Come una raccolta di hit somale dimenticate è arrivata fino ai Grammy
Foto di Janto Djassi/Picture Me Different.

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Musica

Come una raccolta di hit somale dimenticate è arrivata fino ai Grammy

'Sweet as Broken Dates' è stato nominato ai Grammy 2018 nella categoria “Miglior album storico”; noi abbiamo intervistato il suo curatore, Vik Sohonie di Ostinato Records.

La vita di Vik Sohonie è stata un continuo cambio di residenze. Nato in India, cresciuto nelle Filippine, poi in Thailandia e in Singapore, si laurea negli Stati Uniti e lì comincia a praticare il mestiere di giornalista. Mica si ferma, però: lunghe trasferte in Europa, e soggiorni prolungati nei Caraibi e in diversi paesi dell’Africa. Ad accompagnarlo c’è l’amore per la buona musica e la smania di collezionare dischi rari. Nella sua valigia c’è sempre spazio per vinili impolverati, CD trovati in qualche mercato nero, per lo più di autori semisconosciuti in Occidente. Come un Ryszard Kapuscinski dell’indagine sonora, tramuta la sua ossessione per la conoscenza in una ragione di vita.

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A New York, Sohonie fonda Ostinato Records, una etichetta che avrà come missione principale il rintracciare la musica dimenticata delle popolazioni africane. “Come figlio orgoglioso del Sud del mondo, penso che la musica sia uno strumento potente per cambiare la narrativa controllata dall’Occidente”, spiegherà. Lui che era stato sul punto di diventare un giornalista mainstream, e aveva accettato persino contratti prestigiosi, si dedica anima e corpo al nuovo progetto, investe i suoi risparmi, e a intervalli continua a girare per il mondo. Iniziano ad uscire una raccolta di musica haitiana e una capoverdiana: ottime critiche, vendite così così. Lui insiste.

La compagnia teatrale Waaberi (Mogadiscio, anni Settanta). Foto: Ostinato Records.

Nel marzo del 2017, Ostinato lancia Sweet as Broken Dates: Lost Somali Tapes from the Horn of Africa, il suo progetto più ambizioso: una compilation che raccoglie il meglio del meglio della musica somala anni Settanta. Sono gli anni della giunta militare di Siad Barre, Jaalle Siyaad per i suoi sudditi: 21 anni di “socialismo scientifico” in salsa africana, nazionalizzazioni forzate e lotte intestine tra clan familiari, controllo capillare della cultura e promozione di nuovi linguaggi patriottici nell’identità post coloniale. La musica faceva parte del piano. Le tracce del disco rispecchiano la scena artistica tollerata o, addirittura, sponsorizzata dal regime: cantanti come Hibo Nura, Nimo Jama, i Waberi, la Iftin Band, e tanti altri. Un’epoca irripetibile di contraddizioni e di speranze che Sohonie è riuscita a catturare in un disco di strepitosa vitalità.

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A dicembre, Sweet as Broken Dates (da qui in poi SABD) è stato nominato per il “Miglior album storico” ai Grammy Awards 2018. Un traguardo straordinario per un’impresa partita con pochi mezzi, e svoltasi più in biblioteche e case private che in sale di registrazione. Mentre la stampa progressista inizierà presto a farsi domande sulla legittimità culturale di progetti del genere, sul rischio di impacchettare culture complesse e storie dolorose ad uso e consumo dei fighetti di Williamsburg, io affronto le perplessità lasciandomi raccontare da Vik Sohonie la genesi del disco, a cominciare dal viaggio che lo ha condotto in una vera miniera d’oro: ad Hargeisa, capitale dello Stato de facto indipendente del Somaliland, dove Sohonie, il suo socio Nicolas Sheikholeslami e un etnomatematico che parla italiano hanno messo le mani su un archivio di 10.000 dischi salvati dai bombardamenti di Barre del 1988 – in piena guerra civile – e poi sigillati in pile di scatoloni per quasi trent’anni.

Noisey: Come siete riusciti a localizzare queste registrazioni? Avevate sentito già parlare di questi musicisti prima di trovarli nell’archivio?
Vik Sohonie: Beh, a New York avevamo passato a rovistare in ogni angolo di YouTube. Cercavamo la musica somala: per capirci qualcosa in più sui generi in voga allora, i cantanti, i gruppi. Quando vedevamo che la stessa canzone era suonata da più artisti diversi, allora era il segno che doveva rappresentare qualcosa di importante. Prendevamo nota. Ci siamo imbattuti così nella diaspora della cultura somala nel mondo, e solo dopo aver bussato a molte porte siamo entrati in contatto con gli archivisti della Red Sea Foundation dell’Hargeisa Cultural Center, in Somaliland.

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Qual è suppergiù il periodo coperto dalla raccolta?
Direi che la maggior parte delle canzoni precede la Guerra civile, ma ci sono anche alcuni pezzi registrati negli anni Novanta, durante la grande migrazione, in posti come Dubai, Nairobi e Toronto.

Il vostro viaggio ad Hargeisa dev’essere stato piuttosto interessante.
Beh, è stato fondamentale per noi l’aiuto di Jama Musse Jama, fondatore e presidente del centro culturale di Hargeisa: persona straordinaria, scrittore ed etnomatematico di origine somala che ha vissuto a lungo in Italia; una biblioteca vivente su decenni di cultura e musica del suo paese. A Jama ho spiegato cosa volevo fare, la mia missione, e lui se ne è venuto fuori con questa idea: in cambio dell’accesso all’archivio della fondazione, io lo avrei aiutato a digitalizzarla. È andata così: per ogni copia che abbiamo trasformato in digitale, a lui è restato il master originale. Ma Jama ci ha anche aiutato ad ottenere un visto, e si è preso veramente cura di noi durante la nostra visita.

Da quello che ho capito questa era musica prodotta dalla radio nazionale somala. Non c’erano etichette indipendenti. Ma come funzionava la filiera produttiva? Gli artisti venivano contattati dal governo per le registrazioni, o si muovevano per conto loro? Era immaginabile una sorta di figura di “produttore illuminato”, che sceglie di testa sua su cosa sperimentare, cosa mandare avanti?
Tieni conto che l’epoca delle registrazioni era il pieno della Guerra Fredda. E talvolta, in Africa, ti trovavi con governi non allineati come quello di Barre, che oscillavano tra il blocco capitalista occidentale e quello sovietico, a seconda della convenienza. Dapprima Barre è stato un marxista di ferro, un convinto nazionalizzatore, credeva nell’idea di un governo che, attraverso i suoi ministri, potesse gestire persino il settore musicale, i gruppi che suonavano; quindi, pianificare anche la promozione di specifici talenti. C’era, ad esempio, il Ministero dell’Educazione che teneva in mano la Iftiin Band, una delle più amate dai somali. Non esistevano etichette davvero indipendenti. Dirò di più: non esisteva proprio questo concetto. C’erano semmai gruppi piuttosto autosufficienti, come la Dur Dur Band. Mentre, per quanto riguarda le registrazioni, le cose potevano andare così: magari c’era un gruppo che si esibiva davanti ad autorità e uomini d’affari, in un hotel di lusso, privatamente, e lì qualcuno registrava di nascosto, e faceva arrivare i nastri sul mercato nero. Oppure registravano alla radio di Stato, e chi era in ascolto a casa propria registrava tutto su cassetta. Comunque, non c’era un vero mercato per la musica popolare, né interesse da parte del governo a esportarla.

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Radio Hargeisa. Foto: Janto Djassi/Picture Me Different.

Ma qual era il rapporto di Siad Barre con questi musicisti?
In grande misura, nevrotico proprio come era lui. Posso affermare che Barre non fosse diverso da molti altri leader post-coloniali africani, come Sekou Toure, che pure aveva un vasto piano statale per rivitalizzare la musica, per trasformarla in uno strumento di decolonizzazione dello spirito e della cultura del suo paese. Sia pur attraverso gli inevitabili errori, Barre cercò effettivamente di combattere per l’alfabetizzazione delle masse e l’emancipazione femminile. Se ci fai caso, la nostra compilation è dominata dalle donne.

Beh sì, molte più donne che nelle classifiche dei migliori singoli del 2017 che si sono viste in giro settimane fa.
D’altro canto, Barre era un dittatore, con tutte le paranoie tipiche degli autocrati. I suoi scagnozzi potevano piombare in piena notte a casa di un musicista, per assicurarsi che un testo non parlasse di Barre o fosse in alcun modo sovversivo. Nel libretto di SABD si può trovare, ad esempio, la storia di «Jerry», cantante e multistrumentista della Iftiin Band, che ad un certo punto si vide fare domande sul testo di una canzone soul americana che lui aveva rifatto, perché gli uomini dei servizi segreti non capivano l’inglese. A volte le canzoni d’amore diventavano sovversive per mimetizzazione, lasciando sotto traccia significati che non si potevano cogliere subito. Ma sai, questo si ritrova anche nella nostra raccolta di musica haitiana, con Papa “Doc” Duvalier a farla da padrone. Nei paesi del Terzo Mondo degli anni Sessanta e Settanta, rinascimento culturale e repressione andavano a braccetto.

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Che possiamo dire sul genere di musica della raccolta? Alle orecchie di un ignorante come me suona, beh, piuttosto “reggae”, con echi della disco, con ampio uso di organo e sintetizzatori, ma oltre non saprei andare. Ci sono forse degli strumenti, degli accordi tipici della musica somala che un appassionato riconoscerebbe subito?
Quello che tu chiami reggae in realtà lì si chiama dhaanto. Guarda, se tu parlassi con dei musicisti somali, ti direbbero che paragonare il dhaanto al reggae giamaicano è la più grande bestemmia che ci sia, perché il dhaanto precede di molto il reggae che conoscono gli occidentali: è un genere che si diffuso partendo dalla regione di Ogaden, in Etiopia, ed è stato perfezionato ad Hargeisa, che era la capitale della cultura somala prima di Mogadiscio. Ma poi questa cultura si è espansa in tutto il Corno d’Africa, superando e assorbendo i confini coloniali, arrivando in Gibuti, in Kenya, ritornando in Etiopia quando il reggae giamaicano rimette piede lì per trovare l’ispirazione religiosa. In fin dei conti, è una catena di contaminazioni il cui inizio e il cui sviluppo sono ancora avvolti nel mistero. Ma posso dirti che c’è più Somalia nel reggae giamaicano che non il contrario.

Jerry & Axmed Naaji (Mogadiscio, anni Settanta). Foto: Ostinato Records.

E i testi di cosa parlano? Solo temi innocui, o c’è anche politica? Per esempio, il passato coloniale italiano.
No, gli italiani se ne sono andati nel 1960 e nella musica non ce n’è traccia. Ma c’è anche la politica, certo: la canzone What's Oktobar? It's ours celebra il golpe del 1969, una rivoluzione in fondo pacifica, messa in atto da Barre per capovolgere un governo ampiamente delegittimato, che ereditava il potere proprio dai colonialisti.

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Ma la gente in Somalia ricorda ancora questa musica?
Sicuro! Specie le vecchie generazioni. Sono canzoni che gli ricordano gli anni dell’università, della prima piccola borghesia che nasceva, di spiagge ancora immacolate dove si poteva passeggiare.

Al momento di comporre questa intervista, mi sono trovato davanti a un problema di coscienza: se chiederti dei dubbi di alcuni accademici, del dibattito in corso sul concetto di “appropriazione culturale”, o se seguire soltanto le mie curiosità, di appassionato di antropologia. Parlo ovviamente dei dubbi di certa stampa progressista, che da tempo si chiede se dietro certe operazioni non ci sia il rischio dell’esotizzazione, di ridurre la cultura di un popolo a un prodotto facilmente digeribile per il pubblico occidentale.
Guarda, capisco il senso della domanda. Potrei risponderti che io non sono un occidentale, né di sangue né di cittadinanza. E che conosco il lascito del colonialismo molto, molto bene. Ma se mi domandi cosa penso sinceramente di questo tipo di accuse, credo che siano il frutto di una prospettiva davvero miope. Perché è una prospettiva tutta occidentale, e non certo internazionalista, o dei popoli del Sud del mondo. Perché queste critiche sono in realtà un modo l’ennesimo modo per l’Occidente di continuare il suo dominio. Il miglior commento l’ha lasciato un utente che ha comprato la raccolta, sul nostro sito: “È l’antidoto perfetto all’imperialismo”, ha scritto.

Trattasi ancora una volta di senso di colpa dell’uomo bianco?
Sì, direi di sì. Ma in questo caso sono accuse che impongono il senso di colpa occidentale sui non-occidentali, e trovo la cosa ancora più infuriante. Vedi, io sono nato in Gujarat, una terra che ha commerciato con l’Africa orientale per secoli. Ci sono comunità indiane in Somalia, Sudan, Kenya, Etiopia, Gibuti, ovunque, e sono tutte originarie del Gujarat. Siamo noi gli indù che compongono la vecchissima comunità Xamar di Mogadiscio. Sono connessioni più profonde di qualunque polemica, credimi. Questi criticoni agiscono come Vasco de Gama, che prese a cannonate i porti dell’India meridionale per imporre il suo, di commercio.

Beh, di certo bisognerà tenere pur conto delle complessità storiche e delle tensioni politiche quando si naviga intorno a luoghi che ancora soffrono dei retaggi del colonialismo. La questione dei diritti d’autore in casi come SABD è piuttosto nebulosa.
Io mi domando a nome di chi parlino gli accusatori. Per i musicisti che grazie alla mia raccolta hanno ottenuto visibilità mondiale? Ma questi sarebbero gli ultimi a protestare! E poi, lasciami dire, il concetto di “pubblico occidentale” è nebuloso: ci sono un milione di somali che vivono in Occidente, che riempiono interi quartieri di New York o di Londra. Noi vendiamo anche tra quella gente là. Qualche copia in digitale è stata comprata anche in Somalia! Dunque, vorrei chiedere agli accusatori: una volta che questa musica viene riscoperta, abbiamo il diritto di farla circolare per il mondo? Se, come credo, al 99% la risposta sarà: “Sì”, allora vorrei capire questa gente quali soluzioni offre per impacchettare, promuovere e vendere questa musica nel modo più consono, più corretto. La verità è che un disco come SABD può aiutare a cambiare la percezione della Somalia: un paese finora conosciuto soltanto per la pirateria. E allora, dobbiamo disperarci se questo revival culturale è guidato da una piccola etichetta animata solo dalla passione, anziché da una grande corporation come Sony, che nemmeno ce l’ha un ufficio a Lagos o Addis Abeba?

Paolo Mossetti è nato a Napoli, ha studiato economia e antropologia, lavorato come cuoco a New York e nell'industria editoriale inglese, in ordine sparso. Segui la sua pagina Facebook.

Si ringraziano Ostinato Records e Janto Djassi/Picture Me Different per le foto.

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