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Matteo Renzi è sempre stato la vera 'fake news' della politica italiana

Con il voto di domenica sembra essere crollato il mito di Renzi come premier "veloce" e "predestinato" nato non si sa bene come. In un certo senso, Matteo Renzi è stato la vera post-verità della politica italiana.

Foto via Flickr/

EU2016 SK

C'era una campagna pubblicitaria di una Emittente Satellitare Italiana che per mesi ha puntato su un messaggio specifico: se non ti abboni non potrai guardare le serie tv di cui tutti parlano. Il fatto che "tutti" effettivamente ne parlassero non era facilmente quantificabile; il fatto che "tutti" le vedessero, invece, lo era.

Una serie come House of Cards, per esempio, è stata citata per mesi da media e notisti politici. Renzi stesso ha alimentato la discussione sul tema, suggerendone addirittura la visione come elemento formativo per le nuove classi politiche.

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In quel momento, però, Renzi stava parlando a me—perché per caso l'ho vista—, ad alcune migliaia di persone, e ai giornalisti: eravamo il "tutti" di quel "di cui tutti parlano," ma gli altri—con molta probabilità—non ci stavano ascoltando.

Ecco: per come la vedo io Renzi è una di quelle serie tv.

Domenica, attorno a mezzanotte, Matteo Renzi si è presentato davanti a una platea di giornalisti e fotografi e in un amaro concession speech ha ammesso di aver perso in modo deflagrante il referendum che aveva proposto e al quale aveva legato la sua carriera, si è assunto tutte le responsabilità della sconfitta, e ha annunciato che il giorno dopo sarebbe salito al Quirinale per rassegnare le dimissioni.

Il governo di Renzi è durato circa mille giorni. Un tempo incredibilmente corto per i ritmi generalmente lunghi della politica italiana, un tempo lunghissimo per la durata media di una legislatura in Italia—a meno che tu non sia, a titolo d'esempio, Silvio Berlusconi o Benito Mussolini. Renzi è arrivato al governo—da sindaco—disarcionando Enrico Letta per motivazioni pubbliche e politiche che potete trovare riportate a questo link, ed è andato via lasciandosi dietro un chiassoso corteo fatto di editoriali e retroscena, esultanza e disperazione, commenti su Facebook e balletti di Andrea Scanzi.

In questi mesi—però—a seguire i media, la sua affermazione a lunghissima scadenza sembrava ormai ineluttabile, l'inizio di un'epoca sociale e politica. E le premesse, da questo punto di vista, c'erano tutte.

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I giornali, in questo lasso di tempo, si sono prodotti nella rappresentazione di un "Renzi ideale" sostanzialmente diverso dal "Renzi reale"—esattamente com'è successo per Monti e il suo "governo dei loden," o per Letta che si ritrovava nelle abbazie di campagna per fare "team building aziendale" con la sua squadra di governo.

Sin dai primi giorni del suo insediamento si sono seguiti commenti e profili sulla sua figura "ipercinetica", veloce "per natura," un "predestinato" costretto "a fare Renzi" per assecondare la sua connaturata, irrefrenabile e "smisurata ambizione." Uno che "impone un ritmo," che gira "in Smart" animato da una "forza oscura": un "eletto"—in senso allegorico, ovviamente.

Qualche tempo fa avevo analizzato il meglio della letteratura sul Leviatano renziano cercando di verificarne le condizioni pezzo per pezzo. Veniva fuori che, a febbraio 2014, appariva abbastanza difficile capire da dove provenisse questa sua fama e da cosa fosse comprovato questo destino da "vincente," se non da quelle stesse qualità che gli venivano attribuite a caso—avvalorate da episodi come l'aver affrontato un cinghiale nei boschi quando era un boyscout.

In un libro dedicato ai tweet di Renzi (tutto vero), gli autori arrivavano ad appiattire la figura del presidente "2.0" allo stesso Twitter—argomento ormai talmente digerito che ancora lunedì, giorno dopo l'annuncio delle dimissioni, Riccardo Luna parla per l'agenzia Agi di "social premier" che manda "tweet scanzonati" anche dal salone del Quirinale.

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Ed effettivamente, un certo racconto di Twitter è sempre stato al centro del dibattito politico e mediatico: è il social che ha rivoluzionato la semantica giornalistica e del marketing. Eppure gli utenti attivi in Italia non sono mai stati tantissimi, e ora si è deciso di chiudere l'ufficio a Milano. Anche a livello mondiale l'azienda e la sua app sono in vertiginoso declino—un declino che coincide, a livello temporale, proprio con quello di Renzi.

Arrivo, arrivo! — Matteo Renzi (@matteorenzi)21 febbraio 2014

Allo stesso modo, gli unici dati attraverso i quali si poteva elaborare un'analisi sulla natura di Renzi come predestinato coinciderebbero invece soltanto con: l'aver vinto con il risultato più basso mai ottenuto da un sindaco di Firenze (47,70 percento, poi 59 percento al secondo turno contro Giovanni Galli) da quando nel capoluogo toscano si vota con l'elezione diretta del sindaco (1993), l'aver perso le prime primarie contro Bersani e vinto le seconde, l'esser arrivato al governo SENZA PASSARE PER LE ELEZIONI!. Poi stop.

Il suo indice di fiducia, all'epoca in cui si parlava di "luna di miele", si era attestato al 60 percento; ma da allora è progressivamente sceso, e nel 2016 è rimasto attorno al 40 percento.

Dopo il voto di domenica—per aggiornare il dato—Renzi lascia palazzo Chigi con un'affermazione molto forte alle Europee (anche se il numero dei voti assoluti conquistati era in realtà inferiore a quelli conquistati da Veltroni nel 2008, perdendo), una gestione rovinosa del partito a Roma, e una sconfitta clamorosa alle amministrative—che gli ha fatto perdere la capitale e Torino, fra tutte.

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In pratica: il mito di Renzi Glorioso Bambino 2.0 Baciato dal Destino era una fake news—per usare un concetto che sia il premier che i suoi hanno reso tema della contesa nelle ultime settimane, evidenziando un distacco dalla realtà sostanzialmente inarrivabile. La costruzione mediatica di Matteo Renzi, in un certo senso, era la vera post-verità.

Intendiamoci: il Renzi di governo ha messo la firma su più di un provvedimento—giusto o sbagliato che fosse. Ha annunciato molte cose e rintuzzato altre, presentato diverse slide e influenzato la cultura—popolare e non. Gli è stato riconosciuto lo sforzo per aver cercato di avvicinare l'Italia al resto del mondo in fatto di diritti civili, ed è stato accusato di aver devastato il mondo del lavoro e della scuola.

Insomma, è stata una presenza tanto rilevante che per molti ha rappresentato—spesso contemporaneamente—la reincarnazione stessa di Berlusconi e il capo del governo più progressista della nostra storia.

Il Matteo Renzi puramente politico, però, ha continuato a muoversi sicuro e sorridente in questa gigantesca bolla mediatica, un nebbione al di là del quale non si è accorto della direzione verso la quale si stava dirigendo, come fosse caricato a molla—come il gin tonic ordinato alle 4 del mattino che ti apparirà superfluo solo il giorno dopo.

Ha creduto di essere così forte da imporre un referendum su se stesso e vincerlo, ha creduto di poter sopravvivere al primo scontro elettorale vero e partecipato. Forse ha cominciato a credere che la realtà, piano piano, finisse col suo ristretto osservatorio fatto di consulenti politici e comunicatori.

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La cosa è stata definita bene da Marco Damilano su l'Espresso, quando scrive che "la maggioranza di Renzi non esiste, né sui territori né nel Paese e forse neppure in Parlamento. La minoranza Pd nella società italiana è ininfluente. Il partito ridotto a comitato elettorale dell'americano Jim Messina, il guru che ha fatto perdere tutti i suoi clienti, ha perso ogni contatto con la realtà."

"La maggioranza di Renzi non esiste". E forse non è mai esistita. Forse Renzi non è mai esistito, se non come storia e come storytelling che sembrava essersi "preso tutto senza che ce ne accorgessimo", come costruzione ideale di leader "moderno" alla quale abbiamo assistito su giornali e tv per mille giorni. Un personaggio autoriale perfetto, all'interno di una produzione romanzesca quotidiana che lo voleva rappresentante del "buon senso" in Italia contro l'inarrestabile "deriva populista."

Forse il primo Renzi di governo è stato un ologramma alimentato dalla narrativa politica, che è arrivato ed è volato via in mille giorni, un fantasma che è apparso velocemente dal comune di Firenze a palazzo Chigi passando dalla sede del PD e dal Quirinale, senza "che un cittadino comune," come spiegava a VICE lo storico Guido Crainz nel 2014, "riuscisse a capire perché questo è avvenuto". Senza neanche diventare—che ne so!—parlamentare.

Nelle ultime ore, dentro la bolla renziana, si sarebbe fatta largo l'ipotesi—riportata da Repubblica e La Stampa—secondo la quale Renzi vorrebbe andare a elezioni anticipate. "Non lascio quest'arma a Grillo," "non voglio fare la fine di Bersani," avrebbe detto. Forse. Non si sa. È un retroscena. I virgolettati non sono attribuibili con certezza a lui. Non sappiamo se l'ha detto davvero. Solo i prossimi tempi ci diranno se la serie tv si rinnoverà per un'altra stagione, oppure se è stata cancellata questa domenica.

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