classe operaia va in paradiso

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Musica

Colonne sonore bellissime: La classe operaia va in paradiso

Un film in musica del Maestro Morricone che accompagna le immagini di Elio Petri e un Gian Maria Volontè in stato di grazia. Per tutti gli operai e i "nuovi operai".

Colonne sonore bellissime è la serie di Noisey che parla di colonne sonore bellissime. Qua gli altri episodi. Dov'è finita la classe operaia? Se dobbiamo rimetterci a ciò che sentiamo e vediamo su questi schermi, verrebbe da rispondere "Boh", anche considerate le recenti analisi che tendono a mettere in primo piano la nuova classe sociale del lavoro cognitivo. Osservando i radicali mutamenti del camaleonte capitalista (che in effetti ne ha fatta di strada) ci si accorge che alcune figure lavorative sono scomparse, sostituite da altre apparentemente più appetitose. Il mostro è riuscito a prendere amabilmente a braccetto i propri schiavi, adulandoli così tanto che oramai la gente paga per lavorare e non viceversa. Insomma: sono tempi in cui non si capisce un cazzo. Per chi fosse a digiuno di tali problematiche, comunque, non serve guardare a Paesi come la Cambogia o la Thailandia. Basta girare la testa per vedere la nuova classe operaia che proprio quando cerca di togliersi il collare ha già nuove categorie lavorative da "liberare", oppure raccontata con il piglio di chi difenderebbe un dinosauro allo zoo. Ebbene è proprio a questa realtà che dedichiamo la nostra colonna sonora bellissima di questo mese, ossia La classe operaia va in Paradiso, ad opera del Maestro Morricone e da pochissimo ristampata dalla Goodfellas / Gdm: commento musicale al capolavoro—perdonatemi l'intricato neologismo—"luddistanarchiconichilista" di Elio Petri, anno 1971. Costui è un regista fondamentale nella storia del cinema italiano: mi verrebbe da dire IL regista per antonomasia, ma poi dovrei far torto a qualcuno dei miei miti. Ciò non toglie che i film di Petri siano una mazzata in pancia che ha creato non pochi problemi a tutti, soprattutto al suo stesso autore: e qui sta la sua grandezza. Gli argomenti che Petri tratta sono, infatti, di una violenza rivoluzionaria senza pari, una rivoluzione frutto sì dell'impegno sociale e dell'attualità, ma allo stesso tempo fuori da questo impegno e da quest'attualità, come una mano che schiaffeggia continuamente un volto intontito dalle illusioni e dalle stronzate. In questo telaio d'intenzioni Ennio Morricone s'infila e insinua come un serpente a sonagli, pronto a mozzicare l'ascoltatore (avvisandolo con rapidi colpi di coda), cosicché si sia pronti a vivere o a morire. A noi la scelta.

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Il sodalizio Morricone-Petri è probabilmente il più importante del nostro Ennione dopo quello con Sergio Leone (senza nulla togliere al compianto Pontecorvo, sia chiaro). Alla dipartita filmica di quest'ultimo (durata dal '71 all'84), Ennio risponde, infatti, con delle feroci colonne sonore senza alcun compromesso dedicate anima e corpo al cinema di rottura di Petri, in cui la sperimentazione estrema e la tradizione melodica italiana vanno a braccetto, annullandosi entrambi per amplificazione. Ma ancor prima Morricone e Petri avevano affinato le lance, tanto che ci si scopre col mal di pancia mentre si ascolta "Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto" anche se trattasi di una semplice melodia alla siciliana accompagnata da un metronomo. Perché sì, In teoria sono tutti elementi innocui e digeribili dall'ascoltatore medio, ma organizzati in quel modo diventano proiettili di agghiacciante cinismo (il film correlato tra l'altro ha vinto un Oscar, ma nessuno ovviamente lo ricorda mai, preferisce ahimè sottolineare i successi stravaganti di Fellini).

Questa furia di Morricone è in qualche modo coerente con l'idea che i film di Leone siano stati il trampolino di lancio del '68 in Italia, con le sue metafore del West, della frontiera, del cambiamento: con Petri tutto ciò finalmente diventa esplicito. Ebbene nella vasta filmografia di Petri, La classe operaia va in Paradiso vanta una colonna sonora che probabilmente è la prima (se non l'unica) colonna sonora harsh / sinfonica della storia d'Italia. Nonostante introduca momenti melodici e armonici notevolmente costruiti, questi ultimi sono talmente ostici e urticanti che è impossibile ricordarsi una singola nota anche dopo numerosi ascolti. Diciamo che Morricone è riuscito a superare la soglia del rumore e della musica trasportandoci in una macchinazione sonora che è aderente alle beffe che produce il capitalismo e, nello specifico, il luogo in cui è ambientato il film: la fabbrica.

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Ma attenzione, perché la fabbrica non è solo un luogo: è prima di tutto uno stato mentale del protagonista, un Gian Maria Volontè in stato di grazia che è a tutti gli effetti il braccio destro di Petri e quello sinistro di Morricone. Inutile dire che le sue prestazioni attoriali sono performance belle e buone, a volte paragonabili—con le dovute differenze di trasversalità—a quelle di un Ludo Mich, ispiratissimo quando si fa maschera di un'epica oltre moderna, trascinando con sé tutta la fisicità vissuta dell'apparato audiovisivo.

La trama è, per chi non la sapesse, un viaggio da incubo nei sistemi di produzione capitalista. Il protagonista Lulù lavora come obbediente operaio in una fabbrica, talmente a testa bassa che i padroni gli fanno addirittura controllare i tempi di produzione dei colleghi, ma a questo punto succede l'inaspettato: Lulù perde un dito sul lavoro per l'assoluta assenza di dispositivi antinfortunistici. Da questo momento prenderà coscienza che tutto quello che sta facendo è totalmente insensato: lui produce uccidendosi di lavoro e acquista proprio quello che produce, la sua vita è fatta solo di lavoro e di silenziosa stanchezza davanti alla televisione in un'alienazione totale che si abbatte su di lui e sulla sua famiglia in maniera spietata. Quest'alienazione è alimentata anche dalla protesta degli studenti apparentemente estremisti e allineati con gli operai, ma che invece si riempiono la bocca di slogan senza mai aver lavorato un minuto, e dai sindacati, troppo collusi con i padroni per riuscire veramente a comprendere l'abbrutimento cui sono sottoposti i lavoratori. Infatti, l'unico che ha capito come funzionano le cose è paradossalmente Militina, un suo collega operaio finito in manicomio a causa del lavoro in fabbrica, chiuso laggiù proprio perché ha trovato l'unico modo per essere libero in un mondo in cui la vera follia è lucida ed è al potere, spietata: cioè impazzire. Potere che all'inizio Lulù combatte rispondendo ai colpi dell'esercito mandato a sedare le proteste, e per questo è licenziato in tronco.

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L'episodio lo porta lentamente ma inesorabilmente a prendere coscienza di sé: alla fine l'unica vera salvezza è il rifiuto totale del lavoro, il nichilismo attivo, l'individuo pensante o meglio… La persona che si ribella a qualsiasi tipo di gregge. Soprattutto intuisce dall'odissea di Militina che la vera follia è nella realtà costituita. Ma ecco che sul più bello Lulù viene riassunto in fabbrica: per i sindacati è un successo, per lui invece è la fine. Non riesce infatti a fare il definitivo salto oltre la società—salto che avviene, ahimè, solo nel sogno che racconta a conclusione del film. Abbiamo quindi, per un'opera tanto rocciosa, un colosso espressivo in cui Petri è l'occhio, Volontè il corpo e Morricone l'orecchio: senza questi elementi La classe operaia va in Paradiso sarebbe impensabile. Ma fortunatamente anche le singole parti sanno il fatto loro, anzi devono saperlo: come da messaggio della pellicola.

Nello specifico, Morricone crea un'opera che, bella come un mattone in faccia a un poliziotto (cit.), sintetizza il tutto in modo tanto certosino che riesce a stare in piedi da sola: ascoltiamola come se il film non esistesse. Il vinile è qui sul piatto e inizia un vero e proprio saggio politico, un tomo di Toni Negri in musica: la title track dà subito il La con un ritmo marziale d'orchestra e un minaccioso rumore di macchinari che sembrano penetrare nelle ossa con dei fiati serpentini e un crescendo allucinatorio di suoni ibridi. Poi ecco gli archi che sembrano rievocare l'impotenza di fronte al potere della fabbrica, poi un synth reduce dal minimalismo che sostiene un andazzo armonico quasi seriale, con l'utilizzo di una tromba malevola trattata a guisa di una chitarra synth, gonfia com'è di feedback e asperità. Il senso di disastro e di stress imminente trasuda da questo brano in maniera tale che non sfigurerebbe in un disco dei Pigface o dei Nin, o addirittura dei Black Mecha: sembra non finire più per quanto è ossessivo. Il 4/ 4 ritmico non accenna a cambiare, non c'è possibilità di fuga dalla precisione della macchina. Tutto si sgonfia con partiture cupe in un fade out che non presagisce nulla di buono. Insomma è chiaro che la classe operaia andrà in paradiso perché morirà.

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Il brano successivo, "Metamorfosi," ci mette invece di fronte a un bivio a rischio schizoide. Ci sono due strade per il cambiamento: o si diventa direttamente dei bulloni trasformandosi in macchine o, come da discorso di Lulù durante l'assemblea in fabbrica, si decide per lo sciopero selvaggio e per riprendersi la propria anima di esseri umani. Giustamente paragonato ai momenti più ostici di Stravinskij, il brano vede Morricone maltrattare la title track fino a spogliarla di ogni appeal melodico, solo rumori di macchinari e trombe sintetiche massacrate dai filtri con un funereo percuotere in quattro dell'orchestra sui registri più bassi. Poi si blocca, come in un momento di riflessione, una presa di coscienza della situazione in mezzo a fumi di rabbia: il battito ritarda, su un bordone micidiale che sembra quasi un pad. I fiati intonano melodie storpie che sembrano uscite, più che dalla Sagra della primavera, da una versione calpestata di "The Fool on The Hill" dei Beatles, per poi tornare ad accennare vagamente il tema del film, come un pensiero di libertà che muore appena nato. Harsh totale, compatto nel suo disgusto, il brano prende alla bocca dello stomaco e alla materia grigia. Tanto che John Zorn ne farà una cover minacciosa, accompagnato da una sempre sobria Diamanda Galás nel suo disco omaggio a Morricone, The Big Gundown, anno 1986. Lo spirito del Gruppo Di Improvvisazione Nuova Consonanza aleggia, anche se asciugato di molte invadenze che invece caratterizzavano lo score concreto di "Un tranquillo posto di campagna", sempre di Petri, in cui appunto il gruppo faceva capolino in carne ed ossa.

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Poi ecco il mandolino, che caratterizza la "Sinfonia dell'ottimista", brano che ovviamente pare un tutt'uno con i precedenti. Lo strumento della tradizione partenopea, onnipresente nelle produzioni di Morricone del periodo, è qui suonato… Male. Come se le mani non rispondessero al cervello (i mandolini torneranno scomposti nel finale, come fosse il popolo che cerca inutilmente di resistere alla trasformazione in oggetto/ massa, sottovalutando la gravità della situazione). Poi un turbine di archi mesti e dolorosi, sull'orlo dello spezzarsi, della cacofonia. Il piano esegue dei veri e propri passi come se camminasse verso i cancelli della fabbrica (Morricone descrive la cosa in questi termini "Forse è la marcia degli operai, le loro rivendicazioni, il ritmo del lavoro per il quale ho utilizzato uno strumento elettronico che imitava la pressa"), sostenuto da qualcosa che sembra, sorprendentemente, un synth Fm ante litteram. Il lato B si apre con "Inventario", variazione per orchestra della title track, con movimenti suadenti (il potere che adula e cerca di risucchiarti) quanto mesti e lirici ( l'uomo in gabbia che cerca di trovare una via d'uscita), è il brano che più ricorda le atmosfere di "Indagine su un cittadino", col suo ritmo metronomico e la melodia ossessiva. Poi crolla nei mandolini stonati persi in un buco siderale che riporta alla mente la futura OST de "La cosa" in cui Morricone dipingerà ferocemente la brutalità umana su poche note in discesa ripida.

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E infatti "Tempi di lavorazione" non lascia scampo, la macchina torna a vibrare in una specie di remix dell'intero lato a, con ritmi marziali, temi ripescati, sfiancati quanto accelerati, rumoracci di tromba filtrate alla Miles Davis e schifezze assortite. Un turbine di incubi messi uno sull'altro come una piramide vista dal punto di vista dello schiavo che la costruisce. Zozzate presenti anche nella confusione de "Il Sogno", una specie di delirio onirico per pianoforte, bordoni di archi, mandolini che fanno una nota ogni due anni e atonalità assortite, confezionato per il finale del film in cui Lulù' racconta appunto il suo sogno e la fabbrica si rivela per quello che è: il vero manicomio senza via d'uscita.

In "Pazzia di lavoro" il mandolino si fa infatti acido, sotto il solito martellamento marziale puntellato da violini maniacali che puzzano di zolfo. In "Alienazione" il tema centrale del film viene ribaltato con sovrapposizioni di archi in scale cromatiche e inserimenti di synth che danno l'impressione di provenire da qualche disco prog de Le Orme, con un andazzo quasi sacro. Per il resto solita pesantissima, invincibile ossessione malata e monolitica. La sconfitta servita su un piatto d'argento.

I titoli dei brani sono talmente espliciti e didascalici che è difficile astrarsi dall'argomento trattato, la musica, come già accennato, è un film per l'udito. Morricone è quindi in perfetta forma, lucidissimo nello schiacciare l'ascoltatore come fosse la fabbrica con l'operaio, che in questo caso invece di strappare dita stacca le orecchie. Jean Marie Straub con lungimiranza pari a zero reagì alla visione de "La classe operaia…" chiedendo l'immediata distruzione delle copie (terribile se pensiamo che Todo Modo, altro capolavoro ruvido e incompromissorio di Petri, farà veramente questa fine). Ecco, questa colonna sonora è indigesta come e forse più del film nel suo complesso. Non è come diceva Elio Petri "ciascuno avrebbe voluto un'opera che sostenesse le proprie ragioni, invece questo è un film sulla classe operaia". No, si tratta invece della colonna sonora delle nostre vite, di tutti. Tutti incapaci di far cadere il muro, tutti incapaci di rifiutare il lavoro: infatti vaffanculo, ora mollo 'sta tastiera e vado al parco. Chi non mi segue è un crumiro.