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'Big Little Lies' ti fa venire voglia di comportarti male

All'inizio non riuscivo a capire il motivo di tutto l'entusiasmo intorno alla serie, ma ora non mi resta che dire: WOW.

Attenzione: il post contiene spoiler. Se non hai ancora ultimato la serie, leggi a tuo rischio e pericolo.

Ho iniziato a guardare Big Little Lies spinta da un paio di mie amiche entusiaste, e all'inizio non riuscivo a capirne bene la ragione. Perché la serie—il cui ultimo episodio è andato in onda domenica scorsa—ti catapulta immediatamente e senza troppi complimenti in un mondo popolato dal famigerato 1%, che se ne va a spasso con la permanente appena fatta su dei SUV luccicanti lungo le strade costiere di Monterey, in California.

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Tutte le puntate sono state dirette da Jean Marc-Vallée (Dallas Buyers Club) e sceneggiate da David E. Kelly, il creatore di una delle serie meno femministe degli anni Novanta, Ally McBeal. E i personaggi sembrano tagliati con l'accetta, dal primo all'ultimo.

Reese Witherspoon è Madeline Martha Mackenzie, una donna minuta dai capelli perfetti e dal carattere prepotente, che sembra aver rinunciato a qualunque ambizione professionale in nome della maternità; Nicole Kidman è Celeste Wright, una donna bellissima che ha sposato un uomo più giovane di lei con con cui si scambia effusioni ritenute non appropriate dalle altre mamme e che, da quando ha avuto due gemelli, ha smesso di lavorare sotto le pressioni del marito; Shailene Woodley è Jane Chapman, la rappresentazione della working class: a differenza delle altre, è una madre single con un lavoro part-time da contabile che vive in un appartamento con una sola camera da letto e dorme sul divano letto del salotto; Laura Dern è Renata Klein, una CEO che, paradossalmente, in un mondo così lezioso e superficiale, si vergogna del suo status lavorativo e si sente inadeguata rispetto alle altre mamme. Infine c'è Bonnie Carlson, interpretata da Zoë Kravitz, l'unico personaggio di colore di tutta la serie (eccetto per una poliziotta che però si vede pochissimo) e nuova moglie dell'ex marito di Madeline, una donna giovane, super sexy, insegnante di yoga e impegnata nel sociale quasi al limite della parodia.

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Fin dalla sigla, che mostra spicchi dei volti delle protagoniste riflessi negli specchietti retrovisori con i relativi figli, è chiaro che i personaggi maschili non abbiano alcuna importanza, se non quella di fungere da leva per giustificare le azioni delle loro mogli. I bambini sono diretti splendidamente e le loro trame svelano e seguono con eleganza quelle dei loro genitori.

La serie si apre con un omicidio. Ciò che sappiamo è che durante un evento di beneficenza della scuola elementare Otter Bay qualcuno è morto. Riprendendo lo stratagemma usato recentemente da The Affair, la storia viene ricostruita apparentemente attraverso gli interrogatori della polizia, che però sfociano in un grande flashback che segue il tempo degli eventi antecedenti il crimine. La cosa interessante è che dopo i primi dieci minuti l'attenzione si è già completamente spostata sulle vite dei personaggi e, durante tutti e sette gli episodi non si prova quasi nessuna curiosità per l'identità della vittima.

Ci vuole una sceneggiatura con le spalle molto larghe per riuscire a tenere sempre sul tavolo un atto definitivo come l'omicidio, e allo stesso tempo lasciarlo in sordina come un leitmotiv che prelude a un finale non così essenziale. Big Little Lies non è un giallo, o almeno non soltanto.

In generale tutte le puntate si organizzano attorno a un crescendo che amplifica un poco alla volta i dettagli forniti fin dalla prima puntata. Il caso di Celeste è quello che più di tutti esprime la raffinatezza di questo andamento. Inizialmente sembra che la sua relazione sia perfetta. Il marito è giovane, è bello, è un buon padre. Per questa ragione siamo quasi disposti a credere che il primo episodio di violenza domestica sia in realtà una sfumatura della passione che travolge la coppia. E qui la Kidman dimostra tutta la sua (dimenticata) bravura: se anche la violenza inizialmente non è lampante, la sua recitazione ci fa subito intuire la paura vibrante e sotterranea che avvolge la sua vita. Puntata dopo puntata, la violenza si fa più intensa, il sesso più brutale. Anche le scene della terapia che segue Celeste sono perfette: i progressi arrivano un po' per volta, la paura si dispiega controvoglia e la terapeuta riesce a essere direttiva e al contempo non intrusiva. Tutto questo fino al momento in cui i lividi cominciano a essere troppo marcati. Ed è lì che, con una sensibilità e una fermezza molto credibili, la dottoressa le dà delle direttive molto franche: prendi un appartamento, scappa insieme ai tuoi bambini, racconta alle tue amiche cosa ti sta succedendo per avere dei testimoni durante un eventuale processo.

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Quando si tratta di violenza di genere, è difficile non cadere nelle trappole che si generano naturalmente quando la si mette in scena, prima tra tutte quella del manicheismo che vuole le persone completamente buone o completamente cattive. Mentre biasimiamo e temiamo Perry sempre di più, riusciamo a cogliere tutte le ambiguità di una relazione co-dipendente: il senso del possesso, il controllo scambiato per amore, la speranza che la persona possa cambiare in nome dei momenti sereni condivisi, e la percezione di come ogni aspetto del rapporto piano piano diventi sempre più inquinato dalla paura di dire o fare la cosa sbagliata scatenando la violenza.

Quando dicevo che i bambini seguono e riproducono in piccolo le storie degli adulti, mi riferivo prima di tutto all'intreccio che vede coinvolti i figli di Celeste, Jane e Renata. Durante il primo giorno di scuola, la figlia di Renata, Amabella, viene bullizzata. Inizialmente la bambina indica Ziggy, il figlio di Jane, come il suo persecutore. Questo piccolo episodio, che apparentemente è solo una scaramuccia tra bambini, dopo poco porta alla luce il trauma di Jane: scopriamo che è stata stuprata e che suo figlio è il frutto di questo abuso. Empatizziamo facilmente con il terrore che suo figlio possa essere un violento, che esista un determinismo biologico da cui non si può scappare. Durante l'ultima puntata si scopre invece che il vero bullo è uno dei due gemelli figli di Celeste e Perry. È proprio Jane che lo comunica a Celeste: "Mi sono dovuta confrontare con il fatto che la violenza potesse essere scritta nel suo DNA, visto chi è suo padre," dice riferendosi a quando sospettava del figlio. Con tutta la delicatezza possibile aggiunge che sono bambini, e col tempo passerà. Celeste, conscia dell'aria tossica che sperava i suoi bambini non avessero respirato, risponde tristemente: "Non sempre."

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E Madeline? Con un intreccio di storie violente come quello di Celeste e Jane, il rischio che il personaggio di Reese Witherspoon si perdesse per strada era tangibile. Invece, la sua risulta la figura più sfaccettata e sorprendente di tutta la serie. Prepotente ed egocentrica, rancorosa nei confronti dell'ex marito e quasi indifferente a quello nuovo—non a caso l'unico personaggio maschile tridimensionale, che si sgancia dal mero ruolo di spalla al mondo femminile—incarna un tipo di donna che sta automaticamente antipatica, di cui non vorresti mai essere nemica.

Eppure è nei dettagli del rapporto con Jane e Celeste che emerge la brillantezza della scrittura del suo personaggio: la serie non cerca di spingerti a vedere in lei un cambiamento o una bontà nascosta. Non cerca di dire: "Questa donna ti sembra una stronza ma in realtà è buona." Madeline è uno stereotipo sociale che, senza cercare di sorprenderti, integra in sé aspetti positivi e negativi della natura umana. E se è difficile giocare con l'ambiguità del bene e del male quando si parla di violenza di genere, lo è altrettanto quando si cerca di descrivere in modo avvincente un personaggio normale.

C'è un passaggio in particolare nella storia di Madeline che ho trovato particolarmente sensibile: sua figlia maggiore, stanca dei conflitti con la madre iper controllante, decide di trasferirsi da Bonnie e il padre. Qui ha un'idea: quella di vendere la sua verginità per poi devolvere la cifra in beneficenza, come atto politico. Quando Madeline lo scopre—in una scena piuttosto divertente—va a parlarle. E poi succede qualcosa: si dispiega davanti ai nostri occhi il mutamento del rapporto madre-figlia, quel momento in cui il genitore smette di essere solo tale e si mostra nei suoi aspetti meno autoritari, permettendo alla figlia di avvicinarsi a lei in maniera confidenziale e alla pari.

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Nella mia esperienza questo momento c'è stato. Me lo ricordo molto bene perché è coinciso parzialmente con la separazione dei miei genitori, e ancora adesso penso che sia stato lo snodo che mi ha resa indipendente dal ruolo di figlia e che mi ha permesso di vedere mia madre come una persona a tutto tondo, e non solo come un cartonato che mi diceva di fare o non fare delle cose.

Anche il personaggio di Bonnie, scopriamo, non è parodico come sembrava. Perché tutta la sua caratterizzazione eccessivamente lineare si svincola dallo stereotipo verso la fine della serie, quando capiamo una cosa: lei è veramente così. Non è una finta, non è ipocrita. È una persona sinceramente compassionevole e attenta agli altri, un motivo così semplice e ingenuo che alla fine la riscatta.

L'ultimo episodio poi raggiunge l'apice recitativo delle tre protagoniste. Il colpo di scena finale è coraggiosamente affidato soltanto al linguaggio del corpo, alle espressioni dei volti. E nello scambio di sguardi tra Celeste, Jane e Madeline, si intuiscono un milione di battute e parole non dette, una sorellanza che non è mai stata rappresentata con così tanta finezza.

La scena finale invece è quella della catarsi e del risultato del girl empowerment. Il gioco della lotta tra generi è finito, le protagoniste corrono e scherzano al rallentatore su una spiaggia, svuotate della tensione che si è dissolta nei minuti precedenti, legate da un sentimento di protezione reciproco e accompagnate da "You can't always get what you want" in una versione normalmente discutibile e melensa, ma che per una strana alchimia funziona. (Perché c'è un'ultima cosa da aggiungere: la colonna sonora è perfetta, il mio cuore l'ho lasciato con "White Rabbit" nella versione in cui la voce di Grace Slick è isolata e mi riempie il salone).

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In un momento storico in cui il femminismo viene sbandierato da ogni parte, dalle sfilate di moda ai libri per bambini, mancava una rappresentazione flessibile di ciò che vuol dire essere donna in un mondo che, ancora adesso, spinge alla competizione intra-genere. Provare sentimenti ambivalenti verso altre donne è normale. Non è giusto, e non è colpa nostra. Ciò che è giusto è provare a contrastarli, ma serve un po' di auto-indulgenza dati gli stereotipi e la società che ci hanno cresciute.

Allo stesso tempo, se prima questo tipo di atteggiamento veniva ritenuto naturale e biologico, e quindi non gli si prestava troppa attenzione, adesso oltre alla competizione proviamo anche il senso di colpa di essere, in verità, "non femministe".

Un telefilm che si dipana anche attorno a questo tema in maniera così onesta e senza mai spiattellarlo banalmente è fondamentale. E Big Little Lies lo fa, mostrando sottilmente e senza giudizi la malizia e il ruolo di genere di cui spesso le donne sono schiave, ma anche l'empatia di cui sono capaci. Le donne si odiano, si maltrattano, si invidiano e competono tra di loro, ma alla fine, di fronte a un pericolo più grande, di fronte a un nemico più grosso della donna che ti è seduta accanto, gli unici sentimenti che emergono sono alleanza e compassione.

Insomma, sarebbe bello se fossimo tutte delle Bonnie fin dal principio, ma credo che prima di diventarlo sia inevitabile indulgere e ragionare sull'ambiguità di Madeline. Forse, per essere femministe, bisogna prima perdonarci il fatto di non esserci nate.

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