Attualità

Giovani italiani che si sono trasferiti all’estero spiegano cosa non gli manca dell’Italia

Australia, Stati Uniti, Uruguay: sette expat italiani tra i 20 e i 30 anni raccontano cose che vorrebbero ci fossero pure in Italia.
Claudia Floresta
Catania, IT
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Tutte le foto per gentile concessione degli intervistati.

Secondo i più recenti dati Istat, dal 2008 al 2020 sono ufficialmente espatriati dall’Italia 355mila giovani tra i 25 e i 34 anni, circa il 5,9 percento della popolazione italiana in questa fascia d’età. 

A confermare questa tendenza è anche il Referto del sistema universitario 2021 della Corte dei Conti, secondo cui in otto anni (dal 2013 al 2021) il trasferimento dei laureati per lavoro è aumentato del 41,8 percento.

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Al di là delle piccole flessioni dovute alla pandemia, la portata del fenomeno è ormai chiara da diverso tempo. I motivi che spingono un giovane a partire sono diversi: il lavoro, lo studio, la voglia di cambiamento, la possibilità di guadagnare di più e così via. Iniziare a vivere in un altro paese significa però anche fare paragoni col proprio.

Per sondare nel complesso questi aspetti, abbiamo chiesto a sette giovani expat italiani di raccontarsi e spiegarci quali sono le cose che non gli mancano dell’Italia.

Isabella Cristaudo 27 anni, chiropratica

expat italiani all'estero

Mi sono trasferita in Inghilterra dopo essermi diplomata, e non sono andata più via. In questi otto anni, mentre continuavo a conoscere e veder andar via italiani, soprattutto prima di Brexit, ho cambiato diverse città, lavorato da Nando’s (una catena fast food), mi sono iscritta all’università e laureata in chiropratica. 

In Italia non esistono scuole di formazione per chiropratici, quindi mi hanno pure contattata più volte per tornare a praticare la professione. Che è una eccezione, dato che solitamente i giovani vanno via. Al momento ho sempre declinato, anche se il mio paese e la mia regione, la Sicilia, mi mancano spesso.  

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La cosa che però non mi manca, ed è uno dei motivi che mi ha spinto inizialmente ad andar via, è l’eccessiva importanza che diamo all’apparenza. Nella mia esperienza personale, qui c’è molta più apertura e zero stupore per quelle che in Italia verrebbero percepite come “devianze dalla norma.”

Mi spiego: nella mia università a Bournemouth era naturale vedere persone di qualunque età frequentare, senza che nessuno le guardasse come alieni. Oppure nessuno ha avuto da ridire quando, appena ventenne, ho avuto due figli col mio compagno inglese.  

O ancora: a Brighton è capitato che per un periodo mia figlia volesse andare vestita da principessa all’asilo—e nessuno ha trovato strano il fatto che io gliel’abbia permesso. Mi rendo conto che possono sembrare banalità, ma adoro il fatto che i miei figli stiano crescendo in un posto in cui possano esprimersi e conoscersi meglio con molte meno pressioni.

Alessandro Seminara, 29 anni, Aquatic Manager

expat italiani all'estero

Diciamo che trasferirmi all’estero non era una delle mie priorità: mi era capitato di vivere in Spagna per l’Erasmus, ma dopo aver conseguito il master in sport e business management a Roma restare in Italia mi sembrava la scelta giusta, così ho trovato lavoro a Pesaro in una società di barca a vela. 

Mi sono presto accorto però che i soldi che guadagnavo mi permettevano sì di vivere—ma non avevo possibilità di risparmiare e prospettive imminenti di crescita. Così sono tornato dai miei e con qualche lavoretto ho raccolto i soldi necessari per trasferirmi a Sydney, in Australia. Sono arrivato a gennaio del 2020.

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Ho iniziato a lavorare come cameriere e solo con quello ho potuto mettere qualche soldo da parte—che già fa ridere se immagini la stessa situazione in Italia. Dopo il secondo lockdown ho trovato lavoro in un centro sportivo e da poco sono passato al grado di Aquatic manager. Essenzialmente mi occupo di gestire tutte le attività natatorie del centro: aprire nuove classi di nuoto, fare recruitment e formazione per i nuovi insegnanti e gestire i clienti. 

Non credo che in Italia sia impossibile fare carriera, ma se penso al mio percorso lavorativo in questi due anni passati in Australia e provo a paragonarli alle tempistiche italiane non credo che sarei arrivato dove sono adesso.

Naomi Kelechi Di Meo, 23 anni, studentessa

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Foto di Andrea Amponsah / @akadrestudio.

Quattro anni fa mi sono trasferita in Olanda per studiare scienze politiche, poi ho deciso di cambiare e studiare Media and Information, la facoltà in cui mi sto laureando. Amsterdam è una città che mi piace molto: aperta alle novità, multietnica, europea ma con spirito internazionale. Si parla di un paese che è stata una grande potenza coloniale, quindi presenta ancora dei forti retaggi. Nonostante ciò, mi piace però che ad oggi non ci si preoccupi del luogo da cui provieni e di cosa stai facendo. La cosa che mi manca meno dell’Italia in effetti è proprio legata a questo, al continuo interrogare la persona basandosi sulla sua provenienza, etnia e credo.

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Da italiana afrodiscendente mi rendo conto che in Italia il razzismo è molto più radicato e presente rispetto ad altri paesi. Quando in Olanda dico di essere italiana nessuno si stupisce o fa domande invalidanti, mentre in Italia è come se dovessi sempre dare una spiegazione, legittimare in qualche modo il mio essere italiana o cosa ci faccio nel paese. 

Chi è nero, in Italia?

In questo periodo sto programmando il mio rientro a casa dopo aver passato tanti anni all’estero, però ammetto di essere molto combattuta. So che dovrò rapportarmi di nuovo con queste dinamiche che non mi fanno vivere in modo sereno la mia vita. Allo stesso tempo, mi rendo conto che all’estero la situazione è più gestibile perché c’è stata una generazione prima di me che si è impegnata per migliorare le cose e adesso che sono più grande e consapevole voglio investire il mio tempo e le mie risorse per far sì che le generazioni future possano trovare un ambiente più aperto e inclusivo di quello che ho trovato io in Italia.

Alessandro Sforza, 29 anni, infermiere

expat italiani all'estero

Dopo la laurea alcuni miei colleghi avevano già iniziato a lavorare in Germania e si trovavano bene, così ho deciso di provarci. Mi ero un po’ guardato intorno anche in Italia, ma tra tasse assurde e paghe al limite dello sfruttamento non mi è sembrato il caso. 

In Germania non ho trovato le condizioni di lavoro migliori del mondo, ma sono comunque rimasto lì per due anni e mezzo. Poi mi sono informato sulla Svizzera: ha una forte carenza di personale infermieristico, quindi esistono delle agenzie che si occupano di reclutare infermieri anche dall’estero.

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Tramite un’agenzia ho trovato lavoro a Baden, nel Canton Argovia. Vengo da un paesino del sud Italia e nonostante Baden sia poco più grande ha a disposizione tutti i servizi che da noi si troverebbero solo nelle grandi città. Mezzi di trasporto, studi yoga, danza teatrale indiana, terme.

Da quando sto qui, poi, mi sono accorto anche di come gestiamo male il tempo. So che mi sto attaccando a un grande cliché, ma prima di vivere qui non ci avevo fatto caso. E mi riferisco a tutte quelle cose che non dipendono espressamente dalla scelta della singola persona: le file alla posta, dal medico, l’autobus costantemente in ritardo.

In Svizzera non solo gli appuntamenti sono fissati al minuto, ma viene data un’importanza tale al tempo che al lavoro la gestione dei turni è personalizzabile. Cosa molto utile se hai figli o bisogno di frequentare un corso.

Giulia Ampollini, 31 anni, dipendente patronato Acli e make up artist

expat italiani all'estero

Mi era capitato di leggere molto sull’immigrazione italiana in America Latina negli anni Sessanta, così quando ho visto che c’era la possibilità di svolgere il servizio civile a Montevideo, in Uruguay, ero curiosissima di provare l’esperienza. Mi dovevo trasferire a marzo del 2020 e di fatto mi ci ero trasferita, poi a causa dell’emergenza Covid in Italia sono stata rimpatriata. Alla fine sono ripartita nel novembre 2020.

In Uruguay circa la metà della popolazione vive a Montevideo. Mediamente qui un turno giornaliero di lavoro è di circa cinque ore, e nonostante la vita sia cara, lo stipendio minimo ti consente di pagare tranquillamente almeno l’affitto e le bollette, cosa che non in tutte le città italiane è fattibile con un contratto, a maggior ragione part time. Per esempio quando facevo la triennale a Milano lavoravo pure, ma comunque necessitavo di un aiuto economico da parte dei miei.

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Inoltre, in Uruguay è cosa diffusa avere una seconda occupazione, che chiameremmo in Italia “lavoretto”—io per prima lavoro per un patronato ma sono anche una make up artist. Questo modo di fare credo aiuti molto ad appianare quello che è il preconcetto italiano per eccellenza: ‘’Il tuo lavoro definisce chi sei e quanto rispetto meriti.’’

Inoltre da celiaca, un’altra cosa che non mi manca è la poca sensibilità sul tema in Italia. A Genova, mia città d’origine, mi capitava spesso di non trovare opzioni gluten free nei ristoranti, o magari le avevano ma non si escludevano “contaminazioni.” Non so dire se qui a Montevideo la preoccupazione sia legata alle mode o altro, ma i ristoranti con opzioni senza glutine sono molto più diffusi e attenti.

Adelaide Ghisolfi, 24 anni, studentessa

expat italiani all'estero

Dopo aver passato due anni a Los Angeles ho deciso di continuare gli studi ad Amsterdam, dove ho preso la laurea triennale in psicologia clinica e dello sviluppo e sto svolgendo il master in psicologia della cultura. Partendo da qui, la prima differenza che noto è che fuori dall’Italia, o perlomeno dove ho vissuto, prendono molto più a cuore la salute mentale. Non è strano infatti che un periodo particolarmente stressante o difficile per una persona dal punto di vista psicologico venga riconosciuto come un qualunque altro problema di salute. In Italia è una cosa di cui ancora si parla troppo poco. Nonostante sia stato approvato il bonus psicologo ad esempio, possono accedervi all’incirca 16mila persone, con un rimborso massimo di 600 euro l’anno. È insufficiente.

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Un’altra cosa che non mi manca poi è il fatto di non sentirmi davvero supportata in quanto appartenente alla comunità LGBTQI+. Credo molto nel potenziale dell’Italia e sul fatto che possa migliorare però mi rendo anche conto che vivere in un paese come l’Olanda, che è stato uno dei primi al mondo a legalizzare i matrimoni egualitari nel 2001 e punta molto anche dal punto di vista architettonico ad essere molto inclusivo (è pieno di bandiere e installazioni arcobaleno, non solo nei quartieri dedicati alla comunità) ti trasmette un senso di sicurezza. Completamente opposto all’Italia, dove la proposta del Ddl Zan è stata bocciata nonostante il consenso popolare. 

Sofia Salomone, 26 anni, revisore legale dei conti

expat italiani all'estero

Da quando mi sono trasferita a Boston mi è capitato spesso di riflettere su quali siano le differenze che noto di più rispetto a Milano. Partendo da cose futili come l’uso smisurato che fanno gli americani dell’aglio in tutte le pietanze possibili o il fatto che ti fermino per strada per farti i complimenti su come sei vestita, passando a cose più importanti come il loro essere più organizzati in tutto. 

Se penso a cosa non mi manca dell’Italia, istintivamente la prima cosa che mi viene in mente è il catcalling. Non è strano in Italia, anche in città in cui qualcuno non se lo aspetterebbe, sentirsi gridare dietro qualcosa anche agli orari più tranquilli della giornata. Qui mi è capitato anche di rientrare la sera tardi e non mi è mai successo di sentirmi non al sicuro. 

Un’altra cosa che ho notato a Boston è la presenza di servizi igienici gender neutral. È qualcosa che spesso diamo per scontato, ma la suddivisione in maschili e femminili può essere una grande fonte di disforia e quindi di malessere. Un’altra cosa che ho notato qui in America è, poi, come le politiche aziendali siano diverse nonostante io di fatto lavori per la stessa azienda per cui lavoravo in Italia. Qui posso decidere di andare a Los Angeles e timbrare il cartellino in quella sede senza troppi preamboli organizzativi. Certo, in Italia mi era possibile lavorare in smart, però il fatto che esista un sistema che ti permette di avere una scrivania dove lavorare in potenzialmente tutte le sedi degli Stati Uniti credo sia la prova che qui siano più avanti. Ma ci arriveremo.

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