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Sono ebreo, e un viaggio in Israele mi ha fatto diventare antisionista

Ero cresciuto con la vaga idea che Israele e il sionismo fossero parte integrante dell'essere ebreo, e avevo deciso che era giunta l'ora di farmi una mia idea. Così sono partito per Israele, e ho cambiato completamente idea.

È un rito di passaggio. Per molti ebrei inglesi l'anno sabbatico in Israele è imprescindibile, parte di un momento essenziale del percorso che farà di ognuno un membro adulto della comunità ebraica. Io, comunque, non l'ho vissuto con un particolare trasporto ideologico. Ero cresciuto con la vaga idea che Israele e il sionismo fossero parte integrante dell'essere ebreo, e avevo deciso che era giunta l'ora di farmi una mia idea. Per quel poco che ci pensavo, sostenevo la sinistra israeliana e i coloni non mi piacevano—era quella la posizione della sinagoga del nord di Londra che frequentavo. Per me, in quel periodo, essere di sinistra ed essere ebreo era più o meno la stessa cosa. A quanto ne sapevo Israele era nel giusto, era impegnato nelle trattative di pace, e l'unico problema era un'irrisoria minoranza di coloni ultraortodossi.

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Così nel 1999, a 18 anni, sono andato in Israele—per ironia della sorte, in quello che oggi è riconosciuto come il picco del processo di pace, durante i negoziati del governo di Ehud Barak a Camp David e Taba. Non si è mai più andati più vicino di così alla pace. L'associazione giovanile con cui ero partito non brillava per organizzazione, e mi avevano spedito da solo in un kibbutz; lì, più che stare con altri ebrei britannici, avevo incontrato persone di passaggio da tutto il mondo e anche molti volontari. Col senno di poi, è stato meglio così. Durante le prime settimane, associavo l'euforia di essere per la prima volta lontano da casa tutto solo con Israele; i suoi paesaggi, la gente, la lingua. Mi sono anche innamorato dello stile di vita del kibbutz—l'uguaglianza, i pasti in comune, il senso generale di empatia.

Non sapevo molto delle tensioni etniche—ricordo che un kibbutznik mi aveva detto di stare attento a fare l'autostop il venerdì per andare alla sinagoga perché c'erano "arabi in giro." Ma durante i pomeriggi liberi (dopo che mi hanno tolto dalle piantagioni di banane è stato tutto in discesa) visitavo le città della zona, e sono rimasto particolarmente impressionato da Acri (o Akko, o Akka), sulla costa. Mentre la maggior parte delle città di Israele avevano palazzi moderni, Acri vecchia—in una zona a prevalenza araba palestinese—conserva ancora molti edifici ottomani ed è un labirinto di vicoli, angoli nascosti e bancarelle. Ne sono rimasto estasiato. Seduto su uno scoglio del porto sotto il sole autunnale, mentre guardavo le piccole imbarcazioni e il Mediterraneo che si apriva fino all'orizzonte, ho avuto una specie di rivelazione—il mio posto preferito in Israele era una città araba.

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Mi sembrava che molte città israeliane fossero prive di quella sensazione di profondità, di memoria storica e serenità che mi ispiravano le torri e i muri di pietra di Acri. Il calore e la calma che ho percepito in quel luogo mi hanno spinto a mettere in discussione l'idea di separazione tanto popolare in quel periodo—il "noi siamo qui e loro sono là." È stato allora che ho capito che volevo vivere non in un paese nazionalista, in cui a dominare era la cultura di un solo gruppo, ma in uno in cui culture diverse vivono, magari non proprio d'amore e d'accordo, l'una accanto all'altra. Ho capito che ero dalla parte della soluzione di uno stato unico—che invece della divisione, Israele/Palestina avrebbe dovuto diventare uno stato solo per tutti i suoi cittadini, con gli stessi diritti e la stessa libertà di movimento per chiunque.

Acri. Foto di Chris Yunker.

In quei giorni di trattative di pace una posizione simile era certamente un po' insolita, ma non completamente campata in aria. Sembrava che tutti volessero la pace e il rispetto dei diritti umani, e l'idea di un'unica nazione era stata appoggiata anche da figure tradizionalmente "sioniste" come Martin Buber, Judah Hamagnes e Hannah Arendt. Perciò, anche nel prendere una posizione "di nicchia" mi sentivo in qualche modo parte del dibattito e della comunità.

Ma quando nell'autunno del 2000 mi sono iscritto all'università le cose erano cambiate: eravamo agli inizi della Seconda intifada, le trattative di pace erano un ricordo del passato e Ariel Sharon era diventato Primo ministro. Da quel momento c'è stato come uno spostamento generale a destra; hanno cominciato a dare la colpa al "terrorismo palestinese" per il fallimento degli accordi di Oslo, a chiudere un occhio sulle azioni militari israeliane, e a mettere "la sicurezza" davanti alla pace e dei diritti umani. Il mio sostegno allo stato unico non era più un'eccentricità che non faceva male a nessuno, ma una in contrasto con quello che pensava la grande maggioranza degli ebrei. Ho cominciato a descrivermi come anti-sionista, dato che avevo la chiara impressione che a quel punto, e indipendentemente dalle premesse del pensiero sionista precedenti alla nascita di Israele, la dottrina dello stato unico mi mettesse in netto contrasto con il sionismo.

All'università ho fondato un gruppo di ebrei di sinistra, pacifisti, che deunciava le violazioni dei diritti umani a opera degli israeliani durante la Seconda intifada. Criticavamo il sistema dall'interno, facevamo manifestazioni, volantinaggio. E abbiamo anche avuto dei guai, dato che la società ebraica tollerava poche critiche alle politiche israeliane—sicuramente meno di quelle che facevamo noi. Eravamo ebrei osservanti pur senza essere solidali con Israele, e questo per molti era difficile da comprendere.

In seguito, con un amico che avevo conosciuto durante l'anno sabbatico, ho fondato Jewdas. È un gruppo della diaspora con un'esplicita posizione anti-sionista, che mette alla berlina le tante assurdità della comunità ebrea britannica, e organizza feste coi fiocchi. L'obiettivo di Jewdas è di riportare alla ribalta quella parte della storia e della cultura ebraica che non ruota intorno a Israele, e in particolare la cultura yiddish, il socialismo e la storia degli ebrei nell'East London. È cominciato nel 2005 come uno scherzo tra noi, ma 11 anni dopo è ancora in piedi e dà spazio agli ebrei progressisti, radicali e della diaspora del Regno Unito che non si sentono rappresentati dall'opinione dominante. La pace e la giustizia in Israele/Palestina sembrano lontanissime, ma Jewdas vuole dimostrare che gli ebrei possono vivere benissimo anche senza rifarsi all'etnocrazia, e senza compromettere i valori tradizionali dell'ebraismo. Molto è cambiato negli anni, ma ancora ricordo quel giorno d'autunno in cui, seduto su quello scoglio ad Acri, è cambiato per sempre il modo in cui penso e vivo.

Thumbnail via Flickr. Segui Joseph Finlay su Twitter.