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Musica

Nessuno può mettersi LNDFK in tasca

Abbiamo parlato con l'artista italo-tunisina del suo nuovo singolo "Pocket P Song", in bilico tra soul, jazz, elettronica e hip-hop.
GC
London, GB
Foto di Milo Alterio, via Facebook.

Linda Feki è italiana di origini tunisine, ha sempre portato in valigia ogni esperienza del suo trascorso ricco di scelte, cambiamenti e passioni. Lo scorso anno ha deciso di iniziare a condividere il proprio bagaglio di esperienze con il mondo tramite la musica.

Con l’EP d’esordio Lust Blue, la voce e lo stile di LNDFK hanno da subito individuato una personalissima impronta stilistica, capace di combinare i tecnicismi di un sound elettronico moderno con un impianto delicato e particolare che ricorda un soul d’altri tempi. Il 28 marzo esce “Pocket P Song”, singolo che anticipa una serie di nuova musica su cui ha lavorato nel corso degli ultimi mesi, tra una data e l'altra in giro per l’Italia.

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Il concetto, in questo ritorno, è più marcatamente emotivo: il testo porta a galla tutte le problematiche comportamentali cui la figura femminile è soggetta, nel mondo del lavoro così come nel resto delle sue esperienze quotidiane. La sensualità viene utilizzata come un boomerang, perché stavolta mira a catturare il presente nelle sue arcaiche concezioni di genere e sesso, mettendo a nudo tutte le debolezze del sistema in cui ci troviamo.

Ne ho parlato con lei per capire più a fondo le sue idee di linguaggio e di stile, in una conversazione che ha portato a galla tutto ciò che c’è nel suo caratteristico mondo ricco di vibrazioni differenti.

Noisey: “This is not another love song” è a mio parere la frase simbolo di questo brano, quella che più ti rimane in testa. Si percepisce fortemente come l’intento sia quello di far rincorrere una provocazione nella provocazione, in maniera continua. Ma in realtà il messaggio è molto serio.
LNDFK: Il testo affronta il tema del sessismo nel mondo del lavoro e, in particolare, nel mondo della musica. La tendenza alla discriminazione di genere, una vera e propria consuetudine, ha radicato la convinzione che la donna sia innanzitutto un corpo e poi - forse - una figura professionale. Non c'è bisogno di ricorrere ad esempi eclatanti: le molestie si consumano ogni giorno, a ogni latitudine e longitudine. Una battuta sciocca, volgare; un apprezzamento sul proprio aspetto e non sul proprio operato; la perdita di un diritto perché non si appartiene al "sesso forte"; ma anche, al contrario, vantaggi e agevolazioni, non derivanti dal merito. "Pocket-Pussy” parla del timore che tale atteggiamento discriminatorio venga interiorizzato, regolarizzato e banalizzato, non solo da chi se ne fa portavoce, ma anche dalle donne stesse, ormai educate a vivere e a fronteggiare piccole battaglie quotidiane come una condizione intrinseca del loro stesso essere donne. “This is not not another love song” si presenta quindi come indizio della provocazione disseminata in tutto il testo e come sintesi di tutti i cliché delle canzoni d’amore smielate.

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E in effetti è un gioco di allegorie che rende molto bene anche musicalmente.
Ho ricercato proprio il contrasto tra due entità volutamente opposte sovrapponendo un contenuto crudo e diretto ad una forma più delicata e a un sound che mi piace definire “mellow”. Il testo vuole toccare delle corde precise sempre in maniera traversa, attraverso differenti espedienti. È una cosa che la musica mi aiuta a fare in maniera naturale e che sto cercando di sviluppare sempre meglio.

Ci sono, a mio parere, dei rimandi a “Catch Your Breath” – che apriva l’EP d’esordio – da un punto di vista della comunicazione emotiva. Se lì il monito era lasciarsi andare in un respiro che poteva riportarti a galla o liberarti con un orgasmo, qui è quello di prendere quella stessa libertà sul serio, usarla nella maniera giusta.
In effetti “Catch Your Breath”, pur non avendo un testo, fotografava la sensazione estrema, eppure così necessaria, di riprendere fiato, respirare, ripartire. Potremmo dire che se in “Catch Your Breath” risalivo a galla, in “Pocket P Song” la risalita si è compiuta del tutto.

Anche il titolo nasce da questo tipo di approccio?
Sì, il titolo nasce da un gioco di parole tra “Pocket Piano” – il midi-synth che ho suonato nell’intro, ispirato al suono del synth critter & guitar – e la parola “Pussy”, una citazione a Kendrick Lamar, nel brano “Blow in the Wind” di SZA.

Blues, soul, funk ed elettronica: il modo di combinare questi fattori stilistici all’interno del tuo linguaggio è stato il fondamentale di successo nell’esordio con Lust Blue. Come descriveresti l'evoluzione che ha avuto?
Da un punto di vista del sound, direi che la produzione è più personale, essendo anche il primo brano che produco, e lo sento molto più affine alla mia identità artistica rispetto ai miei lavori precedenti.

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Nel dettaglio, si sente anche una decisa componente rap – nelle strofe – che non avevamo ancora scoperto in LNDFK.
C’è decisamente molto dell’hip-hop che sto ascoltando quasi ininterrottamente, che mi sta dando stimoli ulteriormente diversi, specie nell’esplorare il flow e l’armonia del cantato su più livelli. L’esigenza di attingere a questo linguaggio è venuta fuori innanzitutto dalla necessità di raccontare cose che mi risulta più difficile dire cantando e basta. Dal punto di vista unicamente musicale il rap è decisamente più stimolante e soddisfa meglio la mia ricerca espressiva sul piano ritmico. In più, il rap mi ha dato la possibilità di esplorare la dimensione ludica nella musica, elemento che mi manca quando mi esprimo esclusivamente cantando.

Si prova spesso a definire un artista, includendo decine di sottogeneri accattivanti tra le loro influenze, ma spesso in fondo non si capisce bene che musica facciano realmente. Qui ci sono degli elementi del vero e proprio soul, quasi puro, se si prova a destrutturare il brano.
Dal punto di vista musicale credo sia la forma in cui mi rispecchio maggiormente. Lungo il percorso ho aggiunto tutte le influenze che provengono dalle mie passioni per il rap ed il jazz, e la black music in genere. Questo brano ha una forte componente gospel, armonicamente, e forse rintracciabile nei riferimenti alla struttura tradizionale della canzone.

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Ricordo diversi aneddoti sull’utilizzo di campioni registrati in maniera creativa durante la realizzazione del primo EP. Cos’altro avete inserito stavolta a livello sonoro?
Siamo tornati un po’ più sul digitale tradizionale, pur mantenendo quel fattore estetico affine al mondo Brainfeeder sullo sfondo, in grado di tracciare un filo conduttore con i brani del primo EP. Non abbiamo un metodo di produzione rigido e non ho neanche idea di come la mia musica possa evolversi. Mi viene in mente qualcosa e lo faccio.

La tua passione per l’espressionismo astratto e per il colore come carica emotiva si nota ancora una volta nella cover del singolo, che contiene un evidente messaggio subliminale.
Sono molto legata alla potenza comunicativa del colore. Sono convinta che, nel processo creativo, i due mondi, quello musicale e quello artistico figurativo, non solo siano inseparabili ma si rincorrano costantemente: il beat mi ha suggerito l’icona, che ho disegnato divertendomi nelle IG story, realizzata poi definitivamente da Martina Bliss, e l’icona mi ha ispirato il contenuto del testo, scritto insieme ad Aston Rico. Quel rosa e quel disegno secondo me evocano esattamente “Pocket P Song”: sono la sua trasposizione figurativa.

Credo si evinca una cura molto dettagliata in questi aspetti del tuo progetto, a livello visivo nulla è lasciato mai al caso. É così?
Assolutamente sì. La passione per l’arte, e in particolare per il colore, è sempre stata molto presente e molto forte in me.

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A me sembra comunque evidente quanto l’oriente e l’occidente si incontrino sempre in un modo particolarissimo nella tessitura del tuo stile, sia nell’immagine che nella musica. Ti riconosci in questa ricostruzione?
Il mondo orientale è sicuramene una parte di me, anche solo come mondo inconscio, ma credo che in superficie emerga maggiormente il mondo occidentale che mi ha formata e che mi influenza, anche se non escludo che in futuro possa emergere maggiormente l’interazione tra questi due mondi.

Oltre alle peculiarità della black music, azzarderei si intravedano diversi elementi della carica malinconica del blues di Pino Daniele.
È stato chiaramente un’influenza spontanea, che ho assorbito crescendo a Napoli. La mia passione verso questo grande artista è stata sicuramente nutrita ed esaltata da DaryoBass, con il quale collaboro. Credo però siano più che altro componenti molto legate alla mia formazione jazzistica, che forse fanno emergere questa connessione in alcune sfumature.

Un paragone che sicuramente ti si è presentato spesso è quello con FKA Twigs, per un’avvenenza mistica e mai immediatamente accessibile dei suoni. Ma soprattuto a livello estetico, per quell’uso di una sensualità estremamente velata.
FKA è un artista che ammiro molto, e che sento molto vicina sul piano visivo ma molto poco sul piano musicale. Il suo video di “Papi Pacify” lo considero tutt’ora un capolavoro ed è stato di molta ispirazione per me. Credo che “Water Me” mi abbia definitivamente conquistata. Guardare ipnotizzata quegli occhi giganteschi mi ha portata a riflettere sull’unicità dei nostri difetti e su quanto la perfezione, intesa in senso tradizionale, possa essere vuota. Perfezione e avere coraggio di mettersi a nudo, ed è questo che ricerco nell’arte: la crudezza di essere ciò che si è.

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Sono d’accordo, riuscire a costruire un concetto di stile così personale è la prova più difficile che esista. Come definiresti ciò che trasmette il tuo, se dovessi raccontarlo?
Non credo di essere ancora arrivata al punto di conoscere e quindi poter esprimere la mia identità a pieno attraverso la mia musica, con la quale spero di riuscire a ricostruire anche le mie radici, che ancora a fatica non riesco ad accettare del tutto. Il rifiuto è probabilmente riconducibile alla mia figura paterna per cui affido alla mia musica una sorta di missione catartica adeguando il percorso musicale al mio percorso di vita.

Questo ti aiuta anche a capire come sviluppare le tue idee, come farle diventare la tua vera espressione.
Credo sia possa trattare di una forma di terapia, attraverso cui affrontare le difficoltà della vita per tramutarle nella bellezza che il linguaggio della musica può cristallizzare. Ricostruisco il mio passato creando una finestra su un futuro che possa raccontarmelo.

Per chiudere il cerchio sul tema della sessualità di cui parla il pezzo e contestualizzare la discussione sul mondo della musica, pensi esistano differenze tra underground e pop, in termini di costume?
Assolutamente. Il pop conta sulla semplicità, sull’omologazione, tutto è finalizzato a quello. Esistono delle etichette prestabilite dalle quali non puoi distaccarti. Non c’è mai un vero “oltre”. Questo è causa di ognuna delle complessità che si palesa in termini di questioni importanti come la sessualità e di parità di trattamento tra figura femminile e maschile, ancora oggi un assurdo tabù. Non credo ci si possa trovare gioia in un ambito del genere, per le difficoltà che incontri come persona prima che come artista.

Abbiamo parlato molto di background e di ascendenti che provengono dal tuo passato, ma adesso musicalmente cosa ti fa stare bene?
Adoro tutta la scena di Chicago e Los Angeles, il rap e l’hip-hop che si sta contaminando con la musica elettronica, il jazz, il soul e il gospel. Passo dalla trap al jazz mainstream o più moderno. Adoro Monte Booker e Cam O'Bi, che in questi mesi ho ascoltato molto e che stanno visibilmente influenzando il mio approccio alla produzione. La black music e in generale la popular music americana. Quest'ultima, in particolare, un'accezione molto diversa dalla nostra e le differenze sono, a mio avviso, rintracciabili nella qualità del prodotto.

C’è qualche artista in particolare che ti da quella sensazione?
Anderson .Paak, Tyler the Creator, SZA sono icone di uno stile e di un carisma che fatico a trovare in altre realtà, perché rendono la complessità e l’estro una cosa apparentemente semplice e universale, alla portata di tutti.

Il prototipo di artista contemporaneo quindi appartiene a quella categoria?
Considero Kendrick Lamar l'artista simbolo di questo processo, colui che, più di tutti, è stato in grado di rendere universale un linguaggio che, fino a poco tempo fa, coinvolgeva una cerchia considerevolmente più ristretta. Ho visto recentemente una data del suo tour ad Amsterdam e sono rimasta estasiata dalla scena a cui ho assistito durante l’applauso finale del pubblico, in chiusura di serata: lui era al centro del palco, immobile, a fissare ciascuna di quelle persone, con uno sguardo umile e commosso e allora stesso tempo consapevole e orgoglioso.

Giovanni è su Twitter: @storiesonvenus.

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