I Goat sono quel tipo di persone piuttosto bizzarre che hanno deciso non solo di fondare un gruppo, ma anche di lavorare pesantemente a un'identità collettiva che vada oltre il concetto di "x tizi con degli strumenti su un palco che scrivono canzoni." Nello specifico, la band sostiene di fare parte di un "culto voodoo" antico generazione generato in un piccolo paesino della Svezia del nord. Il che sarebbe di per sé potenzialmente una sparata inutile—se non che la loro musica sembra davvero una sorta di affascinante prodotto primordiale.
La cosa si sente particolarmente nel loro nuovo doppio album, Requiem, una sorta di scontro armonioso tra acustiche squillanti e flauti, droni ritmici multi-livello e testi misticheggianti intonati da voci femminili. Potrebbe venire voglia di crocifiggerli per una sorta di appropriazione culturale; il problema è che è piuttosto difficile capire di cosa si stanno appropriando di momento in momento. Un sacco dei loro suoni sembrano quasi uscire dall'Africa dell'ovest, e i loro costumi paiono rimandare a un raggruppamento tribale—ma nessuno in particolare. A uno sguardo più attento, si potrebbe dire che i loro vestiti sono fatti da materiali facilmente ottenibili da un qualsiasi negozio vintage ben fornito, o da una campana dei vestiti usati. È rock and roll mascherato da world music, e la world music non è un vero e proprio genere. È il titolo del loro primo album, tra l'altro.
Il loro anonimato e la loro storia inventata è una sfida per i media, ma ai loro fan la cosa non sembra preoccupare. Nasconde il proprio viso, per una band, può creare la percezione di una scelta meramente commerciale. Ma può anche essere un modo per aiutare musicisti e fan a sentirsi più vicini, a creare un collegamento diretto tra artista e ascoltatore. Nel caso dei Goat, le loro maschere sembrano proprio avere questo effetto: togliere le identità individuali dall'equazione aiuta sia la band che i suoi ascoltatori a perdersi, in un certo senso.
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