Heart of Noise è l'alternativa rilassante ai festival estivi
Gas; fotografia di Francesca Corno.

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Musica

Heart of Noise è l'alternativa rilassante ai festival estivi

O, come evitare la bolgia del Primavera con tre giorni di ambient, elettronica e avanguardia tra le montagne di Innsbruck.

Heart of Noise è un piccolo festival che si tiene a Innsbruck, che sta a pochi chilometri oltre il confine con l'Austria, a nord di Bolzano. È un luogo che un agente immobiliare definirebbe a misura d'uomo, in cui all'osteria ci si saluta tra sconosciuti e si fanno sempre passare i pedoni sulle strisce. Sta quasi tutto nello stesso edificio, un centro culturale nel centro della città in cui i concerti si alternano in due mini-sessioni: prima una nella turm, la torre, e dopo mezzanotte una nel keller, la cantina. C'è un bar/ristorante, al piano terra, sviluppato attorno a una sorta di casupola in vetro e ferro battuto in cui vagano gli artisti—così da permettervi di mangiarvi un'ottima versione austriaca della pizza mentre guardate i vostri musicisti preferiti scherzare amabilmente mentre si versano del curry in un piatto. Qua sotto dei mini-paragrafi in ordine non cronologico, a raccontare i concerti più interessanti della tre giorni. Ma ce ne sono stati tanti altri, vedi un imprescindibile Basinski a eseguire A Shadow in Time, e malatissimi e distorti set di Maja S.K. Ratke, Damien Dubrovnik aka Croatian Amor e Sote.

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Al piano inferiore del Treibhaus qualcuno ha fatto una super gag. La "L" nella scritta "KEIN GLAS BITTE" —"No [bicchieri di]vetro, grazie"—che staziona sulla porta del keller, sala concerti sotterranea del centro culturale dove si sta svolgendo l'Heart of Noise Festival, è stata cancellata con un segnazzo di pennarello nero. Quello che resta è un sogghigante "KEIN GAS BITTE" che avrà sicuramente fatto la felicità di Wolfgang Voigt. È dietro quella porta, infatti, che si cela il live show audio/video del suo progetto Gas: l'ultima performance che vedo al festival, un'ottima chiusura a una tre giorni di concerti. Dietro al profilo nero di Voigt si stagliano fittissimi rami in HD, gli stessi che adornano la copertina di NARKOPOP; mentre le bordate di suono generate dal suo portatile si fanno sempre più pesanti e marziali, i rami si assottigliano fino a diventare una sorta di gradiente disordinato. La natura si fa digitale, i pixel rivelano la loro vera natura mentre un beat marziale fa terra bruciata nella brulicante foresta generata da Voigt, procede instancabile per minuti e minuti. Quando scompare, i rami tornano—ma in bianco e nero, glitchati e scomodi all'occhio—sostenuti da un rumore né inquietante né liberatorio, ma solo evidente nell'enormità del suo nulla.

Arve Henriksen tocca tasti e soffia nel bocchino della sua tromba mentre Christian Fennesz schitarra esaltato come un ragazzino con in mano la sua prima Squier da cento euro quando riesce a mettere due accordi in fila. Non hanno un disco assieme, ma dovrebbero proprio farlo: i fiati filtrati elettronicamente di Henriksen adornano infatti piacevolmente, con piccole figure melodiche, il lavoro d'ambiente del chitarrista ungherese. Ci sono dei loro video dal vivo, però, e sotto al più visto—registrato a Copenhagen nel 2015—c'è un commento proprio di Arve, che dice "Hey, bomba di video! Non è che me lo puoi passare? Vorremmo fare un disco assieme ma ci serve materiale come questo per convincere la gente a farcelo fare. Grazie ciao." Come fai a non innamorarti di un musicista così io non lo so.

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Fennesz e Arve Henriksen. Fotografia di Francesca Corno.

Huerco S. ha deciso che ormai le percussioni non fanno più per lui. Ci ha anche provato, per un pochetto, ottenendo tra l'altro ottimi risultati—Colonial Patterns era tutto un fruscio soffocato, una moquette sonora che ricopriva il pavimento del piano terra sopra un club pulsante e sudato. Ma è difficile persino riconoscere le vibrazioni di For Those of You Who Have Never eccetera, tra le sezioni del suo live set. Brian Leeds si presenta sul palco con lo sguardo basso, mezzo riparato dalla visiera del suo cappellino. Ha davanti più che altro gente stesa per terra, sul pavimento della turm. Nel giro di una cinquantina di minuti mi fa pensare a quali rumori potrebbero riempire le orecchie di un disgraziato gettato a forza da un aereo—un misto di terrore e liberazione, il suono della gioia per la fine di un dolore che lascia spazio, per qualche minuto di caduta libera, il pensiero della finalità della morte nel retro dei pensieri. Tale DJ Cassawarrior, palese proprietario di uno dei nomi da DJ migliori della storia, mette su dischi eritrei sul tetto di un hotel a volumi imbarazzanti mentre chi vive sui pendii delle montagne che circondando la città ringrazia iddio per l'assenza di neve, e quindi di slavine, sopra alle loro amate proprietà.

E.E.K. & Islam Chipsy. Fotografia di Francesca Corno.

Intermezzo d'ambiente: dalla cucina del Treibhaus esce un odore d'aglio clamoroso, confermato dalla presenza del suddetto negli ingredienti di tutte le pizze acquistabili. Tutti bevono radler aka birra e acqua frizzante + fetta di limone. William Basinski fuma una sigaretta seduto, da solo, a un tavolino in mezzo alla gente. Nessuno sembra essere troppo preoccupato dell'esito della finale di Champions League, mentre da un pub vicino escono musi juventini presi piuttosto male. In nessun angolo, a nessun concerto, c'è mai ressa. La gente si siede a guardare i concerti e resta seduta. Si stende per terra, anche. Ci sono due batterie e un tastierone Yamaha polveroso sul palco di E.E.K. & Islam Chipsy. Quando cominciano a suonare la loro marcia, allucinante versione del mahraganat, la gente comincia piano piano a rendersi conto di essere di fronte a quello che si rivelerà essere il momento più ballabile e divertente di tutto il festival. I batteristi tirano tighe ai tamburi con mani e bacchette, Chipsy prende letteralmente a schiaffi i tasti che ha di fronte. I tre tentano anche, unici nella tre giorni, di coinvolgere il pubblico con botta e risposta, battimani e tricchetracche varie. E ci riescono anche, sul finale, quando chiedono un "OOOOH" in cambio dell'ennesima ripetizione della coda di un brano. Lo fanno per almeno una quindicina di volte, e sembrano sempre più presi bene ogni volta che il gioco si ripete.

Forest Swords. Fotografia di Francesca Corno.

Matthew Barnes, che si chiama anche Forest Swords, è uno dei pochi presenti a Heart of Noise che si ferma dopo ogni pezzo, ringrazia e continua. Compassion, il suo ultimo LP e primo per Ninja Tune, cammina ancora sul sentiero tracciato da Engravings—un pietrisco composto dai frammenti della tradizione elettronica britannica degli anni Novanta, le rocce del dub e del trip-hop martellate fino a diventare ghiaietta, con un basso e una chitarra suonati dal vivo a dare un senso di umanità al tutto. Dal vivo l'elemento umano—vedi i saltelli e i molleggiamenti di Barnes—dà una splendida forma di tangibilità a una musica che, su disco, fa suonare ancestrale un passato prossimo. A un certo punto del concerto degli Psychic TV, Genesis P-Orridge dice queste esatte parole: "Se amate qualcuno, non dimenticate mai di dargli un bacio. È molto importante." Io mi sciolgo come un Solero a pensare che sto ascoltando parlare il fondatore dei Throbbing Gristle, mica dei Belle and Sebastian. E continuo a farlo mentre lui scandisce a ripetizione le parole "new sexuality" nella frenesia di una versione distorta di, appunto, "New Sexuality." La cosa che più mi colpisce è che, nonostante dal vivo siano una delle band più prolifiche di sempre—ricordiamo che esordirono con diciassette live album di fila, e nei loro progetti ce ne sarebbero dovuti essere ventitré—Genesis e gli altri sono tutti lì impettiti e attenti a suonare bene che sembra abbiano addosso una versione positiva dell'ansia da palcoscenico. La leggo come voglia di far bene, non sbagliare e attaccamento al collettivo.

Psychic TV. Fotografia dell'autore.

Quando vado a vedere in giro i video dei concerti recenti di Jenny Hval mi rendo conto che non ho beccato una serata no: Jenny ha scelto di allontanarsi dalla forma-concerto normale in favore di un mini-showcase teatrale del suo immaginario. Jenny dice che è stanca perché è andata a fare un giro sulle Alpi ed è un po' tardi per lei—suona poco dopo la mezzanotte—e poi si scusa con chiunque abbia percepito un'aura negativa attorno alle sue parole. Dice che si trova a un festival pieno di gente con tavoli con sopra cose, e allora lei si è portata un suo tavolo con sopra degli intestini (aka dei cuscini a forma di intestini, sembra). Procederà a passarseli attorno lungo quasi tutto il concerto. Sul finale, stacca una cerata dal suddetto tavolo, se la avvolge attorno e ne esce tipo crisalide cantando "Female Vampire." In tutto questo, si dimentica di rendere i suoi (bei, bellissimi) pezzi effettivamente coinvolgenti e causa una generale stasi nel pubblico, se non per una ragazza che non si ferma un attimo e probabilmente sta ancora dervisciando per le strade di Innsbruck. Elia ha Twitter: @elia_alovisi Segui Heart of Noise Festival.
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