A Perfume Genius non frega niente dei vostri insulti omofobi
Fotografie di Matthew Leifheit.

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Musica

A Perfume Genius non frega niente dei vostri insulti omofobi

Almeno, così ci ha detto quando gli abbiamo chiesto di quello che è successo qualche mese fa a Torino. Lo abbiamo intervistato prima del suo concerto a Linecheck.

Ci sono solo due performance del Letterman Show che ho guardato più di dieci volte. Una è quella dei Proclaimers nel 1989, perché stavo per andare a vivere in Scozia e un amico inglese mi aveva detto che solo se fossi riuscita a capire i membri della band meglio di Letterman sarei stata a posto con la sopravvivenza. L’altra è quella di Perfume Genius che fa “Queen” da Too Bright, perché c’è tanta musica al mondo che è bella, però alcuna musica bella è diversa perché serve. Tipo:

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Perfume Genius, nome d’arte di Mike Hadreas, ha all'attivo quattro album che presi insieme raccontano la storia di una persona che entra in sintonia con se stessa: praticamente si sente Hadreas che si appropria delle cose che prova, della sua voce, dei suoi testi, delle sue movenze, e ne fa degli strumenti per comunicare. È un po’ la differenza che c’è tra la ribellione e la rivoluzione: un cammino che si può realmente sentire succedere dai primi album a Too Bright all’ultimo No Shape—che se ha del cupo ne ha nel senso più barocco del termine, quello che c’era negli interstizi tra le foglie d’oro.

Quindi, in attesa di vederlo nuovamente live a Linecheck il 23 novembre, l'ho chiamato durante una pausa pranzo per parlare di cambiamento, politica e prassi scrittoria.

Noisey: Come molti, mi sono resa conto dell’evoluzione che la tua musica ha avuto: dalle sonorità più intime e “semplici” dei primi album ai toni più ricchi e barocchi di Too Bright e No Shape . È un percorso di scelte musicali razionali, o ha più a che fare con una tua crescita personale?
Perfume Genius: Penso un po’ entrambe le cose. Il primo album, be, erano le prime canzoni che scrivevo; poi con il secondo avevo già fatto un po’ di concerti e quindi ero un po’ più sicuro, ma ancora non mi sentivo abbastanza sicuro. Allora mi sono spinto oltre. Mi sembra sempre che la mia musica sia un po’ più coraggiosa, un po’ più sicura di quanto lo sono io.

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Durante una live session su KEXP hai detto che all’inizio scrivevi quasi per te, in quella che hai chiamato “una maniera più ‘egoista’.” Ora è come se addirittura creassi una sorta di ambiente condiviso con il pubblico, durante i concerti.
Scrivere e registrare mi hanno sempre fatto sentire libero, ma esibirmi non tanto, perché sono sempre molto ansioso. Ma ora penso—non che i miei concerti non fossero belli all’inizio, o forse sì, non saprei—ma ora mi sembra che siano più una performance, una cosa condivisa. A volte ci sono ancora dei momenti [durante i concerti] molto intimi, ma sono anche più “selvaggi”, ballo e urlo di più, improvviso. E dipende tutto dal fatto che ho trovato il mio spazio—non che sia rilassante, anzi. Ma mi sono lasciato andare.

Quando sei sul palco sei ancora un po’ ansioso?
Sì, soprattutto tra una canzone e l’altra. Cerco di mantenere viva quella sensazione di libertà il più possibile, ma non dura per l’intero show: è come la vita, non sei sempre, tutto il giorno, sull’onda positiva.

A proposito, quali sono i concerti a cui hai assistito che pensi abbiano cambiato il tuo modo di stare sul palco, tipo Wow, è così che vorrei essere sul palco.
Moltissimi. Ho visto Elliott Smith quattro o cinque volte: non era una cosa eccessiva, ma lui si muoveva, era affascinante. Ho visto anche Cat Power un paio di volte, ed è stato lo stesso, era semplicissimo. È un po’ quello che vorrei dai concerti—non che ci debbano essere solo una persona e uno strumento, ma direi che è un modo semplice di ottenere il mio scopo: una performance catartica, sentita profondamente. Ma mi è piaciuta moltissimo anche Circuit Des Yeux, con il suo tono e lo spettacolo selvaggio. Ma sono un po’ due lati della stessa cosa: voglio vedere una persona che perde completamente il controllo, entra del tutto nella musica o in quello che sente.

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Come funziona la tua prassi scrittoria?
È diversa per ogni album. Di solito scrivo musica e testi insieme, ma in questo caso ho scritto prima la musica, e poi in un paio di settimane ho cercato le parole. È stato strano, ma anche divertente, mi ha fatto sentire bene avere questo lavorio continuo e frenetico in testa, continuare a pensarci la notte e svegliarmi pensandoci. Quello di scrivere è sempre un processo drammatico. È tutto molto drammatico—scrivere lo è sempre—vai su e giù per la stanza, sei ossessionato, non smetti di pensare.

Scrivi di giorno o di notte?
Se fosse per me sarei uno che scrive di notte, ma il mio ragazzo dorme e di giorno va al lavoro, quindi scrivo di giorno [ride]. Se avessi tutta un’ala di una grande casa infestata, starei tutta notte sveglio a scrivere, ma… E poi è c’è un risvolto che mi piace, avere un lavoro dove attaccare al mattino e poi smontare la sera. Sono sempre stato abbastanza irresponsabile, ed è stato bello dedicarmi del tutto a una cosa, trattarla come un vero lavoro. Ho trovato il modo giusto di usare la pressione e la consapevolezza del fatto che le persone ascolteranno quella canzone, e che la mia vita dipende da quello. La uso come un carburante—per dare il massimo, non mi metterò a scrivere qualcosa solo perché provo delle cose. È difficile cominciare, ma una volta che cominci è come un’onda che cresce.

Pitchfork ha scritto su No Shape una cosa che secondo me è verissima: c’è una nuova sensazione di equilibrio, speranza e luce nel tuo ultimo album. Quest’ultimo anno, con le elezioni di Trump e l’intera situazione globale, gli artisti più attivi hanno cercato di promuovere un messaggio di speranza e unità contro odio e discriminazione. Hai anche tu la sensazione di essere parte di qualcosa di più grande?
Sì—non direttamente: quando quest’album è uscito le elezioni non c’erano ancora state, ma è comunque contro Trump e tutte le persone che lo sostengono, perché sono cresciuto circondato da supporter di Trump, gente che lo era anche prima che Trump fosse candidato. Io scrivo contro di loro e per le persone che stanno dalla mia parte.

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Sono felice dell’album, perché è difficilissimo trovare qualcosa che ti faccia sentire bene ma non sia una fuga. È questa la cosa difficile da trovare: qualcosa che ti faccia stare bene ma ti faccia anche sentire forte, potente. E spero che la mia musica un po’ lo faccia. È vero che ora ci sono persone che cercano i significati o gli artisti che provano a dare dei significati—ma comunque, l’idea che la maggior parte delle persone ha della musica che passa in radio è che serva a fare festa. La gente non ha voglia di darsi da fare. Per ora.

Nel corso di questi anni sei diventato più “bold” come artista e come figura: non solo la musica, ma anche il modo in cui stai sul palco e i tuoi testi hanno un chiaro impatto. Ero a Torino quando dei ragazzi ti hanno urlato contro degli insulti omofobi—come ti comporti in questi casi?
Penso che [a Torino] fosse un uomo solo che mi urlava contro in italiano, quindi nemmeno capivo, buffo no? Voglio dire, non mi interessa, e metà delle mie canzoni sono di ribellione, quindi mi limito a cantarle più forte. And I show my ass even more. Comunque, non succede più tanto spesso—di solito sono solo uomini pieni di odio: a volte quando la musica è tranquilla loro sentono il bisogno di riempire il silenzio e la quiete con qualcosa di rumoroso. Però sarà successo giusto una o due volte che persone sbronze mi infastidissero—mi hanno anche infastidito persone che volevano essere gentili con me, eh, solo che erano TROPPO gentili e volevano salire sul palco etc.

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Tu hai anche una formazione cinematografica, e i tuoi video risuonano con la tua musica—sono profondi e di forte impatto. Come funziona il processo creativo?
Faccio una specie di moodboard, magari so un paio di scene e il tema. Per Slip Away avevo la trama generale, volevo che parlasse di una relazione non romantica ma molto profonda tra me e una donna. E magari di solito ho qualche altra idea, sull’ambientazione etc, quindi mando al regista il moodboard con le idee, e poi quadri, colori, umori, parole di contesto, o altri video o scene di film. Quando il regista torna ha un’idea più precisa di trama e ha le sue idee, e finisce che… Sai, è come quando lavori con chi produce le tue canzoni, sono tue ma sono anche loro, e alla fine diventano di tutti. E diventano qualcosa di un po’ nuovo, ma di solito lavoro con persone che amo talmente tanto che qualunque cosa aggiungano, qualunque sia l’idea che portano, è così in linea con quello che amo che rende tutto migliore.

Grazie mille Mike.
No problem—Ci vediamo tra una settimana?

*_*

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