Per favore, non dite a Jenny Hval che fa musica sperimentale

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Musica

Per favore, non dite a Jenny Hval che fa musica sperimentale

Jenny Hval ci ha spiegato perché il suo nuovo album, che parla di Scandinavia, puritanesimo, sangue mestruale e black metal, è in realtà solo un disco pop.

È sempre stata piuttosto brava, Jenny Hval, a scrivere delle aperture della madonna per i suoi album. Viscera, il primo album a suo nome arrivato dopo l'esperienza con lo pseudonimo Rockettothesky, iniziava​ con un lapidario "Sono arrivata in città con uno spazzolino elettrico premuto sul mio clitoride." Innocence Is Kinky aggiungeva​ la variabile-tecnologia all'equazione: "Quella notte, guardavo gente scopare sul mio computer. Tanto nessuno mi poteva vedere guardarli. È tardi, e tutto si fa sporco. La mia pelle inizia a creparsi come uno schermo LCD." Nel primo caso, le parole della Hval, recitate, si appoggiavano su una chitarra acustica evanescente, minimalista; nel secondo, su una drum machine ridotta ai minimi termini, un basso lacerante e qualche sparso accordo di elettrica. Apocalypse, girl era stato un punto di svolta: la stampa lo definì a partire da un passaggio del pezzo che lo apriva, "Kingsize​", in cui la Hval parlava di "soft dick rock": "Che cos'è il rock da cazzo molle? Usare elementi del cazzo per trovare un suono più soffice, pacato." In un'intervista a Pitchfork, spiegò che non si trattava di una metafora ma solo di un commento riguardo a un discorso sul corpo nato da una commissione per il centesimo anniversario del movimento per i diritti delle donne in Norvegia: "Qualsiasi cosa abbia a che fare con la sessualità è sempre femminile, a meno che si parli di sguardo. […] Abbiamo quindi parlato di tutte le vulnerabilità della sessualità maschile. Le cose soffici sono terrificanti. Sono i veri segnali della morte. Le immagini di forza non possono mai essere così terrificanti. Sono le immagini di debolezza ad essere il vero apocalisse." L'idea era sempre quella di portare avanti un messaggio di libertà, di apertura, di rovesciamento: non di prendere necessariamente posizioni militanti.

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Blood Bitch è stato presentato come una continuazione dell'esplorazione della corporeità e dell'identità della sua autrice in chiave sanguigna, passando per una riconsiderazione del valore del sangue mestruale. Ma non con un ribaltamento di prospettiva che lo renda espressione di positività femminista contro una sua generale percezione negativa, bensì come un semplice atto di potere. "Il sangue della gioventù", lo ha chiamato in un'intervista su The Wire. Ad ogni modo: in "Ritual Awakening", il primo pezzo dell'album, le chitarre sono scomparse, così come le percussioni. C'è solo un drone ai limiti tra pulito e distorto e una dichiarazione di insicurezza resa in melodia: "Afferro il mio telefono con il mio palmo sudato. Stringo il cuore, e la bara per quel cuore, nella mia mano. Fa un rumore pazzesco, e inizio ad avere paura, e allora inizio a parlare." La Hval ha sempre parlato del corpo, proprio e altrui, con un candore estremo, trovandosi ad affrontare la tematica ad ogni giro di interviste. Invece di procedere come aveva fatto finora, ha deciso di rinchiudersi in sé stessa━suonando praticamente tutto l'album da sola, considerando la sua identità di donna scandinava come punto di partenza per quello che avrebbe detto, abbandonando lo spoken word per passare a un uso della voce in senso melodico. Il risultato è molto, molto interessante: si accompagna inoltre a un rifiuto della categoria "sperimentale" in favore di una presa di posizione positiva nei confronti del termine "pop", non come luogo del capitalismo attraversato da correnti di artificialità e iperproduzione ma come enorme, informe campo elettromagnetico da stimolare liberamente. Ho chiamato Jenny su Skype per capire le radici di questo nuovo approccio alla sua arte. Devo dire che è stata una conversazione piuttosto affascinante.

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Noisey: Nella prima intervista che hai rilasciato per parlare di Blood Bitch, hai detto che il tuo intento era quello di scrivere un album che "andasse oltre le parole." Ma come ci sei riuscita, a livello pratico?
Jenny Hval: Non volevo veramente scrivere testi ragionati, ma partire dal suono. Capire come cantare e farmi venire in mente parole non per scrivere dei bei testi ma per sentirmi più all'interno delle strutture musicali. Ho un po' abbandonato l'idea del testo come poesia, quel tentativo di scatenare in me che scrivo e nell'ascoltatore una determinata reazione. Mi sono approcciata alla scrittura come se stessi componendo un collage sonoro, ecco.  È stato difficile decostruire le tue stesse parole mentre promuovevi Apocalypse, girl
Sì, per me è dura. Ma è l'intento della stampa, ti vengono fatte delle domande per portare la conversazione in una certa direzione. Ed effettivamente mi è sembrato di dover parlare delle mie parole più che del contesto in cui si trovavano. Non faccio musica per parlarne, ma per me stessa. E un po' mi rattrista, la cosa. Ma ho anche studiato letteratura, quindi penso di aver controbattuto bene a quelle decostruzioni. Insomma, ho un rapporto un po' ambivalente con la cosa (ride). Spesso mi trovo a parlare e parlare del significato dei miei testi, e il giorno dopo mi metto giù a scrivere e penso, "Wow, non ho detto nulla su come lavoro veramente." È difficile, sono due mondi diversi all'interno della comunicazione. Con Blood Bitch volevo decostruire molto meno, in effetti, ma volevo anche che l'ascoltatore si "perdesse" nell'album. Sì, in effetti è un album che mi è sembrato decisamente intimo. Mi è capitato di ascoltare la tua voce per sé stessa, per lo strumento che è, per una texture, e non per le parole che stavi cantando.
Certo, era voluto. È uno dei motivi per cui ho deciso di evitare di registrarle troppo limpidamente, e far venire fuori qualcosa di più allucinatorio.  Credo sia una tendenza che stiamo vivendo in questo periodo, che si esplicita in una nuova attenzione sul lo-fi da parte dei media di settore. 
Sì, credo che la cosa abbia a che fare con certi trend, e con una certa predisposizione ciclica a venire esposti a certi tipi di musica, sia nella vita dei singoli che della collettività. Credo ci sia un certo bisogno di "mistero", ora come ora. Ma, se parliamo di lo-fi, dobbiamo ricordare che ci sono tanti modi per arrivarci. Ad esempio c'è quella corrente per cui si ricopre tutto di riverbero per nascondere certe cose━​ma penso che sia un campo enorme da esplorare. C'è tutta una categoria di valori da scoprire nell'atto di una registrazione che non cerchi perfezionismi sonori. Registrare lo stesso pezzo con approcci diversi influenza anche il senso delle parole. Ma al contempo è un discorso un po' chiuso in sé stesso, dato che il pop oggi è praticamente solo superprodotto, quindi.. insomma, sono mille tracce (ride). Alcuni pezzi di Blood Bitch hanno al massimo sette tracce, ci sono momenti che definirei minimalisti. Volevamo veramente spingerci in questa direzione, tirare fuori qualcosa che suonasse "grosso" ma senza comporlo troppo strato su strato.

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Quando dici "volevamo" intendi…
Io e Lasse Marhaug, il mio co-produttore.  Perché sul disco appaiono anche Annie e Zia, due ragazze che suonano con te dal vivo. 
Sì, ma hanno solo registrato alcune parti che mi hanno mandato via mail. Non sono state così fortunate da prendere parte alle registrazioni. Le uniche cose che non suono io sul disco sono le tabla [un tamburo indiano, nda] in "The Plague", e alcuni effetti, drum machine e nastri. Ma per il resto è tutto mio, tutte cose che ho registrato, mandato in loop o rubato.  Oddio, che cosa hai rubato? 
Un sacco di roba! Quando dico "rubato" intendo diverse cose, da certe parti di software a certi suoni di un sintetizzatore, dal suono di una teiera o di una padella a quello di un interruttore che si accende e si spegne. Certi suoni che i miei amici hanno registrato e mi hanno colpito, alcune librerie di suoni. Ma teniamo un po' di mistero, non voglio finire nei guai. In fondo rubiamo tutti. Quando parli, poche delle parole che ti escono dalla bocca sono veramente "tue". Rubare è un modo di vivere.  Quando iniziasti a registrare musica avevi una concezione diversa del suono che volevi ottenere? 
Feci le mie prime registrazioni su cassetta, e quindi avevano un suono molto definito. È un formato con una compressione naturale davvero bella. Il che mi permetteva di far suonare le mie cose abbastanza artificiali da dargli una certa magia, e di farmi capire che quello che stavo facendo non era solo l'espressione di una quindicenne imbruttita e triste seduta in camera sua. A quell'età vuoi trasmettere qualcosa di più della tua realtà. Quando suoni vuoi andare oltre l'espressione di quel sentimento negativo e riducente che ti senti gettato addosso dal mondo che ti circonda. Più avanti mi sono presa un tre tracce, e a un certo punto sono passata a ProTools, essendomi data al sound design mentre studiavo. E il modo in cui tutto suonava era orribile! Per me fu molto difficile gestire la cosa, non riuscivo a ritrovare la naturalezza delle voci e dei suoni che registravo in semi-analogico. La prima volta che ho cantato in uno studio ho provato le stesse cose, il microfono riusciva a catturare più sfumature ma si perdeva tutta la compressione naturale. Era come se stessi ascoltando una versione ridotta di me stessa. Io e la tecnologia ci siamo scontrati brutalmente un sacco di volte. Ma brutale è anche l'esperienza di essere registrati da qualcun altro quando vorresti solo seguire quello che ti dice la pancia. Ci vuole un po' per capirlo, ma credo sia importante farlo per ogni artista.  E la cosa come si è esplicitata durante le registrazioni dell'album?
Con Blood Bitch abbiamo usato perlopiù della strumentazione di scarsa qualità, ma il punto è che volendo puoi far suonare un pezzo benissimo usando un iPhone. E mi è capitato di farlo. Ma cercare di ottenere un suono cristallino piuttosto che mistico deve essere una scelta conscia. Ora, per me, è anche una questione di estetica. Che si è esplicitata in una serie di riferimenti underground che ci siamo trovati a citare facendo e suonando il disco, da una serie di film di culto degli anni Settanta al black metal, che fu praticamente un'evoluzione super lo-fi del punk norvegese dei primi Novanta. Sono elementi audiovisivi sovversivi che sono venuti fuori a livello conversazionale durante il processo, e credo abbiano avuto un impatto. Ma al black metal siamo arrivati tardi, è soltanto un riferimento che suona bene (ride).

Che percezione avevi del black metal, ai tempi dell'omicidio di Euronymous? E qual è la percezione del genere a livello locale?
Ormai è tutto piuttosto mainstream e noioso, sai? Non sto al passo con quello che succede nella scena, ormai è stato americanizzato e commercializzato. Da piccola mi sembrava una roba piuttosto pericolosa, stavo appena iniziando ad andare al liceo ed era passato qualche anno dalle chiese bruciate e dall'omicidio. Il mio principale problema con il genere, e una delle ragioni per cui non l'ho mai veramente esplorato, era il suo elemento razzista. Quest'idea machista dell'orgoglio vichingo e norvegese che molti testi presentavano. Era una cosa che mi stava molto a cuore, e quindi non mi rendevo conto che erano parole scritte da ragazzini di diciotto anni━se a scriverle fossero stati adulti pienamente coscienti di sé le cose cambiano, ovviamente. Ci sono sfumature, e non tutto il black metal aveva un elemento politico reazionario. Ci sto pensando molto in questi giorni: perché il metal norvegese è dovuto andare in quella direzione razzista e misogina? È un peccato. Penso sia una questione linguistica: un ascoltatore non madrelingua magari scopre Burzum, si prende bene e capisce solo più tardi che è un pazzo neonazista. 
Certo, ed è per questo che è importante non giudicare un movimento dalle sue supposte ideologie ma dagli individui. Scrivere un testo è un atto, ma quando sei piccolo lo fai e basta senza pensare troppo a quello che stai dando al mondo.  Hai parlato, in passato, del fatto che sei cresciuta in un'area particolarmente religiosa della Norvegia. In che modo la cosa si esplicita nella Jenny di oggi?
Chiaramente non rappresento tutti i norvegesi, né tutti i norvegesi della mia zona, ma essere scandinavi, in generale, è una qualità che ha lasciato un segno su di me e sul modo in cui rappresento me stessa e un soggetto con la mia voce o i miei testi. Ne parlo in "Period Piece​", quando dico di questo collegamento tra il puritanesimo, la chiusura protestante, la vergogna e la cristianità e la pulizia, il bianco del minimalismo IKEA. Penso sia una dei pensieri più chiari che ho mai fatto a riguardo, e credo che l'intento sia lo stesso che aveva chi faceva black metal: rifuggire il conformismo, e promuovere una cultura basata sull'apertura in cui non ci sia la necessità di tenere nulla nascosto, di non lasciarsi crescere dentro sentimenti senza poterli esprimere. È un po' un cliché sulla Scandinavia, ecco.

Ci sono molti punti in cui semplicemente sussurri o gridi, soprattutto in The Plague. Non credi che, in un contesto saturo di slogan e dichiarazioni impegnate, a volte possa essere molto più comunicativo e pregno di significato un grido primordiale, una voce inintelligibile? 
Certo, ma tutto può essere vago in base al punto di vista da cui lo guardi. A livello letterario, un urlo non "dice" veramente nulla. Potrebbe significare qualsiasi cosa. Il che però è anche il motivo per cui è così potente, perché può legarsi a qualsiasi cosa abbia la potenza dell'urlo all'interno dell'ascoltatore. Ed è una cosa bellissima. Nello specifico su "The Plague" volevo inserire una parte in cui gridavo su una base EDM. Se guardi alla musica norvegese più mainstream, al pop e all'EDM come alla tropical house, ti rendi conto che è tutto davvero composto e compartimentalizzato. E per alcuni è una cosa piacevole, ma io credo sia come una droga. Una sorta di valium. E mi piaceva poter ascoltare un grido, un growling black metal distruggere l'EDM una volta per tutte. Penso avessi voglia di fare un commento sociale, più che altro! Ma è la bellezza dell'urlo di cui abbiamo appena parlato. Il pezzo si chiama "The Plague" ma a quale peste ci stiamo riferendo? Alla malattia del Trecento? A un'esperienza personale? Allo stato del capitalismo? O dell'industria discografica? Il fatto che è la canzone più frammentaria del disco contribuisce alla cosa. E c'è una certa tendenza alla frammentazione, alle glitch, nella musica semi-alternativa contemporanea, hai presente? Da Yeezus e The Life of Pablo di Kanye al nuovo di Bon Iver. E non so bene come inquadrarla.
Sì, capisco quello che vuoi dire. È interessante. Ma ci sono alcuni generi in cui ti è permesso di farlo. Se parliamo di hip-hop, capita perché qualche genio ha creato delle nuove regole, e quindi ora si può essere super-sperimentali in certi ambiti. Ma al contempo ci sono qualità di ogni genere che rimandano a norme: come comunicare, come apparire, quale identità dipingere. E mi sono sempre chiesta perché non potesse esistere musica pop frammentaria e potente come le persone. Ti sei mai sentita catalogata all'interno di un genere? Spinta a seguire determinate regole? 
Non direi "catalogata", ma effettivamente la gente tende a definire le mie cose "musica sperimentale." E la cosa non mi va giù, prima di tutto perché qualsiasi cosa è sperimentale. Per me "sperimentale" è un'azione e non un genere. E mi trovo a mio agio con l'idea che il mio lavoro ha a che fare con la musica pop, perché credo che al suo interno sia possibile fare qualsiasi cosa. La parola "sperimentale" è ormai un trend, un termine da tabloid. È un sinonimo di "audace", "diverso". Certo, non è colpa dei giornalisti, è solo il modo in cui le strutture funzionano ora come ora. Ma perché io creda che qualcosa sia davvero "sperimentale" non deve esserci dietro un tentativo di vendere qualcosa. Se rimuovi qualsiasi etichetta e convenzione, allora ha senso. Blood Bitch esce venerdì 30 settembre per Sacred Bones Records.
Tutte le fotografie sono di Jenny Berger Myhre. Elia non ha paura degli aghi. Seguilo su Twitter.
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