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Demented parla da solo

Morricone e la sua cosa

Di quando John Carpenter lo ha dato in pasto al cinema splatter e Morricone è diventato uno dei miei punti di irriferimento, nel bene e nel male.

Illustrazione di Simone Tso.

Io, da ragazzino, ho conosciuto Ennio Morricone. Era circa il 1989, avevo circa 14 anni e mio padre frequentava un uomo che, casualmente, era suo amico. Anzi, più che un amico: un compagno di imprese. Costui era il grandissimo regista e uomo Gillo Pontecorvo, scomparso da pochi anni e che ha lasciato su questa terra un vuoto umano e artistico non indifferente. Una sera ci invitò a cena da lui, e in quell’occasione al nostro tavolo sedevano anche Ennio e sua moglie. Potete immaginarvi la mia emozione, che piano piano lasciò il posto alla “scannerizzazione analitica”. Morricone mi sembrava un uomo molto strano: giocherellava a far suonare i bicchieri, dicendo “ascoltate, suonano come un sintetizzatore Fm!” e si addormentò russando sul divano appena finita la cena, in maniera quantomai buffa e fantozziana. Nello stesso tempo aveva un carattere deciso, una personalità quasi spietata: parlammo di musica. Le critiche mosse a tutta una serie di personaggi dello spettacolo e persone con cui aveva lavorato non si contavano (non posso dire di più per timore di rappresaglie legali, ma si trattava anche di “truffe musicali” ben congegnate), e poi aneddoti a pioggia. Critiche spietate anche al sistema Siae, un orgoglio esagerato per il figlio—nonostante non fosse minimamente paragonabile a lui, artisticamente. La sua filosofia di vita era riassunta nella parola “studiare”, pronunciata con la solennità con cui si nomina Dio. Insomma Morricone mi sembrava un personaggio affascinante ma da prendere con le molle, uno con un caratterino “doppio” se non triplo dentro di sé. Da quel giorno non lo rividi più se non in televisione.

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Mi è tornata in mente questa scena della cena dopo aver letto, circa un mese fa, la polemica mossa a Tarantino per l’utilizzo diciamo “decontestualizzato” dei suoi brani nel film Django Unchained e l’ammissione di non amare il genere “splatter”. Dichiarazioni dalle quali si è in parte dissociato, ovviamente. Lo immaginavo a borbottare animatamente queste parole, magari davanti ad una tavola apparecchiata: "Con Tarantino non vorrei mai lavorare… il suo film Django non mi è piaciuto molto, c’era troppo sangue e poi lui sceglie le musiche senza coerenza e io non posso fare nulla così."

Ma c’è un precedente rispetto a questo episodio. Prima di Tarantino, forse l’unico regista ad aver detto davvero NO a Morricone e averlo gettato in pasto al cinema splatter è John Carpenter: il film incriminato è La cosa e la sua genesi è, a mio avviso, la summa del Morricone pensiero, con tutte le sue contraddizioni.

Premettiamo: da sempre Morricone è considerato il più importante compositore italiano di musica da film. Gli altri non hanno la visibilità e probabilmente il suo carattere, ma neppure il lungo curriculum che spazia dalla musica concreta (Nuova Consonanza) alle canzonette (Morandi, Mina e co.), ai film comici fino alle prove più propriamente sinfoniche, e una grossa fetta del suo lavoro è dedicata all’arrangiamento. Una buona maggioranza lo considera un genio, e senza dubbio è una mente. Se seguiamo il motto di Carmelo Bene, cioè “il talento fa quel che vuole, il genio fa quel che può” obiettivamente Morricone è un genio, avendo piegato qualsiasi stile alla sua personalissima visione del mondo. Purtroppo viene ricordato principalmente per i film di Sergio Leone, e questo non gli rende giustizia. In effetti i temi delle colonne sonore dei film di Leone sono  popolarissimi e chiunque è capace di fischiettarli: all’epoca talmente ficcanti da poter essere paragonati alla sorte di “Imagine” di John Lennon: col passar del tempo quella musica rivela tutti i suoi limiti e invecchia musealmente. Personalmente non mi è mai piaciuta l’enfasi di molte sue composizioni classicheggianti, e spesso rimango perplesso anche di fronte alle sue canzoni, che  trovo a volte ruffiane se non puri esercizi di stile (a parte nei casi tipo Cicciolina); ma è là che se ne vedono il mestiere e il cinismo di fondo. Non importa cosa e per chi scrivo, l’importante è la grana. Tu sei il cliente ed io “mi vendo”, per cui avrai il prodotto che desideri anche se sono al minimo storico per quanto concerne l’ispirazione.
Nonostante questo, la grandezza di Morricone è quella di tramutare anche le cagate in oro e il mestiere in sentimento e capolavoro, da vero artigiano della musica. In tal senso è sempre stato dichiaratamente un uomo pronto al successo di massa quanto alla commozione sincera. Infatti, accanto alle collaborazioni vissute quasi come militanza passionale (vedi Petri) di base si concede a chiunque lo cerchi, anche a personaggi che non stima (vedi Zucchero). L’importante, appunto, è il cash. In questo senso Morricone è “the great score swindle”, e andrebbe rispettato solo per questo. Ma alcune sue recenti mosse quali l’affiancarsi al figlio nella composizione e la pressante richiesta di un Oscar (praticamente un contentino di lusso) rivelano un suo profondo desiderio di consacrazione che in un contesto culturale e politico come quello odierno dovrebbe essere  più che felice di non ricevere: perché anche senza riconoscimenti accademici, è sempre stato un’icona imbattibile.

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Le più belle colonne sonore di Morricone sono però sconosciute ai più: ad eccezione di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri, piuttosto famosa, troviamo, fra gli altri, degli autentici capolavori in La proprietà non è più un furto sempre di Petri, 4 mosche di velluto grigio di Argento, con il suo beat psicotico, Teorema di Pasolini, per il quale firmerà  musica e “movie mixtape” di molti dei suoi migliori e controversi film, tutto il periodo dei film “minori” densi di sperimentazione (uno per tutti Macchie solari, quasi harsh noise) oramai pasto per gli appassionati dello “spaghetti wasteland”, e le colonne sonore a quattro mani con Gillo Pontecorvo. Di solito il punto debole di Morricone è l’eccessivo rigore, che fortunatamente in queste opere citate manca. Rigore che alla fine si trasforma sovente in ripetizioni di moduli e furbastri pezzi pop (un esempio per tutti, "La ballata di Sacco e Vanzetti").

Mission è una colonna sonora da dimenticare, ad esempio. Così come il polpettone di Novecento, o altre cagate in odor di “radio vaticana” in alcuni passi del famosissimo C’era una volta in America. Insomma, due palle.

Tornando a La Cosa, Carpenter decise di affidare la colonna sonora del suo film a qualcuno che potesse dargli un respiro europeo, dopo anni di autarchiche colonne sonore elettroniche che hanno fatto la storia del genere horror e fantascientifico, spesso sfacciatamente ispirate al lavoro svolto dai Goblin per Dario Argento, di cui Carpenter era fan sfegatato. Questo uno dei motivi della “scelta Morricone”. Il cambiamento di rotta era probabilmente suggerito dalla pellicola stessa, molto più “seria” rispetto ai suoi precedenti girati. Il film è ovviamente un cazzotto in pancia, e rimane tale anche oggi a distanza di anni, nonostante un sequel da poco sfornato. Serviva una persona come Morricone a incarnare questo rigore maestoso. Da qui in poi i due verranno apostrofati come C e M , come  personaggi di una intrigante favola moderna.

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C vola a Roma e mostra il film a M, che lo apprezza. Dietro le insistenze di C, M decide di accettare la commissione, anche per l’alta qualità della pellicola. Comincia dunque a comporre dei temi e appena terminati vola a Los Angeles per sottoporre il tutto a C e registrare con l’orchestra. Bene, C non dice nulla sui brani da scegliere, rimane anzi abbastanza indifferente. M le prova tutte, portandosi dietro anche dei vecchi esperimenti di musica elettronica, ma con scarso successo, rimanendo incredulo di fronte ai rifiuti del regista. Alla fine C sceglierà un unico brano, la cui importanza è pero’ capitale nell’economia del film. “Humanity part II” è infatti l’unico brano con un tema netto a comparire in tutta l’opera, per il resto sono usati pochi stralci di brani prevalentemente cacofonici, e altro venne aggiunto a parte da C. Questo perché “Humanity” è la perfetta sintesi del film, ma anche della condizione di isolamento e del disgusto del e verso l’umanità. Un pezzo commovente tra il funebre e il nauseato, colmo di fragilità nazista, freddo come le sbarre di una gabbia, cattivo come la merda, con un inizio lucidamente folle e un crescendo finale rancoroso da far gettare dal balcone in preda alla pazzia qualsiasi uomo provvisto di sensibilità.

Ad aiutare questo senso di mostruosa impotenza ci sono i sintetizzatori, centellinati ma efficacissimi: la prima versione in apertura, solo con gli archi, è quasi rassicurante. Tutto sommato un classico score fanta-drammatico. Ma coi sintetizzatori glaciali e ossessivi messi in gioco da Carpenter, dall’intera colonna sonora fuoriesce satana. Qualcosa di davvero disumano e spaventoso, zone maniacali che sembrano non solo evocate, ma anche vissute sulla pelle del compositore. Sembra che questa musica metta a nudo l’anima lacerata di Morricone, e la calda matematica freddezza delle sue rigorose composizioni. Tutto il disco trasuda malattia e delirio, ma per la maggior parte dei brani in maniera “kubrickiana”—cioè basandosi su un estremo ordine formale, aiutato anche dai probabili sequencer utilizzati.

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Ritrovano spazio gli esperimenti concreti della “nuova consonanza”, ma in una cabina sterile. Come già detto, Morricone ricicla spesso pezzi e temi: anche qui non si smentisce. Recupera “indagine” e lo piazza qua e là, con le dovute modifiche.

E poi “Bestiality”, un canone: quindi sulla carta qualcosa di estremamente classico. Qui sembra una cavalcata sabbatica, quasi black metal per la sua crudezza, sembrano i violini di grossi tumori che si rincorrono, con un piano letteralmente “pestato” sui toni più gravi.

Carpenter probabilmente si era accorto che il film annullava la colonna sonora e viceversa. Un film così denso e difficile dal punto di vista delle immagini e della tensione aveva bisogno di una colonna sonora che l’accompagnasse, non che interagisse fino al punto di sostituire il girato. E in effetti possiamo ascoltare la colonna sonora e immaginare delle scene del film ben precise, quando poi nel film non compare alcuno score. Anzi siamo quasi certi che ci sia lo stesso, come nell’ultima scena pensiamo che sia tutto finito ma così non è. Un film sulla solitudine, sulla paranoia, non può che avere un tema conduttore monolitico. La voce della “cosa”, o comunque dell’occhio esterno affatto benintenzionato, che potrebbe colpire alle spalle anche fuori dalla sala cinematografica.

Fatto sta che a Morricone, come nel recente fatto di Tarantino, questa scelta non andò giù. Era sicuro che Carpenter avrebbe inserito gran parte dei brani nel film, sostenendo di conoscere i suoi “clienti” e quindi in qualche modo svilendo le scelte del regista che—come si sa—possiede comunque l’ultima parola (a patto che il produttore non sia un macellaio come de Laurentiis, cosa che in questo caso puntualmente si verificò). Col secco no di Carpenter, Morricone è ritornato improvvisamente coi piedi per terra smascherato dalla sua stessa colonna sonora, che in un certo senso svuota la sua musica dall’artificio, paradossalmente amplificandolo e rivelandolo, come nella orribile scena del defibrillatore. La cosa è dunque Morricone e Tarantino è Carpenter? Può benissimo darsi. Comunque sia, la sua musica è la sua Cosa ed è uno dei miei punti di irriferimento, nel bene e nel male. D'altronde è dello Scorpione.

Demented Burrocacao è una nostra conoscenza di lunga data, e per VICE si occupa di recensioni, reinterpretazioni e altra musica. Una volta si è anche fatto intervistare. Come avrete capito, questa è la sua nuova rubrica. 

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