Bambini di strada a Bombay

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Bambini di strada a Bombay

Nel 1992, il fotografo Dario Mitidieri ha trascorso un anno tra i bambini di strada di Bombay, documentando povertà, droga e malattie.

In ogni società, incontrando la povertà bisogna fare i conti con i bambini che ci crescono in mezzo. Il fotografo Dario Mitidieri è stato a Bombay e ha documentato la vita dei bambini di strada, che hanno quotidianamente a che fare con pedofilia, droghe e malattie incurabili. Queste fotografie, insieme alle storie che ne stanno alla base, sono raccolte nel libro Children of Bombay, pubblicato per la prima volta nel lontano 1995 [in Italia disponibile per Peliti Associati col titolo I bambini di Bombay]. Io l'ho scoperto solo recentemente, e non ho potuto fare a meno di rimanerne fortemente impressionato, quindi ho contattato Dario per saperne di più.

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VICE: Ciao Dario, prima di Children of Bombay sei stato in Cina e hai documentato il massacro di Piazza Tienanmen del 1989. Le tue foto dell'episodio sono state tra le prime pubblicate in Occidente. Com'è stata questa esperienza?

Dario Mitidieri: Quando sono andato in Cina stavo già lavorando come fotografo freelance per quotidiani come l'Independent e il Telegraph da due o tre anni, ma è successo tutto così in fretta, e come puoi immaginare l'adrenalina era tanta. Mi sono calmato solo qualche giorno dopo, guardando le immagini in TV e sui giornali. Qualche mese più tardi ho vinto il premio come fotografo dell'anno della stampa britannica.

E tutto questo ha reso più facile per te realizzare Children of Bombay?
Be', sì. Le foto di bambini malati non sono proprio le più appetibili sul mercato, quindi ho dovuto vincere qualche premio per avere i fondi per poter realizzare il progetto. Ho vinto il premio Eugene Smith, e questo mi ha permesso di andare a Bombay. Il lavoro è piaciuto a molti editori, ma a conti fatti nessuno voleva pubblicarlo. Ho dovuto lottare. Per farlo pubblicare dovevo vincere un altro premio. Ci sono riuscito, e alla fine il libro è stato pubblicato in Europa in sei lingue diverse.

Incredibile. Non pensavo che fosse stato così difficile.
Sì, avevo proprio la sensazione che mi si stesse opponendo molta resistenza. È stata la dimostrazione che non importa quanto il messaggio sia forte, non vai da nessuna parte se non sgomiti e non vinci dei premi.

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Cosa ti ha ispirato Children of Bombay?
È stata una coincidenza. Ero a Bombay e lavoravo a un progetto sull'AIDS in India. Era un lavoro per la rivista People, dovevo passare qualche giorno a scattare foto da accompagnare a un articolo sui bambini malati in tutto il mondo. Da lì ho capito quanto forte fosse questo soggetto. Non potevo lasciarlo perdere dopo averne solo grattato la superficie, quindi ho fatto domanda per ottenere il finanziamento del fondo Eugene Smith. L'idea era quella di tornare a Bombay e passarci un anno intero.

C'è una foto che, più delle altre, mi ha suscitato una reazione. È quella del bambino che si droga. Capita ancora che alcune immagini ti colpiscano particolarmente?
Un paio, sì. Una di due ragazzini che fumano eroina e una di una bambina che sta in cima a un palo. È l'immagine che è rimasta in testa a tutti, e che ha un po' riassunto il progetto nell'immaginario comune.

Durante il progetto sei riuscito a conoscere meglio i tuoi soggetti?
Ah sì, certo. Stavo con loro giorno e notte. Mi chiamavano zio. Abbiamo fatto un documentario sulla nostra ricerca della bambina sul palo. L'abbiamo ritrovata, ed è stato molto commovente. Ne ho anche ritrovati altri, che all'epoca avevano cinque, sei, sette anni e che ora sono adulti, eppure sembrava passato pochissimo tempo. Si ricordavano tutto, e tutto di me.

Credi che il tuo lavoro abbia avuto un certo impatto sulle loro vite?
Non molto. Ha avuto un impatto indiretto, perché le foto sono state usate dalle ONG che si occupano di bambini malati. Le usano per raccogliere denaro. A Bombay c'era il problema della pedofilia in spiaggia. Ci sono un paio di foto, nel libro, che la dipingono. Mentre il progetto era in corso non ho parlato della cosa, ma una volta finito abbiamo contattato la polizia, che ha liberato la spiaggia dai pedofili. Questo dimostra che la fotografia può avere un significato che va al di là dell'immagine.

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Hai mai pensato di fare un lavoro simile, ma in un posto diverso?
Ho provato a contattare delle persone, ma è difficile che qualcuno se ne interessi davvero. A meno che tu non vinca dei premi, come ho già detto. Se non parli con le persone giuste e non passi attraverso i canali giusti, è molto complicato.

Ho visto anche le foto dello tsunami in Indonesia. Com'è stato testimoniare le conseguenze di uno dei più grandi disastri naturali?
È stato davvero incredibile. Ho perso tutto: i vestiti, i medicinali, il cibo. Era davvero una situazione difficile. Non avevo niente. Piano piano sono riuscito a trovare cose utili come il dentifricio e altri prodotti di prima necessità. Dormivo sul pavimento. Hanno ritrovato la mia borsa solo quando ormai dovevo tornare a Londra!

C'è qualcosa di quel viaggio che non dimenticherai mai?
L'unica cosa che non scorderò mai di quel viaggio è… la portata del disastro. Non era rimasto niente di niente. Mi ricordo di aver osservato la costa da un elicottero, e si vedeva come le onde avessero spazzato via tutto, raso tutto al suolo, era una cosa straordinaria.

Più di quanto ti aspettassi?
Molto di più. Sembrava irreale, anche per un giornalista. Chiunque abbia lavorato lì in quel periodo vi direbbe la stessa cosa: non ci sono parole o immagini che possano spiegare com'era davvero. Per esempio, c'erano navi giganti in mezzo ai campi, alle colline. C'erano cose in posti in cui di solito non si trovano.

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Qui potete trovare altri lavori di Dario Mitidieri. 

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Foto di stanze di bambini morti