parrucche. Ma quelli che davvero hanno raccolto il testimone sono stati i Daft Punk, che in “Veridis Quo” (e forse anche nella suggestione fumettistica, guardate il promo di Odissea Veneziana) rendono chiaramente omaggio alla creatura di Reverberi sfiorando il plagio. Mai quindi sottovalutare quello che all’apparenza sembra scontato.

Conservatorio Claude Sebastian, Guerrieri Eccellenti (1982)

I Conservatorio Claude Sebastian sono un esperimento curioso: un progetto di Franco Talò (urlatore negli anni Sessanta e artefice di successi minori come “Il rimorso”, poi vago progger solitario con Il Sole del 1976) che negli anni Ottanta decide di aprire una sua etichetta chiamata, in maniera abbastanza imperativa, Uomo Musica, la cui prima creatura è proprio il Conservatorio con un disco dal titolo degno dei primi Litfiba: Guerrieri Eccellenti.

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A proposito dei musicisti coinvolti nella produzione regna il più fitto mistero e la cover raffigura i bronzi di Riace su sfondo sabbia/siderale (l’immaginario è la Magna Grecia, essendo Talò tarantino di origine). Sembra un upgrade del Battiato-sound in senso strumentale, ricordando da vicino gli arrangiamenti “svuotati” de L’Arca di Noè, che uscirà un anno dopo. Nonostante questi riferimenti tanto ingombranti quanto lungimiranti, il disco mantiene una sua coerenza compositiva fra arzigogoli romantici di violoncello, bassi e batterie wave e un synth che più algido non si può, come si evince dall’oppiacea title track o nella tiratissima "Adulterio Mantovano" (nome che è tutto un programma), scelta come singolo di traino.

Ma il brano di successo di questo LP sarà un altro: la cover di "Aria sulla IV corda" di Bach, che diverrà celebre per essere la sigla storica del programma Quark di Piero Angela, tanto da venire ancora oggi confusa con l’originale e all’originale preferita. E, in effetti, quel synth dal sapore quasi theremin ti solletica la corteccia cerebrale per bene, come se si viaggiasse in un cosmo di liquido amniotico drogato. Insomma, roba bizzarra, ma il nostro Talo’ non era nuovo a queste stramberie. Anzi, se dobbiamo dirla tutta, probabilmente, il copyright della band in costume settecentesco con tanto di parrucche è proprio suo. Nel 1966 infatti incontra questo gruppo chiamato Rocky + 4, li ingaggia, li fa vestire da Lady Oscar e li ribattezza CICISBEI, nome improponibile ma la musica forse lo è anche di più: una specie di beat spastico che a volte sembra anticipare i Devo. Un pioniere della contaminazione tra classico e moderno, insomma, non ci sono dubbi.

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Giusto Pio, Legione Straniera (1982)

Con Giusto Pio spostiamo l’ago della bilancia su un diverso peso specifico: dopo il suo esordio micidiale chiamato Motore Immobile, il nostro mastro violinista cambia completamente rotta abbandonando i droni e perfezionando il discorso musica strumentale nella linea new wave del Battiato-sound. E, infatti, Battiato co-firma praticamente tutto il disco, partecipando anche con la sua riconoscibilissima voce e con altrettanti arrangiamenti di elettronica sapientemente dosata, anche se stavolta il coltello dalla parte del manico ce l'ha evidentemente il nostro Pio.

Giusto Pio Attraverso i Cieli

Giusto è la faccia eterea della medaglia “progetto Battiato”, e in Legione Straniera la fa da padrone con le sue lussureggianti melodie cantate al violino e i suoi riccioli neoclassici. Di Motore Immobile rimane l’idea di minimalismo, in questo caso però si tratta di minimalismo orchestrale alla Philip Glass o Steve Reich inserito in un contesto pop sinfonico. Qui Pio sfida i Rondò Veneziano sullo stesso campo che lui stesso aveva seminato un anno prima della fondazione del gruppo. Parliamo del progetto Astra, messo su a quattro mani con Battiato. In copertina del loro primo misconosciuto singolo ("Adieu" sarà però riciclata in futuro da Battiato in molte vesti, l’ultima delle quali il ritornello dell’eccezionale brano “Una storia inventata” per Milva) è ritratto il figlio di Pio, per mantenere il mistero sulla vera identità di Astra, con Battiato che canta con la voce camuffata, avvolto in un curioso arrangiamento sinfonico/wave pestone, in pratica un test sulle future scorribande sonore dei duo. La cosa curiosa, ma neanche troppo visto l'argomento di questo articolo, è che il lato B del singolo si chiama proprio "San Marco".

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Giusto Pio era veneto e la sua formazione musicale avviene proprio a Venezia, ma le influenze di Legione Straniera, rispetto al campanilismo dei Rondò, spaziano veramente da Oriente a Occidente. Come nella concitata "Eritrea’s", nella soave "Celestial Tibet" o in "Giardino Segreto", in cui si superano a sinistra proprio i suddetti Conservatorio Claude Sebastian, con una citazione proprio di "Aria sulla IV corda" di Bach puntellata da dialoghi in una non meglio identificata lingua orientale. Del resto Battiato nutre un’ossessione totale per questo pezzo di Bach, tanto che in realtà la citazione era già apparsa in Fetus, il suo primo album del 1972, alla fine di "Meccanica", dilatata e impreziosita dal dialogo tra Nixon e l’equipaggio dell’Apollo 11. Un’apripista per i neoclassici insomma, come lo sarà Legione Straniera per la new age in Italia: qui si sentono i primi vagiti (come esemplifica il brano finale "Aria di un tempo", un’incredibile sinfonia pre-HD) di un mondo di relax sonorizzato nell’Eden, non importa quanto artificiale e quanto elementare. Un must.

Mauril + Zulian, S/T (1982)

Fra i progetti/mistero è impossibile non citare questo duo messo su per un solo disco nel 1982. Zulian è Franco Zulian degli Armonium, nativo di Udine, compositore e arrangiatore di oscuri singoli di pop italiano (ma anche di cose più main come Flavia Fortunato e Pupo). Mauril è Elio Palumbo dei celeberrimi Santo California, originario di Taranto e tra i capoccia della Yep, etichetta romana di pop stramelodico che vedeva tra i suoi artisti di punta gente come i Romans e Mino Reitano.

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L’insieme è un po’ una sintesi del sentimento neosinfonico del nord e del sud analizzato fin ora, che s’incontrano al centro. Quindi abbiamo il brano d’apertura "Mauril", che fa sfoggio di strutture settecentesche imbottite di sintetizzatori e ritmi disco, oppure "Speranza" che è un saltarello di sinfonica sintetizzata al massimo. Il resto del disco gioca fra melodie classico-epiche derivate dal prog pop (i Pooh di Parsifal fanno capolino qua e là), l’easy listening e spianellate di epoca romantica, su cui appoggiano synth e ritmiche funk/wave.

Non mancano le citazioni, come in "Se te ne vai", che riprende temi circensi trasformandoli in un pathos nostalgia da ribaltabile. Anche in questo disco i nomi dei musicisti sono assenti, l’ignoto assoluto la fa da padrone: solo con l’intuito potremmo carpire qualcosa dei session man convocati (che alla batteria ci sia il nostro Tullio De Piscopo? A giudicare dai fill sui tom potrebbe anche essere).

La copertina raffigura perfettamente questo spirito romantico e misterioso, e lo fa in maniera quantomeno ambigua: avvolta da uno sfondo rosa profondo, la foto in copertina sembra raffigurare un bellissimo efebo, non è chiaro in realtà che sesso abbia il protagonista dello scatto ma è evidente che la copertina nasce per scatenare pruriti. Un prodotto sicuramente di nicchia pur essendo (anzi proprio perché lo è) “scandalosamente commerciale”.

Accademia, In Classics (1982)

Chi sono davvero gli Accademia? Boh. Di loro si sa pochissimo, sembrano spuntare dal nulla nel 1981, ma il loro sound è ancora acerbo e troppo derivativo del pop italiano leggerissimo che era alla destra di Baglioni. Ma solo un anno dopo, improvvisamente, gli Accademia sembrano tutt’altro gruppo: tirano fuori le unghie e producono questo disco delirante composto di un mash up di brani classici diviso in quattro parti, una per lato.

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Si passa da Liszt a Mozart, da Tchaikowsky a Beethoven, con predilezione per i compositori italiani come Rossini, Verdi e Puccini tutti compressi non stop in un missile di sintetizzatori senza cuore e una drum machine marzialmente spietata e suonata a tutto gas, con una rozzezza pari agli Stupid Set di "Rangoon Patrol". Si va al sodo, poche storie, con cori che sembrano più una minaccia di ultrà da stadio che bel canto di musicisti “accademici”. E ovviamente non poteva mancare la cover dell’onnipresente "Aria sulla IV corda" di Bach, con la quale gli Accademia fanno lo sgambetto a tutte le cover del brano finora prese in esame. Il loro sound era infatti chiaramente e saldamente ispirato alle produzioni di Conny Plank (Kraftwerk e Ultravox in primis), e il concetto di new romantic era preso alla lettera e trasportato in un contesto ultraclassico, rinnovando anche la tradizione dei sintetizzatori ben temperati italiani.

Ovviamente ospitati dalla Ariston, l’etichetta dei Matia Bazar che all’epoca stavano passando definitivamente all’elettronica allenandosi anche loro con le cover dei grandi classici (ricordiamo la loro "Lili Marlene" versione technopop, probabilmente studiata dagli Accademia per il loro progetto), i nostri eroi registreranno altri tre dischi, tra i quali il successivo e interessantissimo Accademia Style, che vede, oltre alle solite cover di musica classica, delle composizioni originali che in gran parte sono vere e proprie canzoni in stile new romantic (vedi l’epica “Spedizione Utopica in Alaska”), in altri casi si spostano in zone esotiche Giusto Pio-style ("Shangai" parla chiarissimo).

Il tentativo di aderire a tutti gli effetti al new romantic (nel disco c’è addirittura un pezzo entusiasticamente dedicato al movimento omonimo) confonderà il pubblico, ponendoli in una terra di mezzo poco credibile sia al facile consumatore di dischi sia all’area alternativa. L’unica cosa certa di questa strana band è che Leonardo Schiavone, il tastierista, ha fatto parte degli Stormy SIx nel periodo Macchina Maccheronica e che il violoncellista Claudio Frigerio ora si occupa solo di suonare il suo strumento nelle orchestre di musica classica. Ma si sa, quando si tratta di new sinfonica nulla è sicuro.

Fuori concorso: Il Guardiano del Faro, Oasis (1978)

Il lettore più attento avrà forse storto il naso non vedendo citato uno dei padri di un certo tipo di sensibilità classico-romantica applicata ai sintetizzatori, Federico Monti Arduini anche conosciuto come Il Guardiano del Faro, il “principe del Moog”, che ha praticamente sdoganato tale strumento nel 1972 a quell’altissima percentuale d’italiani ai quali della PFM non fregava nulla. Ma pur entrando di diritto nella categoria new sinfonica e anzi essere un assoluto pioniere del genere, ha sempre favorito l’easy listening, per cui a nostro parere fa stile a sé.

Nonostante ciò, è impossibile non citare “fuori concorso” il suo assoluto capolavoro sintetico-classico-romantico Oasis. Disco di culto in quanto senza dubbio è il primo disco proto-chillwave/glo-fi mai prodotto in Italia (e siamo solo nel 1978!), rappresenta un cambiamento notevole nella produzione del nostro. Abbandona infatti i facili trick compositivi e le smancerie dolciastre per un meraviglioso oceano di sintetizzatori usati allo scopo di evocare isole di lucente silicone. Alla batteria (qui ne siamo sicuri) c'è un Tullio De Piscopo che sembra un’inarrestabile drum machine in carne ed ossa. Disco fondamentale per le vostre vacanze “in classic”, non ci sono dubbi.

Ci sarà davvero un ritorno di fiamma per questa musica, atta a evocare mondi idilliaci e umanisti, visto gli anni terribili che viviamo? È presto per dirlo. Voi comunque mettete su questi dischi e chiudete gli occhi. Con i classici non sarete mai soli, ve lo garantisce Italian Folgorati.

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