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Musica

Come "The Wall" mi ha rovinato la vita

Esce al cinema una nuova versione di "The Wall", che probabilmente continua a far diventare scemo anche Roger Waters...

Immagino che ognuno di voi abbia un incubo ricorrente che lo perseguita.
Be', ne ho uno anch’io, solo che il mio è in carne ed ossa: trattasi di Roger Waters. Oddio, più che l’ex leader dei Pink Floyd in realtà il mio incubo è una sua opera, quella che oramai è entrata nell’inconscio collettivo dei figli degli anni Ottanta, ovvero The Wall. Incredibile come il buon vecchio Roger continui insistentemente a riproporre live questo lavoro, come se ce ne fosse bisogno, ma soprattutto come se fosse in grado di reggere uno show del genere alla sua veneranda età.
Be', oggi esce il film sulla sua ennesima messa in scena, in cui potrete constatare come la voce del Nostro sia oramai un ricordo e gli arrangiamenti siano mosci come i pupazzi usati nel concerto prima di gonfiarli.

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Forse è una questione di portafogli, forse è mancanza d’idee (sono anni che Roger non pubblica nulla di nuovo, anche se promette a breve l’ennesima "opera rock"), forse semplicemente pensa che The Wall sia oramai un lavoro “pedagogico”—perdendo quindi lo sprint anarchico di una volta. In un certo senso è così: i nuovi video usati nello show, infatti, sono a tratti totalmente didascalici, mentre nell’originale c’era un senso di ambiguità che non lasciava molto spazio a moralismi. D’altronde che dobbiamo farci, è la vita, a lungo andare ci si rincoglionisce. Fatto sta che, come la si rigiri, The Wall mi ha rovinato l’esistenza.

Per spiegare il perché analizzerò la percussione di quest’opera in me a partire dalle tre parti che lo componevano e che Waters nel '79 aveva pensato allo scopo di rialzare le finanze dei Pink Floyd, oramai con le pezze al culo. Disco, tour e film: si vada a incominciare dunque.

IL DISCO

La prima volta che vidi la copertina di The Wall era a casa di mio zio, grande fan dei Floyd. Come da tradizione del gruppo, trattasi di un geniale esempio di minimalismo visivo: come la mucca di Atom Heart Mother era una semplice mucca, qui è un semplice muro e da qui l’inquietante “normalità” della faccenda. Niente credits, l’unica concessione era un adesivo con l’iconica tag (perché di tag si tratta) di Gerarld Scarfe, l’allucinato llustratore / creatore dei mostri a fumetti dell’interno copertina, arroulato dalla band dopo la visione di questo rilassante filmino.

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Comunque anche il solo “Pink Floyd The Wall”: nella sua freddezza grafica già diceva tutto. A undici anni circa misi il vinile sul piatto e ne rimasi folgorato: c’era della roba che era impensabile potesse funzionare a livello commerciale. Waters sbraitava come un pazzo, alcuni brani erano di una claustrofobia delirante (l’industriale “Empty spaces” su tutti). Era un pop rock “brutto”, “sbagliato” su tutti i fronti (addirittura c’erano i testi di brani inesistenti, cosa che mi faceva sbroccare) e poi, cosa ancor più forte, si parlava di emozioni negative e di profondo odio per lo status quo, la scuola, la famiglia e le regole prestabilite, non risparmiava nulla. Perciò pane quotidiano per un undicenne che non ci capisce ancora un cazzo della vita.

Quello che però mi sconvolse fu l’ascolto di “Don’t leave me now”. Un pezzo storpio, una caduta negli inferi fatta di vuoti echi pneumatici, armonie completamente fuori fase e sospiri tisici. A quel punto mi sono detto: “posso suonare e registrare quello che cazzo mi pare”. Ed è esattamente quello che faccio ora: in un certo senso è stato il mio primo disco metapunk di sempre. Che poi vabé, dopo aver ascoltato i field recordings e i rumori ivi contenuti me ne andavo in giro con un registratore a cassette a incidere qualsiasi stronzata: gli uccellini, il cesso, l’officina di mio nonno, le automobili. Insomma mi ha deviato completamente, cosa che il periodo Barrett non poteva, per il semplice fatto che là c’era ancora la deriva fricchettona mentre qui si sovvertivano i suoni della mia era usandoli col culo. Era, diciamo, Barrett portato negli Ottanta: infatti la sfortunata epopea del protagonista è dichiaratamente a lui ispirata (Pink a una certa scapoccia e si rade tutto, anche le sopracciglia come il Barrett datato 1975). Risultato di ciò, andavo in giro con la t shirt di The Wall disegnavo muri taggati su ogni quaderno e appena vedevo un muro vero mi genuflettevo di fronte.

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David Gilmour disse che le demo erano “un orrendo caos”: poi però ricacciate fuori nella versione Immersion del disco ti accorgi della verità. Altro che caos, in pratica sono The Magits formato canzone: un delirio sintetico, una cosa che se l’avessero pubblicata avrebbe davvero creato un bel cortocircuito. Ma ovviamente miravano a fare soldi, non avrebbe mai funzionato. Oggi i Pink Floyd sarebbero però di nuovo underground e a John Lydon (che tanto li criticava) gli avrebbero scureggiato in testa: provare per credere. Su una cosa Gilmour aveva ragione: l’intero The Wall è un'unica monolitica canzone tutta uguale che si ripete per due dischi due (il tema di “Another brick…” appare praticamente sempre).

E che je voi dì? Ancora più geniale. D’altronde non è che Gilmour non fosse un malato di mente, figuriamoci. Se si ascolta il suo disco solista uscito l’anno prima, il suono di chitarra è un incrocio fra la new wave e l’hard rock, potrei dire che è proto grunge. Anche lì dai testi non si sta sereni, anche se lui è in fissa col blues e quindi la sua sofferenza è “decodificata”. L’unione fra un minimal waver appena convertito e un proto grunger di 40 anni costretti a fare una roba vendibile che poteva creare? Un disagio cosmico: e The Wall è tanto una presa a male che, durante le registrazioni, Wright era fuggito in vacanza a farsi di cocaina e per quello fu cacciato a pedate. Non male per un disco “mainstream”.

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IL TOUR

Magari averlo visto nell’80, ero troppo piccolo anche solo per ascoltare il vinile, per cui anche qui l’immaginazione galoppava. Si narrava di spettacoli con effetti speciali epici, di una cosa cui non si poteva assolutamente mancare, e il fatto che fosse irripetibile era fonte di dispiacere. Poi però cadde il vero muro, quello di Berlino, e Waters decise di rimettere in piedi la baracca per festeggiare l’evento e alzare gli ennesimi spicci.

Oramai senza i Floyd, chiamò una serie di buffoni dello starbiz musicale cui affidò le partiture del disco. La cosa stonava parecchio, ma almeno c’era la possibilità di vedere di che cazzo si trattava: ebbene lo vidi in TV e devo dire fu un’esperienza interessante. Anche se poi all’uscita del DVD di Is There Anybody Out There con tutto il concerto dell’80 ti rendi conto di quali cagate siano i successivi rifacimenti. A parte l’inizio con il presentatore che viene interrotto a improvvise esplosioni, che è un capolavoro, il resto è davvero perfetto: i mostri gonfiabili sono terrificanti e l’interpretazione di waters incalcolabile soprattutto quando insulta il pubblico con epiteti tipo “ paranoici e deboli”. Un gesto punk al contrario, il cantante sputa sul pubblico e non viceversa (in un certo senso anche i Fear lo facevano, anzi gli menavano proprio al pubblico).

Insomma adesso a vedere come tenti di rifarlo “potenziato” sembra un karaoke formato stadio, con supereffettazzi HD al limite del pacchiano hollywoodiano e niente più. L’unica cosa fica è il bombardiere durante “Goodbye Blue Sky”, che al posto delle bombe ora lancia simboli di varie ideologie, dal dollaro alla stella di David (cosa che in un concept come questo ti attira accuse di antisemitismo a tavolino: non è stata proprio 'na furbata come provocazione ma alla fine.. severo ma giusto).

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IL FILM

Nell’immaginario di un undicenne—appunto—quei mostriciattoli a fumetti (la madre, il giudice ovviamente con la faccia da culo, il maestro, la fidanzata) e la scenografia con i martelli (rossi e neri, unione dei due totalitarismi) ecc. non potevano che suggerire una storia in cui il pupazzo di pezza rosa (ovvero Pink il protagonista) è scaraventato in diverse situazioni, tipo che ne so… solo in una metropolitana vuota, in strade puzzolenti illuminate da neon rotti, davanti appunto al giudizio di mostri stile Alice Nel Paese Delle Meraviglie...

Insomma, le paure dell’età erano ben espresse da quelle figure: l’idea di un film a cartoni animati inframmezzato da performance live del gruppo, in effetti, fu accarezzata, ma poi arrivò Alan Parker (il grande regista di Fuga Di Mezzanotte) e la cosa da “simbolica” divenne reale. Anzi, più che reale: iperrealista, visto che è tutto portato all’estremo. Quando il film uscì, era il 1982 e avevo sette anni. L’unica cosa che mi ricordo è la locandina affissa al cinema, che mi faceva cagare sotto: raffigurava un orrendo volto umano trasfigurato in un urlo di dolore, sempre uscito dalla penna di Scarfe. Era il periodo in cui su 30 film 20 erano horror, di conseguenza non potevo immaginare fosse un musical (per quanto inquietante). Nonostante, infatti, circolasse da tempo il video promozionale di “Another Brick in the Wall” con i suoi poco rassicuranti ragazzini che entrano in un tritacarne e si trasformano in vermi, scoprii la vera portata della pellicola solo più avanti tramite giri “loschi” e illegali. Ebbene sì: in fissa per vedere il film e non potendomi procurare da solo la videocassetta, decisi di vendermi delle cose (fra le quali la chitarra elettrica di seconda mano sulla quale imparavo i rudimenti) allo scopo di acquistarla. Evidentemente c’era l’inculata, perché la cassetta manco era originale, ma una copia, e onestamente non ricordo nell’86 quanto costassero le videocassette, ma non credo quanto un vaso Ming. Sicuramente il padrone dell’unico negozio di dischi a Torrevecchia era un furfante, tant’è che per ringraziarmi di avergli lasciato il mio futuro mutuo mi regalò una compilation disco taroccata (col finto timbro SIAE, of course).

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Una volta ottenuto l’amato prodotto lo visionai con l’emozione che potrebbe provare un neofito di film porno (d’altronde era V.M. 14), e fu una mazzata nel colon. Eccessivo, fuori dalle righe, pieno de tutta la merda possibile da tentati suicidi a nazisti stupratori, con animazioni mostruose, gente che si droga, mignotte, sangue e scene di violenza random, la visione di The Wall mi fece esplodere la testa (non mancai di farla esplodere anche a mio fratellino facendogli vedere il giudice faccia di culo che caga in testa a tutti).

Per chi non lo sapesse, la trama parla di questa rockstar in crisi esistenziale che oramai non riesce manco a parlare e che vede nella sua crisi il frutto del mondo moderno: madre oppressiva, ragazza che non si sa cosa vuole, maestri violenti, il padre morto in guerra. Proiettando su di loro la sua incapacità di relazionarsi, il nostro antieroe si trasforma nelle stesse figure autoritarie che detesta, erigendo intorno a sé un ideale muro, col gran finale in cui diventa un perfetto nazista e ovviamente fa tutto da solo nel suo cervello, persino autoprocessarsi nel finale. Trattato di antipsichiatria e di politica anarchica, The Wall è un film talmente oltre che addirittura ci recitano nazisti veri. E tra l’altro è un film punk, visto che il protagonista è Bob Geldof periodo Boomtown Rats: direi anche tristemente profetico visto che il buon Geldof ha sulla coscienza—pare—un duplice suicidio, ed è passato davvero dall’altra parte della barricata, ma vabè, soprassediamo.

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Ovviamente io ero d’accordo con le visioni di Pink, cioè che di base la vita è una merda. Perciò da lì al dark il passo fu molto breve, e questo rovinò tutta una serie di cose che magari a undici anni, sai… Cerchi di rimorchiare fumi le sigarette, vai in motorino in discoteca… Io nulla di tutto questo: andavo in giro con la maglietta con i martelli e fanculo tutti, alle ragazzine facevo vedere le riviste sui sintetizzatori invece della collezione di farfalle. Insomma stavo bene. Comunque il film che ci avevo in testa io era mille volte meglio, era fatto SOLO di pupazzi. E poi non so se avrei spezzato “When the Tigers Broke Free” in due: come grande inedito si meritava una sequenza a parte.

LA CRITICA

Su The Wall nel tempo la critica non è mai stata coesa e sono stati gettati fiumi d’inchiostro a proposito. Chi lo considera un capolavoro assoluto, chi lo giudica un ego trip di waters, chi pensa sia una lagna borghese su uno con i soldi in crisi. The wall è un po’ tutto questo, ma di base è la storia dell’essere umano quando va in cortocircuito. Difficile non riconoscersi negli sconforti di Pink, la cui reazione ovviamente non può essere che quella di incolpare tutto il mondo tranne che se stesso. A questo è dovuto il successo dell’operazione, perché, pur essendo sgradevole e parlando di argomenti piuttosto pesanti, è universale nel dipingere la sofferenza umana.

Ovviamente il caso presentato da Waters è quello di un paranoico in crisi schizoide/depressiva, come chiunque abbia a che fare con casi del genere può confermare, segno che nell’era moderna siamo tutti matti. Allo stesso modo è chiaramente un’autobiografia: laddove la follia di Barrett era tutta elfi personaggi bizzarri e mondi fatati in cui isolarsi, qui la follia di Waters è lucida, cattiva e paranoica (quella di Gilmour sarà invece la follia del pantofolaio, indeciso se diventare pazzo o no… E infatti anche no). È il famoso lato buio della luna finalmente mostrato al mondo.

Che poi lo stesso Waters si trasformò anche nella realtà nel dittatore di The Wall, è paradossale: nonostante la critica a un modello di chiusura autoalimentato, ecco che con The Final Cut recupera addirittura i brani scartati da The Wall per fare un disco se possibile ancora più pesante, mettendo in minoranza i suoi compagni.

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Esempio di quando fantasia e realtà s’incrociano, The Wall rimane una parodia dell’opera rock in cui il messaggio vero è che la vita va vissuta come catarsi della vita stessa: una spinta verso la creatività. È un film in cui i personaggi femminili (anche quando negativi) sono forti, mentre gli uomini deboli e impotenti: rompere il muro vuol dire riconoscere i propri limiti di uomo. In questo è una grande opera nichilista: un film sul potere, sulla dittatura della società che crea dittatori (il padre morto in guerra ucciso dal potere crea in Pink un odio tale per il pianeta da voler assumere potere totalitario lui stesso). Ma anche un film sul rock: Nelle prime scene del film è vista come musica reazionaria, i ragazzi entrano nell’arena facendosi perquisire e picchiare a sangue dai poliziotti come se stessero andando a protestare, ma neanche lo fanno. Sono solo carne da soldi e da macello. Il pubblico diventa l’indiscriminato e non persone capaci di intendere e volere, meri numeri.

Il discorso del film a quella tenera età mi ha quindi messo in guardia sui rischi di essere “mangiato” dalla società, che come fai sbagli e devi essere pronto a questa cosa anche perché non puoi scapparne. Però mi ha anche mandato “in cappella”.

Probabilmente The Wall continua a far diventare scemo anche Waters, come se avesse bisogno continuamente di fare a pezzi i suoi mostri, forse per il senso di colpa di non essere riuscito mai a passeggiare “hand in hand” sopra al muro con i suoi simili, pur avendoci provato. Anche se ora Gilmour sale a fare gli assolo sul muro e hanno fatto pace, si sa quanti torti si sono fatti.

Ad ogni modo sono passati anni e anni ed è ancora attualissimo: per i fatti di cronaca con sempre più muri fisici e no (non ultimo quello in Ungheria), ma soprattutto per me, che mi ritrovo ciclicamente in situazioni der cazzo tali che mi si spegne la sigaretta fra le dita come Pink. O forse sto muro ce lo ritroviamo ancora in mezzo per il fatto che ci fa da sempre comodo: come nel disco, la fine e l’inizio sono la stessa cosa. Lo rompi e si riforma. Sia mai ci rilassassimo una buona volta. Grazie Roger, senza di te la notte non terrei l’abat-jour acceso. Va a finire che se passi a Roma ti vengo pure a vedere, così, a sfregio. ”Goodbye Blue Sky”.

Demented è la voce della nostra generazione. Seguilo su Twitter: @DementedThement