I Justice sanno fermare il tempo
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Musica

I Justice sanno fermare il tempo

Li ho incontrati a Milano per farmi spiegare come hanno fatto a non crollare sotto il peso della nostalgia e perché non si sono lasciati affascinare dall'hip-hop.

"Per noi andare in tour significa stare in giro almeno per un anno e quindi la cosa più importante è divertirci", mi dicono i Justice. "Sarebbe un incubo se dovessimo salire sul palco di sera in sera a schiacciare play e restare lì ad aspettare. E poi vogliamo che chi ci venga a vedere si ricordi dei nostri concerti: ok divertirsi con gli amici, ma vogliamo regalare esperienze memorabili." Siamo dietro il palco dell'Ippodromo di Milano, qualche ora prima del loro concerto. Suoneranno assieme agli MGMT, più o meno a dieci anni dai loro rispettivi scoppi.

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A bruciare la miccia degli MGMT era stata un'idea neo-hippy da inizio era Obama, tutta glitter e canzoni sui giovani che "stavano cominciando a cambiare" e ballavano come anguilloni elettrici colorati di turchino. Quella dei Justice invece l'aveva accesa quell'entità disco-zarro-stiloso-nostalgica che fu la French Touch: in loro aveva scoperto il suo viso più distorto e ballereccio, nelle note di "We Are Your Friends" e "Waters of Nazareth". Entrambi pubblicarono album di debutto che, deflagrati, ficcarono schegge di materia musicale nei cervelli di una generazione: Oracular Spectacular e , rispettivamente. Entrambi sembrarono subito epocali, luoghi di scontro e generazione musical-culturale, prime pietre di grandi ponti tra passato e futuro. E invece così non è stato.

Gli MGMT suonarono per un po' dal vivo, rimasero in silenzio per tre anni e poi scelsero il cuore. Misero in primo piano la loro più grande passione, cioè la psichedelia vera e non la sua versione da Urban Outfitters che animava il loro esordio. Il risultato? Un pubblico sempre più rado, orecchie sempre meno attente, risultati commerciali sempre più altalenanti. E oggi, indipendentemente dalla qualità della loro opera, sono ancora obbligati a restare sotto l'ombra dei loro tre singoli di successo per sopravvivere all'afa del tempo.

I Justice, invece, fecero una cosa. L'anno dopo pubblicarono un docu-film che era anche un album dal vivo. Lo chiamarono A Cross The Universe e così facendo immortalarono un momento, eternando se stessi e ciò che rappresentavano: una forza distruttrice che esaltava folle sudate, rapite dalla linearità di una croce illuminata e di un paio di muri di Marshall, così come dalle strutture spezzate in cui Gaspard Augé e Xavier de Rosnay inserivano i loro pezzi dal vivo.

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I loro live erano pance affamate di animali: viscidi, ruggenti. Anche quando la loro musica si è presa una sbandata per il prog rock e per le atmosfere pastorali - in Audio, Video, Disco e Woman, i loro altri due album - i francesi hanno sempre avuto la lungimiranza di scolpire su una traccia digitale i nuovi geroglifici che andavano a comporre il loro alfabeto, mischiandoli a quelli vecchi così da non perdere mai la forza propulsiva del botto di . Nel 2013 questa si era chiamata Access All Arenas, mentre oggi si chiama Woman Worldwide.

"Anche quando vado a vedere band che mi piacciono un sacco mi annoio dopo venti minuti", mi dice Xavier quando gli chiedo del modo in cui costruiscono i loro live, del come e del perché di tutte le luci che si accendono sul palco, dei LED che scendono dall'alto e roteano, e schiarano, ed evidenziano. "Ed è proprio perché abbiamo paura di annoiare che facciamo succedere qualcosa sul palco ogni 30 secondi! Tutto questo vale ancora di più quando si parla di elettronica e non di rock, non è un granché vedere due tizi sul palco senza sapere bene quello che stanno facendo."

E ancora: "I nostri medley nascono da due cose. Prima di metterci a suonare dal vivo abbiamo fatto i DJ per un sacco di tempo e abbiamo imparato che la nostra roba funziona quando è presentata in maniera agitata. Se ti fermi di canzone in canzone, magari per accordare la chitarra o fare due battutacce al microfono perdi lo slancio. E poi c'è il fatto che ci piace molto l'idea di un tema che ritorna, come nella musica classica o nel prog rock. Un altro vantaggio del rimescolare elementi è rendere meno noiosi pezzi che altrimenti durerebbero troppo."

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Infine, un aneddoto: "Nel 2004 facemmo un DJ set a una festa in un castello vicino a Parigi. Ci furono dei problemi tecnici e quindi decidemmo di andarcene e mollare lì l'esibizione, ma prima mettemmo su un CD. Mentre ci allontanavamo dal castello sentivamo ancora la gente prendersi bene per i pezzi che uscivano dalle casse. E fu lì che ci rendemmo conto che la gente va ai concerti e ai festival per vivere un'esperienza e condividerla con altra gente. Quello che fai sul palco non importa poi così tanto, ma questo non significa che tu non debba impegnarti comunque a farlo bene."

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Passo poi a farli parlare degli anni passati, dieci, da quando loro e gli MGMT si trovarono parte dello stesso calderone di significato, protagonisti di quei primi anni di disfacimento delle categorie in cui l'indie rock era elettronica che era house music che era qualcosa di unico. "Quando penso a quel periodo, una delle cose che ci accomuna agli MGMT è il fatto che i nostri primi album siano andati molto bene. Quindi la gente si è fatta un'idea molto chiara di quello che saremmo dovuti essere. Loro, per esempio, dovevano restare una band di hippie che fa musica presa bene. Ma loro, come noi, avevano un sacco di roba da mostrare al mondo".

"Capiamo quelli che arrivano ai nostri concerti e vogliono sentire "D.A.N.C.E.", non rinneghiamo nulla e ci piace ancora suonare ognuno dei nostri pezzi. Non è come i Radiohead con "Creep". Ma il nostro album è stato una dichiarazione così forte che ci è sembrato che la cosa giusta da fare fosse fare qualcosa di diverso", mi dicono quando gli chiedo di andare nello specifico. "Non per fare un paragone, ma mi è sempre piaciuto molto il fatto che nella filmografia di Kubrick ci sia un film di guerra, poi un horror e così via, con una grande voglia di sperimentare. Audio, Video, Disco nasce dal rock inglese degli anni Sessanta e Settanta, per esempio. Per noi [fare un album] è come giocare in un parco giochi. Ovviamente c'è chi resta alienato, ma non esisteremmo più se non avessimo tenuto questo approccio lungo il corso della nostra carriera."

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C'è una carta che i Justice non hanno mai giocato, a cui ho ripensato guardando il trailer di A Cross The Universe. Proprio all'inizio, prima di entrare nel pit dei concerti dei due, la telecamera indugia su un Kanye West preso benissimo che li guarda, sorride e ballonzola. Era proprio quell'anno che Yeezy aveva preso "Harder, Better, Faster, Stronger" dei Daft Punk e l'aveva resa base di una dichiarazione di forza sul suo Graduation: "That that don't kill me / Can only make me stronger", cantava. Oggi è facile tracciare una linea che parte da quel momento e arriva ai Daft Punk e a Gesaffelstein nei credit di Kanye e di The Weeknd, a SebastiAn su Blond di Frank Ocean; allora non potevamo sapere che gli artisti francesi di quella generazione si sarebbero rivelati, con il passare degli anni, tra gli architetti dell'hip-hop più aperto al futuro e alla sorpresa. Ma non i Justice. Perché?

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"I grandi artisti hip-hop sono sempre in cerca di una novità", mi spiegano. "Lavorano con team di 50 persone e se guardi i credits dei loro album ti fa male la testa. E tutti i ragazzi che conosciamo ci hanno raccontato che non si sono nemmeno riconosciuti quando hanno ascoltato le canzoni a cui hanno contribuito… non è un granché. È un processo molto strano quello per cui prendi un sacco di cose e le mischi assieme ed esce qualcosa di buono, ma sembra funzionare. Ci è stato chiesto di collaborare con grandi artisti, ma c'è sempre qualcosa che va male a un certo punto del processo. Ogni volta che ci chiedono di lavorare a un beat mettiamo delle condizioni e arriviamo sempre a un punto in cui ci rendiamo conto che è una fregatura e dobbiamo tirarci indietro. Per esempio non vogliamo essere parte di team più grandi, dare qualcosa senza sapere dove andrà a finire e chi ci metterà le mani sopra. Non è che vogliamo proteggere la nostra musica, vogliamo proteggere noi stessi."

E infine: "Non ci interessa molto l'hip-hop, a essere sinceri. L'unica volta che ci capita di ascoltare qualcosa è quando prendiamo un taxi e sta passando in radio. I testi sono orribili, ma in un certo senso li capisco. Un giorno ho sentito un pezzo di Drake e non riuscivo a capire quale fosse l'appeal, i testi mi sembravano molto… infantili. Non sembravano i più intelligenti che avessi mai sentito, ma al contempo li cantava con una voce particolarissima. E aveva senso, perché i rapper francesi più famosi cavalcano la stessa onda. Fanno roba che sembra non avere alcun senso, mediocre, ma la fanno in un modo molto intelligente. C'è un senso di nichilismo che non condividiamo. Il rap non prova a parlare di niente, non prova a cambiare la mente di nessuno. Non è musica che ti eleva, è roba che serve a staccare la testa."

"La nostra roba tende a essere larger than life," conclude Xavier con un termine che vale la pena non tradurre per mantenerne il potenziale evocativo, "mentre alla base dell'hip-hop c'è solo un beat, la vita di tutti i giorni. È l'unica musica che parla di Instagram, o di celebrità, o di giocatori di calcio che non abbiamo mai sentito nominare." Elia è su Instagram. Segui Noisey su Instagram e Facebook.

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